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Autore: Yuri Black    16/04/2014    0 recensioni
Apocalittica fine del mondo che segna anche la fine della vita del protagonista, un ragazzo che al momento dell'inizio di tutto il disastro terrestre aveva diciannove anni e di un animale simbolico.
Vi chiederete "Perchè tramonto?"
Ve lo spiego come anche il ragazzo lo dirà in poche parole. Il sole muore lasciando la distruzione nel mondo e la sua morte.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tramonto


Un’enorme landa di distruzione e morte ora ricopre il terreno che per secoli, anzi millenni,
fu calpestato da uomini e animali. Lì giacevano i resti di una città ormai deserta, ormai in
totale declino e decadenza, sotterrata da ricordi e lacrime delle anime che un tempo ci
vivevano. Dal momento in cui era iniziata la distruzione di questo pianeta, mi sono
ritrovato più volte di fronte a situazioni difficili.

Stavo tornando a casa, avevo solo diciannove anni, quando davanti ai miei occhi una
scena raccapricciante si fece largo nell’atmosfera circostante: una coltre nera come la
pece ed alta più di qualunque costruzione esistente stava avanzando verso la
popolazione. Ci eravamo tutti riuniti a guardare quella scena, alcuni rimasero impietriti
attendendo la morte, altri scapparono con qualunque mezzo a loro disposizione, come
anche gli animali. Io fui uno di loro: corsi più di quanto i miei polmoni mi permettessero e le
mie gambe si muovevano quasi senza il mio controllo, non importava la direzione, contava
solamente salvare la pelle. Non riuscii ad aiutare nessuno, era il caos più totale, non mi
voltai mai indietro per guardarmi alle spalle, tenevo gli occhi puntati dinanzi a me e ce la
feci, scampai alla morte, nascondendomi sottoterra, in un container costruito tempo prima
in evenienza di trombe d’aria. Ripresi fiato, ero a corto di forze dopo quella botta
d’adrenalina che ancora pulsava nelle vene e nel cervello, sembravo drogato. Ero
terrorizzato, sentii un enorme fischio che riempì l’atmosfera e vidi della polvere nera entrar
dalle fessure della porta in cui mi ero letteralmente lanciato: era cenere. Mi guardai attorno
non sapendo cosa fare né cosa sarebbe accaduto dopo quella catastrofe, quando realizzai
di esser totalmente solo, probabilmente i miei genitori, i miei amici, la persona che amavo,
gli animali e la gente che abitava la città erano tutti morti. In quel momento scoppiai a
piangere buttandomi sulle ginocchia, disperato e privo del coraggio che serviva per uscire
nel mondo soprastante e confermare ciò che in quel momento mi attanagliava il petto.
Avevo paura.
Passarono i giorni e alla fine uscii dal bunker per ammirare uno spettacolo spaventoso:
giacevano a terra i resti delle case andate distrutte dalla violenza delle mille intemperie
aggressive che nel corso delle giornate si erano abbattute su quella terra martoriata, ormai
marcita sotto i miei piedi. C’erano crepe profonde che percorrevano il suolo e una
moltitudine di corpi umani sparsa attorno a me, ma non ebbi abbastanza coraggio di
guardarne i volti per scoprirne un parente, un amico, un compagno di studi. Era tutto così
assurdo e impossibile, ero l’unico ad esser sopravvissuto? No, non potevo credere di
essere l’unico, era impossibile, ma non potevo di certo cercare in tutta la città i
sopravissuti. Faceva male, troppo male, così mi allontanai dirigendomi verso il bosco
posto alle spalle dell’enorme città o almeno, ciò che ne era rimasto. Durante il tragitto notai
non solo persone morte, ma anche animali, dai mammiferi come mucche, cavalli, cani,
gatti, ai volatili come corvi, cornacchie, piccioni, passeri… tutti erano morti, stesi a terra
anche nei punti più impensabili, ma ancora nessun superstite oltre il sottoscritto. Pensavo
che sarei morto in fretta, ero sopravvissuto solo grazie ai rifornimenti contenuti in quel
bunker, tutto cibo in scatola, ma ora non avevo nulla se non carcasse che di certo non
mancavano. Raggiunto il bosco mi ci inoltrai, lasciandomi tutto alle spalle.
Ero stanco, mi dolevano le gambe e lo stomaco iniziava a chiedermi del cibo o almeno
dell’acqua, ma non potevo bere acqua nera e mangiare cadaveri. Barcollavo, gemevo, ma
alla fine trovai un animale che, seppure stesse esalando gli ultimi respiri, era ancora vivo.
Mi avvicinai ai palchi del cervo che pareva aver non più di tre anni e ne accarezzai
amaramente il manto color castano scuro, non riuscii a guardarlo negli occhi quando
cessò naturalmente di respirare, avevo tremendamente fame e presi un coltellino svizzero
che avevo trovato nel riparo ed incisi la pelle e poi i muscoli. Mangiai per un periodo più o
meno lungo, bevvi dalle acque che nel frattempo si erano schiarite e sopravvissi.
Avevo perso le speranze quando vidi un gruppo di superstiti, tre donne e un uomo
accompagnato da un bambino di circa sette anni. Mi guardavano increduli quanto me,
sentii le lacrime scivolare lungo gli zigomi e finalmente una luce si accese nel mio cuore:
non ero più solo.
In breve tempo incontrammo altri superstiti, alcuni malati che morirono durante il tragitto
ed altri che invece volevano ucciderci per cannibalismo, ciò fa immaginare quanto il cibo
scarseggiasse. Resistettero solo un ragazzo di sedici anni e una donna sulla trentina, mi
legai molto a tutti, eravamo una squadra e tentavamo di incoraggiarci a vicenda, era come
una seconda famiglia, ma a tutto c’è una fine… un gruppo di persone, uomini dai trenta ai
quarant’anni, ci tesero un’imboscata armati di fucili da caccia e cani che tenevano a stento
nei loro guinzagli. Tremai e cercammo tutti di proteggere il sedicenne ed il bambino, ma fu
un tentativo vano. Furono i primi ad esser trafitti dai colpi di fucile, eppure il sedicenne
tenne testa ad un uomo e scappò con me, tutti morirono, di nuovo. Corsi disperato mentre
urlavo a Craig di fermarsi, stava sanguinando dal petto e sapevo che non sarebbe
sopravissuto. Girammo finché resistette, due settimane, aveva un fisico forte e io tentavo
qualsiasi rimedio, eppure non riuscii a far nulla. Quella notte morì tra le mie braccia: lo
stavo stringendo coprendolo con una coperta che mi ero portato appresso dall’inizio della
fine, cercavo di scaldarlo dato che aveva la febbre più alta del solito e tremava come una
fogliolina in autunno propensa a staccarsi dal ramo su cui era nata e cresciuta, e come
essa, si staccò nel sonno dalla vita stessa. Lo sotterrai e piansi, piansi giorni interi e fu lì
che decisi che sarei morto a casa mia.

Ora sono qui a camminare, sono passati due anni da allora. Sono scampato alla morte
molte volte, eppure ora che ho contratto una malattia sconosciuta, non avendo ospedali e
medici, aspetto solo la fine, seduto su un masso a guardare l’oceano di fronte a me e a
quella che doveva essere la mia città natale. È tarda mattina, nonostante io sia
particolarmente stanco oggi, non riesco a dormire e quindi rimango a fissare le acque
apparentemente calme che brillano alla luce del sole. Ce l’ha fatta la natura, ha ripreso ciò
che è sempre stato suo, sterminando tutto e tutti.
Mi sto perdendo nei ricordi quando all’orizzonte, tra le macerie insabbiate di una casa,
compare una sagoma nera, troppo grande per esser umana. Mi alzo nell’immediato,
saltando dietro il masso su cui sono stato appostato tutto il tempo e scruto l’essere che si
sta avvicinando fino a riconoscerne le forme.
Un lucente manto nero contornato, sul possente e lungo collo, da una folta e lunghissima
criniera nera, lievemente ondulata che si scosta dal corpo per via del vento proveniente
dalle acque oceaniche. Sta avanzando alzando in modo fiero gli arti anteriori mettendone
in evidenza la forza e la muscolatura che li componevano e con i posteriori scalcia la
sabbia dietro sé. Noto la coda davvero molto folta dondolargli tra i garretti che si muovono
elegantemente uno affiancato all’altro quasi a toccarsi. Mi pietrifico nel vederlo: è
bellissimo. Si volta verso di me incrociando lo sguardo dopo essersi avvicinato di qualche
metro e solo ora noto il manto sporco di cenere e di polvere mista alla sabbia della
spiaggia, sembra addomesticato, non pare temermi, ma pare assetato e affamato. Dalla
tasca della giubba estraggo un pezzetto del pane rubato ad un gruppo di persone di ieri
accampate non molto lontano da qui, avevo imparato nel corso degli anni ad esser egoista
per sopravvivere, lo porgo a lui rimanendo immobile in quella posizione finché non si fosse
deciso ad avvicinarsi di sua spontanea volontà, cosa che esitò a fare.
-Quante volte avrai dovuto temere noi uomini? Mi domando ancora come fai a non esser
morto bello mio… o dovrei dire bella?- mentre pronuncio le ultime parole, mi chino di lato
col capo per constatarne il sesso: stallone.
-Bello, sì. Un bel ragazzo sei. Non è avvelenato il pane, anche se è duro, mi spiace, ma è
tutto ciò che posso offrirti da mangiare. Non voglio ucciderti, stai tranquillo.- nonostante le
mie parole, l’animale non accenna ad avvicinarsi. Sospirando mi siedo. Al movimento lo
stallone alza la testa elegante verso l’alto mostrandomi il bianco dei suoi occhi spaventati
e serrando le labbra in un gesto di evidente timore e, se posso, anche di sfida da parte
sua. Poso il pezzo di pane secco sul terreno ed incrocio le gambe attendendo la sua
fiducia e nel mentre lo ammiro in tutta la sua possente bellezza ed eleganza. Zampe
robuste e potenti segnate da qualche graffio dovuto alle marce troppo prolungate e da
qualche arbusto incontrato sul tracciato percorso da lui. Guardo di seguito il petto ampio
anch’esso segnato, il collo è grosso e spesso, le fasce muscolari che lo compongono sono
robuste e solide, flessibili. Il suo muso è diritto e dalle ganasce forti, le narici larghe e gli
occhi, semicoperti dal folto ciuffo che vi ricade sopra, sono grandi, limpidi, di un nocciola
scuro e la pupilla orizzontale nera che è puntata verso di me per tutto il tempo. Alle volte
scuote la nuca portando le orecchie vicino al collo, appiattendole mentre avvicina la bocca
al petto arcuando l’incollatura che subito dopo distende verso di me, quasi curioso,
annusandomi. Non manca molto quando finalmente decide di fidarsi e assaggia il cibo
offertogli, gradendolo mentre io gli appoggio delicatamente la mano sull’attaccatura dei
crini al collo, sentendone il calore e la morbidezza del manto. È agitato, eppure non
scappa né tenta di mordermi, un buon segno. Gli sorrido quando solleva la testa dalla
sabbia, volto contro muso, i nostri occhi si incrociano: ha uno sguardo triste, nostalgico,
ma nonostante ciò si fida di me, avverte la mia energia la quale, a parer mio, è più da
codardo che da bravo ragazzo.
Tento di salirgli in groppa aiutandomi con un masso, mi siedo delicatamente sulla groppa
del destriero caldo, i suoi respiri profondi ed i muscoli non tesi come mi sarei aspettato, è
particolarmente calmo e la cosa mi fa alquanto piacere. Passo il palmo della mano lungo il
suo manto prima di spronarlo in un galoppo sfrenato sulla spiaggia, mi tengo saldamente
ai crini che mi frustano dolcemente il volto, sento il suo respiro affannato, i muscoli
muoversi sotto il mio corpo, la sua potenza ed il vento tra i capelli, al che apro le braccia
dopo aver trovato la stabilità su di lui e urlo con tutte le forze nel mio corpo, il fiato mi esce
dalla bocca e mi sembra di rinascere. Sto volando. Non accenna ad alcun cedimento,
continua a muoversi velocemente ed al contempo con forza, allungando le zampe in
lunghe falcate che in un tempo breve, seppur intenso, terminano con un trotto per
riprender fiato e fermarsi, arcuando il collo, abbassar la testa e alzarla per poi voltarsi
verso l’orizzonte oltre l’oceano e guardare il sole che sta tramontando. Io lo imito e mi
accorgo solo adesso che la giornata è passata velocemente. Mi distendo sulla sua
schiena, abbracciandone l’incollatura ed il petto, sfiorandogli il torace con le gambe,
annusandone l’essenza che evapora dalla pelle bagnata di sudore, il respiro pesante che
lentamente si stabilizza… e decido di smontare facendomi scivolare sul suo fianco. Mi
metto di fronte a lui, nuovamente viso a muso, occhio ad occhio, il suo ora brilla di un
ambra brillante dovuto alla luce del sole, gli stampo un bacio al centro della fronte dopo
aver scostato il folto ciuffo su un lato e stringo il suo muso tra le mie braccia: è giunta la
nostra fine.
Mi stendo sulla sabbia chiara e fine, guardo il cielo assieme allo stallone ancora in piedi
dietro di me, anche lui con lo sguardo rivolto ai colori caldi che la natura ci offre per l’ultima
volta, le sue tonalità arancioni e violacee che si espandono dal sole facendo brillare le
acque che ondeggiano sotto i raggi i quali vanno via via scemando proprio come le mie
forze. Il cavallo si avvicina alla mia nuca e, con un movimento che pare quasi un inchino,
si stende poi sul terreno, sbuffando pesantemente l’aria dai polmoni stanchi. Lo guardo e
sorrido, appoggio la guancia sul suo addome caldo col mio corpo steso tra le sue zampe
piegate, mi sta guardando ancora un’ultima volta ed io ne ricambio lo sguardo.
-Ci vediamo dall’altra parte, ragazzo.- sussurro rivolgendogli un piccolo saluto, per poi
spostar gli occhi al sole che, come le nostre due vite, sta calando, annegando nell’oceano
lentamente, inesorabilmente, ma io ho la certezza che, nonostante la nostra fine sia
giunta, le nostre anime risorgeranno domani incontrandosi di nuovo.
Un’ultima carezza mentre sento l’animale respirare più pesantemente, noto la sua testa
che si abbassa sul terreno e si allunga sul lato, trascinandone il corpo che si sposta
lievemente sul fianco, respirando sempre più lentamente. Come lui, anche io inizio ad
ansimare sempre più lievemente, sento le forze svanire nel nulla e la mia anima evaporare
attraverso i miei pori e la sua attraverso il suo nero manto. Avverto la lacrima che
lentamente gli solca il muso e che tocca la sabbia, bagnandola, e cerco di rassicurarlo con
un’ultima carezza per poi chiuder definitivamente gli occhi, assieme, ed esalare all’unisono
l’ultimo respiro prima di spirare nell’aria assieme alle nostre speranze, i nostri desideri, i
nostri amori, i nostri vizi e le nostre virtù, le nostre lacrime e la nostra gioia. Tutto è asceso
verso la luna che egoisticamente ha preso il posto al sole, ma ricorda, ragazzo, non è
finita qui, ci rincontreremo.
   
 
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