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Autore: Perceptions    17/04/2014    2 recensioni
Si ritrovava dunque in quel lungo viale alberato, uno tra tanti studenti reduci come lui dall'ultima lezione del giorno, desiderosi semplicemente di tornare a casa.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminava per inerzia, proseguiva per il lungo viale alberato che l'avrebbe portato alla fermata della metro. Solo 10 minuti prima era in aula, impegnato nel tentativo di comprendere alcune dimostrazioni matematiche e appuntare alcuni appunti. Analisi alle 7 di sera, un suicidio insomma. Come si poteva pretendere che degli studenti comprendessero teoremi, corollari e altra roba matematichese a quell'orario, aveva pensato. Bè, d'altronde quando la persona era mai stata più importante della burocrazia?

 

Si tratta di un dolore comune, una sofferenza condivisa ma non per questo meno tragica. Pesava sull'animo, così come pesa il silenzio prima di un bacio. Era un dolore comune, ma non per questo più blando: aveva penetrato la carne, e si era insinuato in quell'angolo remoto della mente, rendendo il tutto più terribile. Quella realtà fissa lì, come a voler ricordare colpe non commesse eppure esistenti.

Il dolore è complesso, forse più dell'amore. Non è un attimo, non un minuto o un'ora. Il dolore è uno stato dell'essere, una sorta di peccato originale che coesiste, emergendo e nascondendosi nel corso dei giorni. L'uomo, vivendo, accetta il dolore, inconsapevole: è il suo prezzo da pagare, il prezzo di una vita che avrà solo una parvenza di felicità, con quel perenne retrogusto amaro non riconosciuto, o forse non riconoscibile.

 

Si ritrovava dunque in quel lungo viale alberato, uno tra tanti studenti reduci come lui dall'ultima lezione del giorno, desiderosi semplicemente di tornare a casa. Si muoveva quasi per inerzia – avete presente quando, immersi nella propria routine, si vive senza la coscienza di farlo? Ci si sveglia, si spegne la sveglia, si saluta gente, si cammina, si respira. Azioni meccaniche, azioni addirittura indispensabili che perdono tuttavia la propria essenza e la propria importanza a causa della meccanicità e della ripetitività. Diventano quotidiani, banali, scontate, per cui smettiamo di dar loro importanza. Accadono, senza che le si vivano davvero. E dunque camminava, senza camminare davvero. Alcune centinaia di metri lo separavano dalla meta, poco più di cinque minuti a passo moderato.

 

Camminava con passo meccanico, con gli occhi inclinati verso il basso. Le strade erano ricoperte di un tappeto di foglie, di un caratteristico marrone autunnale. Alcune erano talmente state vittime delle intemperie del tempo e dell'uomo da essere diventate quasi parte integrante dell'asfalto. Lo divertiva, l'idea di una strada decorata con motivi, floreali magari. Come lo si definiva? Decoro urbanistico. Non era sicuro fosse esattamente decoro, ma vabbè, nessuno l'avrebbe rimproverato per un termine erroneamente scelto all'interno di un monologo dal dubbio senso logico che non sarebbe stato mai pronunciato.

 

Aveva ormai superato il primo isolato quando decise che il rumore delle auto era un'aggressione acustica dopo tre ore di analisi, perciò decise di proteggersi portando le cuffie alle orecchie e camminando con passo lento e controllato, senza tuttavia una meta ben precisa. Probabilmente avrete presente quei momenti in cui non si desidera altro che camminare senza sosta, per il solo piacere di camminare e poter godere di quell'ultimo tepore serale che ben presto li avrebbe abbandonati.

 

Decise di deviare verso un parco nelle vicinanze; pochi minuti e giunse a destinazione, scrutando con attenzione alla ricerca di una panchina libera. Una volta individuata vi si diresse e vi si sedette.

Era un autunno inusuale, quello. Erano gli ultimi giorni di settembre e, nonostante l'autunno fosse ufficialmente iniziato, vi erano ancore le tracce di un'estate decisa a non arrendersi alle leggi naturali: un sole ormai al termine della sua giornata illuminava il parco, riscaldando con un inaspettato, ma non per questo indesiderato, calore gli alberi, le foglie, le persone, conferendo al tutto una luce e dei colori quasi caravaggeschi.

 

Poté godere di un silenzio sociale, carico di una certa solennità: la giornata lavorativa era ormai al termine, le ultime auto sfrecciavano sull'asfalto ancora caldo, tradendo una felicità non così inaspettata, dopotutto. E nonostante questi echi umani, il silenzio di quel parco era carico di una certa profondità, di un certo significato.

 

Il rosso delle foglie, quasi sangue.

 

“Va bene. Va tutto bene. Sto bene. Sto davvero bene.”

 

Piccoli passerotti alla ricerca di cibo si aggiravano nei dintorni della panchina. Piccoli e graziosi in tutto il proprio essere, modesti eppure emblema di un sogno solenne. Non ci si sofferma sulle piccolezze, giorno d'oggi, il mondo è scontato ai nostri occhi e i dettagli ci sfuggono. Il passerotto, in tutta la sua modestia, sfugge all'uomo come la libertà che vuole rappresentare, una libertà che l'uomo ha desiderato, desidera, ma non riesce ad ottenere e dimentica.

 

Era un'apnea, eterna. Nonostante quegli ultimi raggi estivi lo riscaldassero quasi a volerlo consolare, sentiva quella pressione. Interna ed esterna. Due forze, continue, inarrestabili, incostanti, che premevano in direzioni diverse. E intanto il passerotto decise di abbandonare la ricerca e volar via.

 

Si era trattato di un solo scambio di sguardi.

 

Le cuffie continuavano ad emettere quel silenzio mentre in mente si manifestava il rumore della confusione. E il rimpianto colpiva, più forte che mai.

 

Fu uno sguardo. E fu amore. Fu passione.

 

E quel rimpianto, ancora, rimorso. Una stretta allo stomaco, un battito accelerato, e il ricordo di quelle labbra, e di quella felicità, e di quella tristezza. E di quell'ansia, e di quella lacrima.

 

Fu passione, e fu odio. Fu quel dolore sulla guancia e nel cuore, vivido come se fosse stato appena impresso. E fu quello sguardo, carico di un amore tradito che, brillando, illuminato da un crepuscolo quasi cremisi, penetrava la carne, e l'animo. Il suo sguardo. Le sue mani, cariche di una rabbia e di una virilità ormai persa e mai ritrovata.

 

E ancora quella lacrima. E decise di abbandonarsi, sebbene la società non lo ritenesse giusto. Non doveva piangere, lui.

 

“Si tratta di un dolore comune, una sofferenza condivisa ma non per questo meno tragica.”

 

Si alzò, in quel silenzio solenne, illuminato da quel sole che sembrava volerlo accompagnare in una missione sconosciuta sino ad un istante prima. E fu epifania, e fu luce. E corse, verso quel rumore umano, artificioso, ma non meno solenne.

 

“Pesava sull'animo, così come pesa il silenzio prima di un bacio.”

 

E quel bacio. E quella passione, l'accompagnarono in quella disperata corsa. E quel dolore, ancora impresso nella carne. E quel silenzio, che si apprestava a farsi sempre più solenne, quasi come in quel momento, quando i loro sguardi si incrociarono in quel giorno di Giugno, in quel parco.

 

“Era un dolore comune, ma non per questo più blando: aveva penetrato la carne, e si era insinuato in quell'angolo remoto della mente, rendendo il tutto più terribile.”

 

Lo guardò un'ultima volta, nella sua mente, e fece per dimenticare mentre proseguiva in quell'ultima corsa disperata. Un ultimo eco, un ultimo urlo, e poi fu il silenzio.

 

“Il dolore è complesso, forse più dell'amore. Non è un attimo, non un minuto o un'ora. Il dolore è uno stato dell'essere, una sorta di peccato originale che coesiste, emergendo e nascondendosi nel corso dei giorni. L'uomo, vivendo, accetta il dolore, inconsapevole: è il suo prezzo da pagare, il prezzo di una vita che avrà solo una parvenza di felicità, con quel perenne retrogusto amaro non riconosciuto, o forse non riconoscibile.”

 

E, tuttavia, quel bacio rimase per lui una colpa. Quella gioia, quella felicità condivisa, rimase una colpa marchiata su pelle e su mente. E il silenzio non servì ad espiarla. E quella felicità, con lui, fu persa.

  
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