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Autore: comeundone    18/04/2014    2 recensioni
Se fosse riuscita a mantenersi lucida. Forse, senza quel whisky e quella sigaretta.
Se non avesse avuto quell’idea stupida di dirgli del concerto. Se avesse accettato le sue scuse per la colazione, e basta.
Ma anche, se lui fosse stato un altro. Non Brian, cioè. Se non avesse avuto quel modo assurdo – gelida arroganza in un involucro di perfetta cortesia – di chiedere scusa. Se non l’avesse fatto con quella voce e quello sguardo di distaccata sufficienza, e quel vezzo di scandire tutte le parole.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Brian Molko
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PARIGI

Cette histoire est inspirée de faits réel

mais les noms ont été changés pour protéger les coupables

 

10/12/2013, Parigi

 

Ore 10.40 – Arrivals

Lei

Mentre prende il primo boccone di brioche, con il naso pieno di profumo di burro e vaniglia, sorride tra sé: questo é “cupio dissolvi”, si dice, dopo almeno una settimana di dieta buttata all’aria senza rimpianti. Altro che esseri multidimensionali: abbiamo bisogno di mangiare, di ballare, di sballarci. Abbiamo bisogno della musica e di amore, di occhi e di sguardi che ci arrivano come pugni nello stomaco, e ci fanno cadere sulle ginocchia.

Non pensa a occhi in generale, no. Pensa a due occhi in particolare. Il guaio è che ormai ci pensa talmente spesso, che quando parla con le persone non riesce sempre a nascondere che spesso si perde nel suo mondo popolato di creature bellissime, chitarre rosse e smalto nero.

Mentre pensa a tutto questo, in un bar dell’aeroporto, cerca sul display del cellulare un segnale di pace. Perché quando, alla fine, il suo ragazzo non ha potuto accompagnarla per un impegno di lavoro, e lei ha minacciato di andare comunque a quel concerto a Parigi, hanno litigato, come sempre, ma anche in maniera diversa. Come se lo avesse detto a parole, lui ha capito che lei con la testa era già da un’altra parte e che non c’era trattativa.

Perciò, quella mattina, è sola al tavolino di un bar all’interno dell’aeroporto, e aspetta di trovare il coraggio di uscire fuori in quella che ha sempre pensato essere la città più bella del mondo.

 

Poiché ha gli occhi bassi, fissi sullo schermo del telefono, non vede che lui è entrato, e avvicinandosi al bancone, con gli occhi bassi, fissi sullo schermo del suo telefono, ha sbadatamente urtato il vassoio della colazione, pericolosamente sporgente dopo che lei ha fatto spazio per leggere il tablet, versando in terra quello che resta della brioche e il bicchiere pieno di succo di arancia.

“Merde! Mi dispiace, sono mortificato…” L’espressione del viso, anche se protetto dagli occhiali scuri, dice un’altra cosa. E’ solo sincero fastidio per il casino che c’è in terra, ma nessun dispiacere per chi siede al tavolo. Pantaloni e giubbotto neri, un cappello morbido calcato sulla testa, lei lo guarda, ma il suo cervello si rifiuta di farglielo riconoscere. Forse è la voce, quella voce che per chiunque altro proprietario sarebbe strana, se non decisamente sgradevole, a costringerla a capire chi si trova davanti.

Quella voce, che stia minacciando la fine del mondo che conosciamo o promettendo un nuovo domani, cantando, parlando o ridendo, ha il potere di scuoterla fini dal primo giorno in cui l’ha sentita.

Ricorda perfettamente la sensazione di stupore e disagio che ha provato, ascoltando la radio, mentre una mattina assolata andava – correva, sempre in ritardo – al lavoro. Una voce che le ha insegnato in tre minuti che i confini tra bene e male, tra gli angeli e i demoni, tra un uomo ed una donna, sono davvero labili. 

E passarlo nel modo sbagliato, il confine che ha davanti ora, sarebbe facilissimo. Così respira profondamente alzando lo sguardo su di lui, cercando di farlo apparire il più possibile neutro, e risponde: “Nessun problema, avevo comunque finito.” Brian alza vistosamente un sopracciglio, e getta uno sguardo scettico a terra, indicando i testi della colazione. “We made a fine mess…” annota mentalmente lei, sorridendo tra sé a quella vista.

 

Lui

All’inizio, Brian non è davvero sicuro di volersene occupare. Potrebbe fare un cenno alla cameriera per dire di metter tutto quello che è andato sprecato, e tutto quello che lei potrebbe ancora desiderare, sul suo conto, senza neppure guardarla, o preoccuparsene davvero. Come al solito, in effetti. Sarebbe decisamente poco educato, e perciò ancora più in sintonia con quella voglia sottile di rovesciare il tavolo (metaforicamente, nelle sue intenzioni originarie), con cui si è alzato quella mattina.

Non è un giorno qualunque. L’ha detto, sì, l’ha fatto credere a tutti, dicendolo con quello sguardo un po’ annoiato, molto blasé, con cui, di solito, riesce a nascondere i suoi veri pensieri agli altri. E come tutti i mentitori di professione, come tutti gli attori veri, ha quasi convinto anche l’ultimo spettatore dei suoi show, che dall’ultima fila lo guarda pronto a rimproveragli il minimo errore nelle espressioni e nelle battute: sé stesso.

Ma quel compleanno è un po’ diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. Quella sera suonerà in un città che ama, e che lo amava. E la paura di essere troppo vecchio per incantarla ancora, di mostrare le crepe, di non avere più la luce nello sguardo, per stordire chi ne è il fortunato beneficiario, si è infilata nella sua anima, o qualsiasi cosa di essa abbia resistito al tempo, alle droghe, alle medicine e al disagio di vivere di cui si è riempito i giorni. Quello sguardo che difficilmente ormai rivolge in alto, ad evocare ogni volta un dio o un fantasma diverso e sempre ugualmente terribile. Sa che un limite è stato superato. Il tempo è andato avanti fino ad arrivare ad un punto invisibile, che ha separato il Brian perfetto, bellissimo e immortale nelle suo indulgere nei vizi, dal Brian maturo, responsabile, pulito, e sempre più fragile nel suo ostinarsi a tenersi lontano da quelle miserie.

Perciò, che senso ha quel compleanno? Non può, semplicemente, ignorarlo convincendo a fare altrettanto tutto il fottuto resto del mondo? Con un solo sguardo?

Ora come ora, non riesce a reggere nemmeno quello della ragazza che ha di fronte… Ha davanti l’espressione gelida e gli occhi giudicanti che gli si sono conficcati addosso milioni di volte, fin da quando, sedicenne, girava in abitini corti e trucco ammiccante.

Ma il sorriso involontario di lei, che rompe quella maschera quando lo riconosce, scioglie in un istante il malessere, stretto come un nodo nel suo stomaco e pesante come una pietra sul petto, primo regalo al risveglio di quella mattina; e gli dice che forse potrebbe valere la pena di rischiare un altro giro di carte, prima di abbandonare il gioco.

Lo guarda scostante, ma sembra più una scena provata e riprovata anche quella. Sa bene che, se sei un tipo che non può contare sulla statura per mettere in soggezione gli altri (e lei, anche se seduta, sembra rientrare in quella categoria), un sorriso sottilmente arrogante e due occhi azzurri socchiusi possono farti sentire la prossima preda… al minimo sbaglio.  Ma, povera ragazza, quella era ancora una sfida che può vincere facilmente; è il suo terreno di gioco preferito.

 

”C’è qualcosa che posso fare per rimediare a questo?” domanda con una intonazione fredda e lievemente infastidita, mascherata da un adorabile finto sorriso educato.

Lei, inaspettatamente, contraccambia con lieve sarcasmo: “No, a questo, non credo.”

Brian spalanca leggermente gli occhi, anche se lei non può vederlo, dietro le lenti scure.

E poi aggiunge, con un sorriso altrettanto adorabile sulle labbra: “Ma potrebbe fare qualcosa per questa sera.” Gli occhi di lui sempre più spalancati, e lei sempre più audace: ”Potresti rendere quello di stasera lo spettacolo migliore che abbia mai avuto.”

Brian alza leggermente le spalle, con noncuranza: “Bene, ci proverò...” Inspira, tornando serio. “Hai dei buoni biglietti?” Lei solleva lo sguardo verso un punto imprecisato, come a riflettere sulla risposta.  “Bè, penso di sì. Sono sul parterre”. Lui cerca con gli occhi la ragazza alla cassa, facendogli segno di scrivere qualcosa sulla mano aperta, e ne riceve prontamente una penna ed un foglietto, su cui scribacchia un nome ed un numero.

“Ti piacerebbe sedere in un posto molto vicino al palco e guardare il concerto da lì?” No, pensa lei, se stessi molto vicino al palco non sentirei probabilmente nemmeno una nota, e rimarrei fissa su di te per due ore, completamente priva di intendere e volere. Ma ha la prontezza di guardarlo in modo tranquillo, e di rispondere continuando quel gioco di cortesie che ormai hanno iniziato: “I’ll be delighted, indeed.”

Brian stavolta si concede quasi una risata vera: “Mi piacciono le parole che dici, e come le pronunci…“

“Delighted. Indeed.”, ripete, senza traccia di derisione.

Potrei dire proprio la stessa cosa di lei, signor Molko, pensa lei. “Credo che sia a causa della mia passione per Jane Austen”. Brian alza gli occhiali sulla fronte; oramai si guardano apertamente, senza più imbarazzo o sufficienza.

“Bene, allora chiama questo numero quando arriverai a Bercy, io parlerò con Mark perché ti procuri un posto. Va bene?”

Non va bene per niente, invece. E’ chiaro che sono arrivati alla fine, e il volto di lei si scurisce improvvisamente. Equivocando il suo cambio di umore, Brian aggiunge: “Solo se ti fa piacere, naturalmente. Allora, verrai?” Quando lei alza di nuovo gli occhi nello sguardo enorme dell’altro, le sembra che il mondo si sia davvero fermato. Tutto intorno è sfumato, come se si trovassero all’interno di una grande palla con la neve artificiale. Con uno sforzo enorme, perché le sembra che il sangue non arrivi più alle braccia, né alle gambe, si alza poggiandosi sulle mani, che sono ancora abbandonate sul piano del tavolo, e fa un occhiolino scherzoso al suo interlocutore. “Se è così importante, cercherò di venire.” e lui annuisce, unendo la sua alla risata di lei.

“Bene. Fantastico.” risponde Brian, atteggiando la bocca in quella smorfia “100% Brian Molko”, che sembra voler dire “Non c’è nulla di vero, in quello che hai creduto di vedere e capire, e non ti sei preso nulla di me.”, il che, quasi sempre, drammaticamente, è la realtà delle cose.

 

Ore 11.30 - Le jardin

Des milliers et des milliers d'années

Ne sauraient suffire 

Pour dire 

La petite seconde d'éternité 

Où tu m'as embrassé 

Où je t'ai embrassèe 

Un matin dans la lumière de l'hiver 

Au parc Montsouris à Paris 

 Paris 

Sur la terre 

La terre qui est un astre.

 

Jacques Prévert

 

 

Sta sorridendo. Lui sorride sempre. E lei, è naturale che sorrida. Sarebbe il momento perfetto per accomiatarsi, un saluto frettoloso e sarebbe tutto finito, uno in più di un milione di piccoli incontri inutili che ha già fatto, piccoli contatti casuali tra esseri umani che non vale la pena raccontare.

Per un attimo, lo coglie una fottuta paura di uscire da quell’aeroporto e trovarsi troppo tempo davanti libero prima delle prove, troppo tempo per ricominciare a pensare, troppo per immaginarsi come sarà fantastica quella serata e poi ripetersi come un dottore premuroso: non pensarci, sai che non è più come prima. Non contarci, o dopo farà troppo male.

E poi, come lo scaldo il pubblico ora che sul palco non riesco quasi più nemmeno a guardare Stefan e quando mi giro verso la mia band incrocio solo occhi che sfuggono? 

“Io vado a fare un giro in città prima del soundcheck, vorresti accompagnarmi?”

La fottuta paura si trasferisce istantaneamente da lui a lei, che si vede annuire, senza sapere cos’altro aggiungere.

Per fortuna, per qualche minuto, è necessario soltanto seguirlo mentre si fa strada verso l’uscita e poi ferma un taxi. Brian scambia qualche parola con il guidatore e lei si chiede com’è che riesce a capirlo, non solo quando parla inglese, ma spesso anche in francese, conoscendo male la prima e nulla della seconda lingua…

Sorride tra sé, guardando fuori il cielo tutto sommato abbastanza luminoso per essere dicembre. Pensa che le piacerebbe tanto fermarsi a passeggiare sugli Champs-Élysées addobbati per il Natale.

Trasale quando lui le dice: ”Ora mi dovresti dire come ti chiami, miss Bennet”. “…Elizabeth?”. Sorridono entrambi e lui scuote la testa. “Conosci il parco Montsouris?”

 

Non è così freddo; ed è piacevole passeggiare, mentre lei cerca di raccontargli delle sue precedenti visite alla città e che no, non è certa di esserci stata, in quel parco. In realtà in quel momento non è certa di nulla, che cosa sta accadendo, che cosa è accaduto prima o se quella sensazione di conoscere alla perfezione quale espressione di volta in volta lui farà alle sue parole è un deja vù, o cosa.

Poi finisce le parole. Le muoiono in bocca, perché a parlare non è brava come la storia del capire, e lui non sembra avere nessuna voglia di condividere con lei i ricordi che ha di quella città.

Così, ad un certo punto, si trovano seduti su una panchina, l’una accanto all’altro, con lo sguardo nel sole tiepido, che getta una luce innaturale sulle foglie degli alberi, e nell’aria.

Lui si accende una sigaretta, e sbuffando il primo tiro di fumo le chiede: ”Per essere una fan dei Placebo, ti comporti in maniera piuttosto… inusuale, a giudicare dai segni.” abbassando lo sguardo sul polso di lei, che senza volerlo si è scoperto. Si è fatta fare quel tatuaggio identico, nello stesso posto dove l’ha anche Brian, solo un mese prima.

“Che poi scusa, che cazzo c’entra una come te con il simbolo della sobrietà?” le dice con un tono di voce più duro di quanto intendesse.

“Oh, ma il mio non significa sobrietà. Significa dipendenza. Da cui, sinceramente, mi dispiacerebbe uscire proprio oggi ”.

Sarebbe facile rispondere che non sa di cosa sta parlando. Ma, in effetti, che senso ha ora rimproverare lei, dopo essersi dannato l’anima tutta la vita per eseguire alla perfezione la parte “Sono il più sexy del mondo”?

Alza gli occhi dal polso e non dice niente. Lei, abbassa velocemente la manica fino a coprire le dita della mano.

“Mi aspettavo comunque qualcosa di più classico, che farmi sentire un cretino per la storia della colazione…. Che so, urla, mani nei capelli, foto a raffica…” “Dici che ti sarebbe piaciuto? Non credo. Se insisti comunque ho un pezzo… ma devi toglierti gli occhiali.”

Brian scuote la testa ridendo: “Non posso…”. La ragazza alza il sopracciglio e si gira a guardarlo con la testa inclinata come si fa con un bambino capriccioso, che non vuole fare quello che gli viene detto.

Allora lui si gira verso di lei, con il fianco ed un braccio appoggiati allo schienale della panchina, e la testa sulla mano. Con l’altra, getta la sigaretta, solleva gli occhiali sulla fronte e poi la tende di lato al viso per schermarlo dal sole e da chissà quali sguardi curiosi... A parte un paio di bambini a passeggio con la loro tata, sono soli!

Lei esegue le stesse mosse, e si trovano l’uno di fronte all’altro, il viso troppo vicino, nascosti al mondo da quell’improvvisato nascondiglio creato dalle loro mani, che quasi si toccano.  Sente il fumo della sigaretta appena gettata sulla bocca di Brian, sulla mano, tra loro, a costringere il suo cervello a pensieri razionali, causa-effetto, qui, ora, e pensa che sì, il fumo uccide, ma in quel momento la sta tenendo in vita, perché impedisce alla sua mente di svuotarsi del tutto.

Può vedere finalmente i suoi occhi da vicino, senza che nessuna telecamera ne cambi i colori. Ma non riusce a essere così sfacciata, che per un paio di secondi.

Abbassa lo sguardo, sul naso di Brian.

Poi sulla bocca, imperfetta…. Perfetta. Appena increspata in un sorriso. Innocente. Sensuale. Indecente. Sei solo tu che la guardavi a doverlo scegliere. “Brian… Vuoi passare il resto della tua vita con me?”. Ora la bocca di Brian non sorride più, mentre si morde il labbro, come se non sapesse decidere la risposta giusta. 

“Uhm, tutta la vita non so. Ma posso fare qualcosa per le prossime due ore.” e volta la testa oltre il cancello. “Lì c’è il mio albergo. Sali con me?”.

Lei si volta, appoggiando rigidamente tutta la schiena sulla panchina, e guarda verso l’edificio che lui le indica.

“Così, Brian… Questo è il tuo programma normale per un giorno qualsiasi durante i tour? Raccattare qualcuno nel primo bar e portartelo in camera?”.

Lui attende qualche secondo, con lo sguardo fisso verso il palazzo stile liberty, di quelli che ti fanno sembrare ogni via di Parigi, più elegante del corso di qualsiasi altra città.

“Così… Elizabeth, hai detto. Così, Elizabeth, quando sei a Roma sei solita presentarti con un nome falso e offrire il tuo amore eterno a tipi che conosci da… vediamo…”, guarda ostentatamente lo schermo del cellulare “… un’ora?”

Ora è il suo turno di scuotere la testa. “Touché.” Si alza, e comincia lentamente a camminare per uscire dal parco.

 

 

 

Ore  12.10 – Protège moi

Sommes-nous les jouets du destin

Souviens-toi des moments divins

Planant, éclatés au matin,

Et maintenant nous sommes tout seuls.

 

Quando entrano in camera e Brian si chiude la porta alle spalle, dopo averle ceduto il passo, l’atmosfera è cambiata e decisamente meno naturale, di poco prima. Lei è visibilmente imbarazzata; sente che il gioco le ha preso un po’ la mano e davvero, davvero non se ne sente all’altezza.

Lui sembra distante; forse, un po’ annoiato. La parte razionale di entrambi comincia ad avvertire qualcosa di simile al rimorso; e per metterla a tacere Brian si avvicina al tavolino accanto ad un bel divano, sotto una grande vetrata schermata da tende scure, e versa due dita di liquido ambrato per sé e per lei.

La ragazza dà un silenzioso assenso al tacito invito implicito nell’offerta, e prende il bicchiere dalle sue mani con un breve contatto, che le trasmette un brivido nelle braccia e le fiacca le gambe. Cerca dove sedersi; mentre Brian, intanto, si è quasi steso di fianco sul divano, facendole cenno di appoggiarsi sul letto di fronte a lui.

“Sarebbe carino ora, da parte tua, aiutarmi ad eliminare lo svantaggio, e dirmi qualcosa in più di te.”

Lei alza gli occhi al soffitto come a cercare ispirazione. “Vediamo… Sono nata nel 1972. Bella presenza; punti deboli, l’altezza; punti forti: gli occhi. Ho una figlia di 8 anni, ma non sono sposata.  Mi sono laureata e ho cominciato il mio lavoro, senza più cambiarlo. Penso che i Placebo siano la migliore rock band di sempre e Brian Molko la creatura più fantastica mai apparsa sulla Terra.”

Brian ha ascoltato tutto tenendo gli occhi bassi, con un mezzo sorriso sul volto ed esclama: ”Avevo chiesto di raccontarmi la tua vita, non la mia!” scoppiando in una risata convinta. Pensa che forse il gioco può valere la candela; e si accende una sigaretta, tirando la prima, lenta boccata.

Lei gli chiede se può averne una; lui si sfila la sua dalla bocca e gliela porge, ripetendo il gesto di poco prima, immerso sempre più nella sua migliore interpretazione di “ho venduto la mia anima al diavolo per avere questo sex-appeal, ma faccio finta di non esserne consapevole”. Che poi, il diavolo doveva avere fatto un pessimo affare: l’anima di un santo non valeva la visione che ha davanti in quel momento, figurarsi quella del giovane Brian.

Non cerca neppure di far finta di non esserne attratta; siede di nuovo sul letto senza staccare gli occhi da quella sigaretta, tra le mani e la bocca di Brian, spettacolo che probabilmente farebbe riconsiderare non solo a molte donne l’idea di fedeltà di coppia, ma anche a molti uomini il proprio convincimento sull’eterosessualità.

La sua, di sigaretta, continua a consumarsi, senza che abbia potuto farne più di un tiro. Tenerla tra le labbra è già un’idea abbastanza sconvolgente, essendo stata tra quelle di lui. E tenendola semplicemente tra le labbra, continua a guardarlo, mentre Brian si gode il suo primo regalo di quel compleanno, quello sguardo adorante che in mille copie lo ha accarezzato da quando ne ha memoria, ricambiandolo con un’espressione indecifrabile (un’espressione regalatagli dal diavolo nell’affare di cui sopra, di cui si serve talmente spesso da non ingannare più nessuno sulla sua autenticità o spontaneità, a parte lei in quel momento).

Non vede un portacenere vicino: quindi si alza, cercando di tenersi sufficientemente ferma sulle gambe, e si avvicina al tavolino dove ne ha visto uno. Spegne la sigaretta, si inginocchia di fronte all’uomo sul divano e avvicina il viso al suo, la sua bocca a quella di lui, senza toccarla, pensando: ”Toccami, e salvami, o uccidimi, ma fallo in fretta”.

Brian è attraversato dallo stesso pensiero, ma si chiede al contrario se deve baciarla e farle male, o lasciarla andare e così proteggerla da quel veleno che sente dentro, come sempre. Quando si trova così vicino a lei che la scelta non è più rimandabile, è debole come lo è sempre stato in momenti simili, è egoista, ed è bugiardo nel dirsi che in fondo lei sa benissimo cosa sta per succedere…

Se lo sapesse, o potesse immaginarlo, in quel momento non sarebbe in quella camera con lui.

Non rischierebbe di finire in quell’infinita schiera di sfortunati che hanno creduto di potere avere qualcosa indietro per l’amore, il tempo, la fiducia e l’anima che gli hanno dato; e si terrebbe lontana, lontanissima da quella bocca a cui invece si è consegnata.

Il primo contatto è breve, e lei sente solo l’alcol e il tabacco. Poi Brian si avvicina di nuovo, e di nuovo poggia le labbra sorridendo sulle sue, inclina la testa e chiude gli occhi cercando la sua lingua, per dirle che la vuole. Che ne ha bisogno, meglio. Che è quasi, anche se non esattamente, la stessa cosa, ma lei non è lucida abbastanza per accorgersene.

Dapprima è la sola morbidezza di quel bacio a occuparle tutta la mente e i sensi. Ma dopo qualche secondo, in cui il cervello si spegne e il corpo si accende, finalmente comincia a sentire il sapore di Brian e l’ultimo pensiero razionale è: no, non potevo immaginare una cosa così.

Semplicemente, smette di chiedersi tutte le domande del mondo e di tormentarsi con la più giusta (perché? perché io?) ed è solo un seguire l’istinto, che le dice che avvicinarsi in quel modo al cielo non può essere peccato, in nessuno dei percorsi e con nessuno dei compagni possibili.

Sdraiata tra le gambe di lui, l’androgino Brian, Brian la “diva”, l’angelo senza sesso, Brian il “diverso”, si sente morire ad ogni gemito, ad ogni sospiro, al tocco delle sue mani sulla testa che la guidano nel ritmo e nei movimenti, gli stessi gesti e la stessa urgenza di ogni altro uomo sulla Terra.

La vera differenza con gli altri era che lui può entrare dentro di te molto più profondamente, dandoti molto più piacere e dolore di quanto potesse mai fare su quel letto, usando solo la voce, gli occhi o un sorriso.

E quando, non potendo più sostenere quelle carezze, le ferma le mani e si stende accanto a lei, attirandola in un bacio lungo e quasi straziante per il bisogno che esprime, le sembra che non c’e mai stato, e sa che non ci sarà mai più, un motivo per vivere più vero e più valido di quello che sentiva dentro in quel momento.  “TELL ME WE BOTH MATTER, DON’T  WE?” Che importanza aveva sapere se è amore o sesso o cosa, qualunque parola non può comunque raccontarlo.

E lei, se glielo chiedessero, non avrebbe mai tempo e parole a sufficienza per spiegare quello che è successo e il motivo per cui, da quel giorno in cui l’ha sentito cantare per la prima volta, la sua vita non è stata più la stessa, lei non è stata più la stessa, come se avesse una luce nello sguardo e nel sorriso, che li rende più brillanti di quanto possano mai essere, con qualunque mascara e rossetto.

Si stacca da quel bacio con la stessa sensazione dentro del naufrago, che, esausto, si stacca dal relitto che lo tiene a galla e capisce lucidamente, alzando gli occhi al cielo, che lo sta guardando per l’ultima volta, e che quella distesa infinita di acqua limpida, gelida e di un colore incredibile, sospeso tra il verde e l’azzurro, lo ucciderà tra poco.

Non è certa se sia stato un sogno o quel mare l’abbia visto davvero, negli occhi di Brian steso su quel divano, una mezz’ora prima, e sorride fra sé al pensiero ridicolo di poter misurare il tempo, quel tempo, in qualche modo.

Si stacca da quel bacio e si gira, nascondendogli il volto e premendo la schiena contro il petto di Brian, lasciando che lui la abbracci e immagini di stringere lei o chiunque altro voglia che sia al suo posto. Che differenza fa, comunque?

Brian non può vedere le sue lacrime, mentre entra dentro di lei, che piange per tutta la vita che le scorre nelle vene e le da alla testa in quel momento e che l’abbandonerà tra poco – secondi, minuti, non sa quanto possano resistere – piange per tutto quello che è accaduto e sta per accadere, e per le macerie che sa che lascerà, anche se è tardi per correre via e nascondersi da qualche parte.

E il suo cervello, usualmente così perfetto nel proteggerla e coprirla di una corazza di freddezza in situazioni emotivamente difficili, è incapace di fornirle qualsiasi schermo e anzi le sembra di sentire il tocco delle mani di Brian come se fosse bollente e lei non avesse nemmeno la pelle ma solo carne viva.

Quando lui le viene dentro, con lei, un po’ prima, un po’ dopo (è complicato essere precisi mentre il mondo si rovescia), in quell’attimo sfuggito al tempo capisce che di nuovo – come quel giorno di un paio di mesi prima, sentendo quella canzone alla radio – è morta e rinata, diversa, grazie a lui.

 

 

Ore 14.40 – The bitter end    

See you at the bitter end. 

 

Se fosse riuscita a mantenersi lucida. Forse, senza quel whisky e quella sigaretta.

Se non avesse avuto quell’idea stupida di dirgli del concerto. Se avesse accettato le sue scuse per la colazione, e basta.

Ma anche, se lui fosse stato un altro. Non Brian, cioè. Se non avesse avuto quel modo assurdo – gelida arroganza in un involucro di perfetta cortesia – di chiedere scusa. Se non l’avesse fatto con quella voce e quello sguardo di distaccata sufficienza, e quel vezzo di scandire tutte le parole.

O se lei fosse stata proprio quello che Brian voleva, e si fosse innamorato in due ore come era successo a lei. Se questa luce nell’aria di Parigi non avesse questa maledetta capacità di spandere oro su tutto – tutto.

Gira intorno al palazzetto di Bercy, una gigantesca piramide azteca coperta di verde e stagliata nel sole del primo pomeriggio, terrificante come se dovesse essere il teatro di qualche sacrificio umano.

Metro. Champs-Élysées. Bancarelle per il Natale che arriva. Palazzi - non negozi, semplici vetrine, boutique - palazzi della moda altissimi e inquietanti nello sfarzo esibito e sbattuto in faccia ai turisti. L’Arco di Trionfo. Un monumento alla vittoria accanto all’emblema della disfatta, nella foto che ha chiesto ad un passante di farle per immortalare il momento – come se ci fosse modo o bisogno di fotografare quel cuore a pezzi, per inviarlo su Twitter. Guardate cosa ci ho guadagnato. Guardate quello che ne è rimasto. Accontentatevi delle canzoni, delle smorfie e degli ammiccamenti, dello sbattere di ciglia e degli occhi al cielo. Tingetevi e tagliatevi i capelli come lui, e imparate a scostare le ciocche dal viso con il mignolo. Se non vi arriva ancora abbastanza veleno, leggete le fanfiction. Scrivetele. Sognate di incontrarlo e di avere una storia con lui. Ma, per l’amore del cielo, non lo fate. Davvero. Io ora non chiamerò nessun Mark o come diavolo si chiama. Non rischierò di trovarmi ancora davanti a lui. Voglio almeno uno schermo di qualche migliaio di persone davanti. Stasera voglio stare tra i fan dei Placebo e strillare e cantare “joyeux anniversaire, Brian”, come se non me ne fregasse nulla.

Il concerto è già finito da un quarto d’ora ma esita ad uscire. Ovviamente ci vorranno ancora molte ore prima che quel miele (fiele?) che ha dentro sparisca del tutto. Ovviamente non l’incontrerà più, e quel ricordo sfumerà fino a non poter essere certa che non sia stato un sogno. Ovviamente un giorno riderà di quello sguardo da gatto che ha il topo tra le zampe e gli dice: “Sei morto; ma prima giochiamo un po’”, o di quello falsamente ingenuo, stillante miele, da bambola di porcellana.

Brian sembra semplice da capire da lontano. Finché non ti avvicini, e scopri che lui è molto più complesso.  E’ tante cose diverse tutte insieme, è qualcosa ed il suo contrario, senza apparente confine e in eterna lotta. La perfezione assoluta ed il vaso di Pandora. Sua Maestà la Grazia ed Eleganza, autore di versi immortali intrisi di sesso e droga. L’angelo senza sesso e l’Idea Platonica di Attrazione. Un uomo che sembra una donna che sembra un uomo, in un infinito gioco di specchi in cui la mente si perde. Quello che stava cercando da tutta la vita. Quello che non avrebbe mai più ritrovato in nessun altro.

  
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