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Autore: Alex Wolf    19/04/2014    1 recensioni
Alex "Lex" Wolf è una diciannovenne piuttosto difficile. Fuma, va male a scuola e non ha un bel rapporto col padre; persino dopo molte sedute da uno strizza cervelli Lex è ingestibile. Si sente frustrata, costretta a vivere nell'ombra di una madre che non è nemmeno più viva. Un giorno, dopo una furiosa lite e un'incidente stradale, Lex si ritroverà catapultata in Elemento - un mondo in cui regnano i quattro elementi terreni: fuoco, aria, acqua & terra. Scoprirà di essere una guardiana e di dover correre... se vuole vivere. Kitia, la capitale delle quatto terre, infatti è governata da un uomo assetato di potere, Victor Lake, ce siede sui quattro troni dalla deposizione dei re.
Lex vivrà l'avventura più strana della sua vita con i tre compagni di viaggio: Jared, Mattew e Roxanne.
C'è la faranno, oppure moriranno nell'intento di salvare le quattro terre?
La fenice riuscirà a rinascere dalla proprie ceneri e tornare ad ardere col suo antico splendore?
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1.
 
 


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La luce entrava dalle grandi finestre della mensa riversandosi sul pavimento bianco. Ogni tanto, quando a gente passava attraverso le lame di luce e i vassoi ne venivano colpiti, il riflesso era così fastidioso che mi costringeva a serrare le palpebre. Nell’aria aleggiava un odore forte e non ben identificato, e le risate della gente. Era tutto così statico in quella scuola che, di tanto in tanto, quando mi annoiavo dovevo ricorrere agli antichi mezzi di divertimento: dare fastidio agli sfigati, infrangere regole… godermi la vita.
Mi passai una mano fra i capelli chiari e analizzai la mensa con occhio vigile. Quel giorno nessuno stuzzicava la mia attenzione come nei precedenti. Non ancora almeno. Svariati gruppi stavano iniziando a riunirsi ai tavoli, le persone si sorridevano. Io non ci riuscivo più a sorridere; non da quando Ryan mi aveva tradita.
« Sai cosa penso? », sibilò Laila al mio orecchio, « Che Jenny sia una grandissima stronza! » Le guance le si colorarono di un rosso acceso, mentre le molteplici lentiggini che le ricoprivano il naso scomparivano sotto quel colore sgargiante.
Laila non era mai stata una tipa molto socievole, e questo lo sapevo bene, ma non potevo di certo negare che a volte esagerasse. Non capivo questo suo astio nei confronti di Jennifer Miller. Insomma, quella povera ragazza non le aveva fatto nulla di male a parte, forse, soffiargli sotto il naso l’incarico di organizzare il ballo studentesco. Ma chi ero io per giudicare? Se mai avessi dovuto farlo sarei stata l’ultima della fila.  Scuotendo la testa, mi voltai verso la mia amica e abbassai gli occhi. Laila era più bassa di me di dieci centimetri buoni; i capelli biondo cenere le arrivavano a metà schiena e gli occhi chiari risaltavano sulla pelle pallida. Si muoveva con velocità nei corridoi gremiti di gente,  come un ruscello che scorreva  fra le rocce astutamente, mentre ora, che stava seduta, si agitava sulla sedia come un’anguilla. Mi passai una mano fra i capelli biondi e le sorrisi. Risponderle sarebbe stata una causa persa. Lei era fatta così, nulla poteva farle cambiare idea.
« E sai cos’altro penso? Che sia ora che tu chiarisca con Ryan. » Lanciò un’occhiata furtiva a un gruppo di ragazzi sulla nostra sinistra.
Fra loro spiccava la testa fulva del mio ex ragazzo, Ryan Burton. I suoi occhi neri si alzarono nel momento esatto in cui posai i miei su di lui. Restammo a guardaci per qualche minuto, poi tornai a punzecchiare il mio polpettone – o almeno speravo fosse tale – nel piatto. Mi sentivo ancora addosso i suoi occhi, una presenza costante sulla nuca, che m’infastidiva molto. Sarei volentieri scivolata via dalla sedia e tornata sui miei passi, facendomi largo tra i suoi amici, per lasciargli uno schiaffo in piena faccia ma, per come la vedevo io, quel gesto gli avrebbe dato fin troppa importanza. Ormai la mia storia con lui era chiusa e non sarei tornata indietro. Certo faceva ancora male la ferita che mi aveva lasciato, ma rimaneva comunque una piccola cicatrice e nulla di più  Le briciole del mio passato potevano benissimo essere raccolte da qualche altra piccola vipera. La nostra scuola, di certo, non ne era a corto.
Grattandomi una guancia, raccolsi fra le mani un pezzo di pane –che le cuoche ancora si ostinavano a definire commestibile- e mi guardai attorno: in quel momento una ragazza del primo anno, con lunghi capelli rossi tinti, mi stava passando davanti. Presi la mira e lanciai. La pagnotta disegnò un arco sopra il mio tavolo e si schiantò contro la ragazza, che finì a terra colta di sorpresa. Una risata lasciò le mie labbra, seguita da quella acuta di Laila e del resto della mensa. La rossa si alzò, raccogliendo i libri e mi osservò; gli occhi castani ridotti a due fessure. Sostenni lo sguardo finché non riprese a camminare e una mano si posò sulla mia spalla. Roteando le iridi verso l’alto, gettai indietro la testa per osservare il viso di colui che mi aveva disturbato:  il professor Heyes, insegnate di ginnastica,  mi osservava con occhio critico.
« Perché non usi quel tuo braccio quando giochiamo a palla avvelenata, invece che per tirare cibo alle novelline? » Mi domandò sconsolato.
La presa sulla mia spalla era salda; i calli sulle mani strusciavano contro la pelle scoperta della cavicola; gli occhi chiari mi osservavano freddi. Staccai le sue dita da me e alzai le spalle, noncurante. Sapevo a cosa sarei andata incontro facendo quel lancio ma non m’importava; per un momento mi ero divertita, dimenticandomi della noia mortale che aleggiava fra quelle mura bianche.
« Perché non me lo dice lei, prof? »
« Scommetto che la preside sarà più contenta di spiegartelo al mio posto, Wolf. »
« Ah, mi mancavano le visite all’ufficio di Wanda! » Esclamai, allontanandomi dal tavolino con una spinta violenta che fece stridere le gambe della sedia.
Per qualche secondo nelle mura della mensa si udì un suono lungo e prolungato, agonizzante quasi, poi tutto cessò e gli occhi della gente si staccarono da me, tornando sui propri piatti. Heyes si avviò verso l’uscita della mensa con me alle calcagna. Mi voltai solo per fare l’occhiolino a Laila che ricambiò, con ancora lo spettro dell’ultima risata sulle labbra.
 


*   *
 


Dopo essere usciti dalla mensa, ed essere passati davanti a svariate aule, deviammo verso destra nel corridoio che portava nell’ala sud dell’istituto. La luce proveniente dalle grandi finestre mi accecò per qualche istante. Sbattei le palpebre frastornata, piegando leggermente la testa verso il basso. Mi concentrai sulle mie vans nere e i jeans stretti, e dopo qualche secondo il momento di cecità scomparve. Ultimamente mi capitava spesso, ma attribuivo a questo disturbo il fatto che mangiassi meno del solito. Era come se il mio stomaco, il mio corpo bruciassero tutto con una velocità talmente alta che avevo deciso di smettere di provare a ingerire qualcosa. Era inutile. Più mangiavo, prima assimilavo. Molte ragazze avrebbero pagato per un avvenimento simile, io no. Non che ci sputassi sopra, ma non riuscivo mai a sentirmi sazia; il cibo non era più una fonte di piacere, ma solo una necessità
« Sai, non è stato un caso che io fossi in mensa, Wolf. » Stava dicendo Heyes, mentre faceva scrocchiare le nocche delle sue mani. « La preside ti aveva già convocata. Scommetto che è per la discussione che hai avuto con la Kane, quell’arpia proprio non va giù neppure a me. Ogni volta che le chiedo di fare uscire i ragazzi per portarli con me in palestra, mi urla contro che storia antica è più importante… oh, siamo arrivati. »
Poggiò il palmo su una maniglia e la tirò verso il basso. La porta verde dell’ufficio della preside si aprì, e l’odore di gelsomino al suo interno si riversò su di me come un fiume in piena. Sventagliai una mano davanti al volto ed entrai, congedandomi dal prof di ginnastica con un veloce –arrivederci-. Lui si limitò a muovere la mano e scomparire nel corridoio.
Quando i miei piedi toccarono la moquette azzurra dell’ufficio di Wilma Wood, il mio buon senso era già andato a farsi benedire. Le tende bianche erano tirate, così che la luce non battesse proprio in faccia a Wanda mentre lavorava; l’incenso al gelsomino era in un angolo recondito della stanza, che non riuscivo a individuare, e lei se ne stava dietro la sua scrivania tutta indaffarata. Ogni tanto mi veniva da chiedermi se la sua fosse più una punizione che un lavoro. Insomma, chi mai vorrebbe lavorare in un inferno come la nostra scuola? O meglio, chi mai ne avrebbe il coraggio?
Inspirai a fondo e mi diressi verso l’unica sedia libera davanti alla scrivania, gettandomici sopra con noncuranza. Allungai le gambe sul legno lucidato e poggiai le mani sul ventre, sfoderando uno dei miei sorrisi più smaglianti, sfacciati. La preside non mi guardò nemmeno, continuando a scrivere qualcosa su un foglio. L’unico movimento che aveva fatto era stato scuotere la testa e inarcare per un breve tempo le sopracciglia. Persino lei aveva rinunciato a credere che sarei potuta cambiare, in meglio. Ormai era quella l’immagine sociale che la gente aveva di me: una ragazza senza madre di diciannove anni che tendeva a fare tutte le cose sbagliate. Sempre.  Ma poco m’importava di quello che pensavano gli altri di me. Avevo imparato a non dare conto alle chiacchiere all’età di 14 anni, quando ormai avevo imparato ad andare avanti da sola nei corridoi scolastici senza l’aiuto degli insegnanti o di mio padre.
« Ciao Wanda », la salutai arzilla, attirando finalmente la sua attenzione.
Da dietro gli occhiali rettangolari, la preside Wood mi lanciò uno sguardo di dissenso passando dai miei piedi alla sua scrivania e viceversa. Poi sospirò, si tolse le lenti e si accarezzò il volto con le mani, stancamente. Sembrava più vecchia di quanto mi ricordassi; con quei suoi capelli rossicci legati in uno stretto chignon e gli occhi verdi cerchiati da occhiaie scure, coperte malamente con del fondotinta scadente. Le davo almeno sette anni di più di quanti non ne avesse.
« Alex Wolf, possibile che tu non riesca a stare lontano da quest’ufficio? » Mormorò, più a se stessa che a me.
« Te l’ho già detto migliaia di volte, chiamami Lex. Alex è così formale. Odio le cose formali. » Presi a osservarmi le unghie.  « E poi, cosa vuoi che ti dica? Mi mancavate tu e la tua caffettiera. » Mi alzai, andando verso il mobile dove la preside teneva il frigobar e la caffettiera, sempre pieni.
Quando mi versai da bere in un bicchiere, il profumo del caffè mi salì fino al naso inebriandomi per qualche secondo. Quella bevanda aveva un non so che di rilassante sui miei nervi. Riusciva a sciogliermi. Ne bevvi un sorso con tranquillità, mentre Wilma mi osservava da dietro la scrivania. Mi sentivo il suo sguardo indagatore addosso, pressante sulle spalle; perciò decisi di voltarmi e poggiarmi al comodino che reggeva tutte le cibarie. Portai ancora la tazza alle labbra e il caffè scese lungo la mia gola caldo e gustoso.
« Allora? Per cosa mi hanno incastrata, questa volta? »
« Alex, potresti sederti davanti a me, per favore? » La voce della donna era rigida ora, e non ammetteva repliche.
Feci come mi aveva chiesto, senza però abbandonare il mio caffè. Negli occhi di Wilma passò una scintilla di disperazione dovuta al mio comportamento.
« La signora Kane, la tua insegnante di storia antica, mi ha chiesto di convocarti. » La preside congiunse le mani sopra la cattedra e, dopo aver preso un lungo respiro, continuò: « Ora, ho dato un’occhiata ai tuoi voti in quella materia, Alex, e trovo che tu sia peggiorata molto rispetto agli anni precedenti. » Nel mentre parlava, si era piegata leggermente per frugare nei cassetti della scrivania, per poi riemergerne con in mano un fascicolo. Il mio, dedussi. « Cos’’è successo, mh? Io mi ricordo una ragazza che in prima faceva i salti mortali per quella materia. Ricordo che anche tua madre… »
« Ma io non sono mia madre, Wilma. » La bloccai scocciata.
Wilma era stata una delle amiche di mia madre, perciò potevo permettermi di parlarle così. Mi conosceva da quando ero nata e aveva passato molto tempo con mio padre aiutandolo a crescermi; questo finché lui non si era fidanzato con la sua attuale compagna: Lisa.  
« Non sono lei, e non potrò nemmeno tentare di esserla. » Parlare di mia madre, quella donna che mi aveva messo al mondo e poi era morta qualche mese dopo, non mi aveva mai fatto ne caldo ne freddo. Però era come se innescasse una specie di senso di vuoto in me. Forse era perché tutti quelli che ne parlavano lo facevano con la gioia e la bontà negli occhi, portando alla luce sempre il suo lato migliore; dicendomi ogni volta quanto lei trovasse divertenti delle cose, o come si comportasse durante determinate situazioni. Io mi limitavo a sorridere ma, dentro di me, pensavo che quelle rivelazioni fossero ingiuste. Gente che le voleva bene, certo, vi aveva passato accanto più tempo di me, imparando a conoscerla come io non avrei potuto fare mai più.
Istintivamente, strinsi la tazza di caffè sotto il tavolo e sorressi con cocciutaggine lo sguardo angosciato della mia preside. Ogni volta che tirava fuori l’argomento di mia madre, io deviavo discorso ricorrendo ai miei soliti toni bruschi. Sapevo di aver eretto un muro attorno a me; un muro fatto di ricordi inesistenti. Un muro costruito sulla speranze che, magari, io riuscissi a ricordarmi di lei nei reconditi della mia mente aggrappandomi a quel ricordo come a un tesoro. Non era mai successo. Non ero mai riuscita a ricordarmi di lei o della sua voce, o del suo tocco; e il muro era cresciuti, diventando impenetrabile.
« Ok, hai ragione, scusami. Ma tu sai che se continuerai di questo passo, la Kane ti boccerà. » Parlava con voce più calma ora, sebbene sentissi una strana nota amara nella sua voce. « Ti chiedo solo », prese un bel respiro, « di rimetterti in carreggiata, Alex. Abbandona questo comportamento da bambina e ritorna seria. Se non vuoi farlo per te, almeno fallo per tuo… »
« Padre. Si, lo so. Me lo ripetete sempre tutti. » Sbuffai, abbassando gli occhi sulla tazza.
Il caffè nero mi ricordava stranamente la mia vita in quel momento. Mi sembrava di rivedere me stessa chiusa fra delle mura, pressata in modo che non potessi uscire. In gabbia.
« Scommetto che c’è la farai. » Mi sorrise Wilma, incastrandosi gli occhiali da lettura sul capo. « Sei una brava studentessa, se studi. »
« Ma sono una pessima figlia, perché la preside mi convoca ogni settimana. » Ribattei stizzita, ricordandomi di tutte le cose che mio padre mi gridava dietro quando litigavamo, e questa era una delle prime.
« Si può sempre migliorare », mi sorrise.
« Questo non toglie il fatto che mio padre stia origliando la nostra conversazione. » Le feci notare, indiando con un cenno della testa la porta d’ingresso dove, seminascosto da una striscia di vetro opaco, si distingueva una sagoma.
Poggiai la tazza di caffè sulla scrivania e mi alzai, dirigendomi a passo svelto verso l’uscio. Aprii la porta con impeto, scontrando il mio sguardo d’ambra con quello da lupo di mio padre. I suoi occhi erano come uno specchio che rifletteva ogni cosa, senza mai far uscire i propri sentimenti allo scoperto. Ma io sapevo cosa provava in momenti come quelli, nei quali era obbligato a venire a scuola perché convocato… ancora una volta. Tristezza, rammarico, vergogna, delusione. E tutto per colpa mia.
Lucas entrò nell’ufficio con il suo solito passo veloce e marcato; le spalle larghe che ondeggiavano sotto la camicia blu e i capelli castani brillanti fra gli spicchi di sole. Era un bell’uomo, mio padre; tutta via, a mio parere, la morte della mamma gli aveva tolto qualcosa che l’aveva reso ancora più bello in gioventù. Ogni tanto riguardavo le loro foto assieme e c’era sempre qualcosa nel suo sorriso, nei suoi occhi che lo rendeva diverso. Una diversità che neppure Lisa era riuscita a fargli tornare.
Richiusi la porta e tornai al mio caffè, ancora fumante sulla scrivania. Papà mi osservò inarcando le sopracciglia prima di rivolgersi a Wanda con la cordiale domanda di rito: « Perché sono qui, questa volta? »
La preside fece per aprire bocca, ma io la precedetti. Le mie labbra si mossero da sole mentre spiegavo l’accaduto di quella mattina con la Kane; il modo in cui le avevo risposto e il perché avessimo iniziato a discutere. Poi, aggiunsi anche la faccenda della mensa, di cui persino Wanda era all’oscuro. Finita la novella, Lucas si passò una mano sul viso liscio e si accasciò sulla sedia dove prima stavo io, borbottando parolacce. Non mi piaceva dare dispiaceri a mio padre, specialmente ora che Lisa era incinta del loro secondo figlio e Mattew - il primo- era entrato nella fase dell’adolescenza, ma non potevo farci nulla.  Anche se avessi voluto, non sarei riuscita a cambiare secondo i loro schemi.
« Ci sarà mai una volta, una, che tu riesca a non cacciarti nei guai, Lex? » Sibilò Lucas, alzando gli occhi ambrati verso di me. Guardandoli, mi riconobbi in essi. Erano identici ai miei, solo che i suoi erano leggermente tendenti al castano mentre i miei deviavano verso l’oro. E nascondevano mille segreti, pensieri, emozioni di cui nessuno doveva venire a conoscenza.
Mi grattai la guancia con la mano libera e alzai le spalle, inarcando le sopracciglia per qualche secondo. Wilma, ancora immersa dietro i suoi tanti fogli, si passò una mano fra i capelli rossi riportando a posto le ciocche che le erano sfuggite dallo chignon.
« Non è così grave, Lucas. » Intervenne la donna. « Alex è una brava studentessa, vivace forse ma molto ingamba. Riuscirà a recuperare anche questa materia, vedrai. » E gli rivolse un enorme sorriso d’incoraggiamento.
« E io mi chiamo Cristoforo Colombo », sussurrò mio padre mentre si alzava e si congedava.
Lo seguii in corridoio con passo svelto; doveva esserlo se volevo camminargli accanto. Visto da dietro mio padre sembrava ancora più grande di quanto non fosse, e tutto era dovuto al portamento. Il suo passato come butta-fuori, poi, doveva avergli conferito la sicurezza di se stesso.
« Hai molta stima di me, non è vero papà? » Chiesi quando fummo nel parcheggio.
Il sole splendeva in cielo riflettendosi sui telai delle auto, e io ero costretta a camminare con una mano sopra gli occhi per non accecarmi. Una folata di vento caldo mi accarezzò la pelle facendomi rabbrividire, e facendo vibrare i miei capelli nell’aria.
« Non sono in vena di battute, Lex. Sali in auto. » E così si era conclusa la nostra conversazione.
Lo guardai scomparire dentro la jeep, prima di alzare gli occhi al cielo e reprimere un grido carico di frustrazione. Mordendomi il labbro fino a farmi male, salii in auto e lui partì.
 

 
*    *


 
La città correva veloce oltre i finestrini neri dell’auto. Riuscivo a scorgere le sagome delle persone, delle case e degli alberi di sfuggita mentre mio padre premeva rabbiosamente il piede sull’acceleratore. Avevo alzato al massimo il volume della musica nelle cuffie ma questo non significava che non sentissi gli urli che mi stava rivolgendo mio padre. Era fuori di se, e in un certo senso lo capivo –gestirmi non era mai stato facile-, ma stava esagerando. In un impeto di rabbia, mi tolsi le cuffiette e lo guardai.
« … sei sempre così cocciuta! Con te non si può ragionare! Che ho fatto per meritarmi questo?! » Stava gridando, più a se stesso che a me.
« Non lo so, va bene? » Urlai a mia volta. L’abitacolo si riempì di urla e gli occhi di mio padre si puntarono su di me. « Non so perché sono così, ma sono stufa di sentirtelo ripetere. Scommetto che anche tu non eri un gran bravo ragazzo alla mia età! »
« Ero di gran lunga migliore di te e dei tuoi amici! » Ribatté offeso. « E dovresti imparare a portare rispetto, Alex, non solo a me ma a tutti gli altri! » Batté la mano sul volante, facendo suonare il clacson. « Ti comporti come se nulla avesse importanza, tranne il tuo divertimento! Sei proprio… Sei così diversa da tua madre, dannazione! » Quell’ultimo commento mi arrivò dritto al cuore, perforandolo.
Fu come se una mano si fosse stretta attorno al mio petto, proprio sopra il cuore, e avesse iniziato a stringere. Stringere senza curarsi del dolore che sentivo, della repulsione che provavo contro mio padre. Me ne aveva sempre dette di tutti i colori ma mai aveva osato tirare in ballo la mamma.
« Avrei preferito che ci fosse lei al tuo posto! Avrei voluto che ci fossi finito tu in coma e che lei fosse viva! » Strillai con tutto il fiato che avevo a disposizione, prima di sganciare la cintura e aprire la portiera mentre la macchina era ancora in moto.
L’asfalto correva veloce sotto di noi. Il sole lo illuminava facendolo assomigliare a un mare di cemento e strisce anonime. La gente si era fermata a guardarci dai marciapiedi. In lontananza vedevo il mare brillare, simile alle squame di un serpente. Si muoveva flessuoso davanti ai miei occhi, chiamandomi. Andavo sempre sulla spiaggia –avevo trovato un luogo appartato dove non andava quasi mai nessuno- per nascondermi dalla routine quotidiana. Ma, prima che potessi saltare giù dall’auto, la mano di mio padre si strinse attorno al mio braccio e mi ricacciò dentro la vettura; la portiera si chiuse con un tonfo sordo.
« Sei impazzita?! » Mi sbraitò contro, osservandomi sorpreso con quegli occhi da lupo che aveva.
Aprii le labbra per rispondergli, ma il mio occhio cadde su una figura che si avvicinava a noi velocemente. Una sagoma che, man mano che andavamo avanti, prese la forma di un grosso tir. E ci stava venendo contro. Urlai spaventata, indicando a mio padre l’automezzo e lui, colto all’improvviso dal panico, sterzò. Vidi il tir inchiodare sull’asfalto, il carico che si riversava a terra, e udii il fracasso della nostra auto che si schiantava contro qualcosa. Non avendo la cintura, venni sbalzata in avanti. Mi sembrò di volare a peso morto, anche se non volevo. I miei occhi catturarono l’immagine del fumo che proveniva dal cofano, dal motore, prima che la mia tessa si schiantasse contro il vetro e questo si rompesse. Sentii il sangue defluire da una ferita, che bruciava e mi faceva male. Stancamente, con la vista che si appannava mano a mano che i minuti passavano, cercai con lo sguardo mio padre. Era premuto contro lo schienale del suo seggiolino, la testa abbandonata su una spalla. Non riuscivo a capire se fosse vivo o meno, se fosse ferito.
Fa che non muoia. Ti prego, non farlo morire, implorai. Chiusi gli occhi e tutto sembrò eclissarsi. I rumori delle sirene in lontananza si dissolsero; il cielo azzurro e l’oceano brillante morirono nei miei ricordi; la mia rabbia scemò. Respirare mi faceva male, come se avessi avuto un peso sul petto. Poi, come il battito d’ali di una farfalla, mi sentii leggera e mi abbandonai al vuoto totale che le ombre mi avevano imposto.
  
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