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Autore: Ryo13    19/04/2014    8 recensioni
Erin Knight ha un solo obiettivo nella sua vita: da quando ha perso lo zio Klaus, ucciso dall'uomo che amava, non vive che per trovare colui il quale possiede il potere complementare al suo, ovvero quello di manovrare il tempo. Tuttavia la sua missione è ostacolata da Samuel Lex — adesso capo dei ribelli e conosciuto col nome di 'Falco' — e dai capi dell'esercito reale che la osteggiano, minacciando la sua carica di Luogotenente. Unica donna in un mondo di uomini e senza alleati, sarà costretta a forgiare nuove alleanze in luoghi inaspettati...
❈❈❈Storia in revisione ❈❈❈
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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Grazie a tutti per avere atteso la nuova uscita =)
Spero che questo capitolo vi piaccia e che mi scriviate nelle recensioni le vostre impressioni **
Lo pubblico adesso perché potrei non avere tempo nei prossimi giorni, per cui perdonatemi per eventuali errori, cercherò di correggerli appena segnalati oppure alla revisione del capitolo :D
Detto questo, BUONA PASQUA A TUTTI!
 

Capitolo 16 - Punizione
 

Procedevo spedita tra i corridoi del Forte, seguita da Chevalier.

Avevo indossato l’uniforme militare in maniera impeccabile: l’intento era di suscitare il senso di solennità che la situazione esigeva.

Chevalier non aveva più aperto bocca dalla notte in cui mi aveva rivelato una parte considerevole del suo passato o, per meglio dire, la totale assenza di questo.

Era stato presente al colloquio con Raafael, quando avevamo discusso a proposito dell’attacco che avevo subìto e adesso mi scortava all’esecuzione della condanna.

Centoventi frustate, non una di meno.

Il giorno precedente, i soldati erano stati informati della sospensione di ogni attività ed era stata fornita una generale informazione sull’accaduto. 

Tutti erano schierati in attesa del mio arrivo nel padiglione esterno.

Ormai da ore regnava il più assoluto silenzio: le punizioni, pur non troppo rare, erano comunque eventi di una certa importanza. Il fatto che fossi stata proprio io il bersaglio di un attacco diretto, inoltre, aveva solo esasperato una tensione che aveva già le sue radici in anni di contrasti interni.

Trovai gli uomini allineati con le spalle al Palazzo. Era stata sistemata una pedana in legno al centro della formazione con sopra disposti i cinque esecutori della spedizione illegale.

Gli ufficiali maggiori e minori stavano ritti nelle prime file, alle spalle le unità loro assegnate.

Quando uscii all’aperto mi concentrai sul rumore dei passi miei e di Chevalier sulla ghiaia. Con una rapida occhiata, presi nota di tutti i volti tirati che avevo intorno.

I raggi di sole erano accecanti, troppo allegri rispetto l’umore generale. Ma gli uomini si trovavano in un punto d’ombra, quindi non fu difficile vedere le loro facce tramortite.

Sarei stata io a impartire le frustate, come volevano le regole militari, le quali assegnava questo compito alla parte lesa, qualora questa fosse stata nelle condizioni di portarlo a termine.

“Nessuna emozione, nessuna espressione”, era quello che continuavo a ripetermi, ignorando la stretta allo stomaco.

Non mi piaceva punire la gente in modo barbaro. Disdegnavo il rumore dello schiocco della frusta sulla pelle, soprattutto quello della pelle che si lacerava, accompagnato dai gemiti di dolore.

Non era certo il sangue a infastidirmi, piuttosto il pensiero di infliggere un dolore sadico. In uno scontro a viso aperto, mettevi in gioco la tua stessa vita e se ferivi l’avversario era per difesa: c’era equilibrio, dunque.

Infierire su uomini legati, era tutta un’altra storia. 

Avevano sbagliato e dovevano pagare, sì, ma avrei preferito di gran lunga uno scontro diretto, senza esclusione di colpi, anziché quello che offriva il sistema.

“Nessuna emozione, nessuna espressione”, ripresi a ripetere, mentre salivo le scale e mi avvicinavo al tavolo con la frusta cerimoniale: era lavorata in modo che il cuoio non infliggesse tutto il dolore di un vero strumento di tortura, ma risultasse pur sempre sufficiente allo scopo.

Raafael si portò al mio fianco. Dopo una solenne pausa, prese la parola.

«Ci troviamo riuniti per assistere all’esecuzione della pena dei soldati Uron Yhan, Tehoor Asafet, Yuto Gut, Valen Tih e Berioth Oshaterasta. Il luogotenente in diritto è Erin Knight che è stata attaccata da una squadra esecutiva due notti fa. La pena assegnata è di centoventi colpi di frusta.»

Un mormorio percorse le file, l’indignazione era evidente tra i soldati.

Tra i condannati, Berioth spiccava per il livore, non si preoccupava di nascondere l’odio che provava nei miei confronti.

Gli altri erano pallidi, per lo più taciturni. Il più giovane di tutti, Valen, gemette, in ansia per ciò che lo aspettava.

Raafael riprese con un tono di voce più deciso: «Le frustate sono meritate. Da quando sono al comando non si era mai verificato un fatto così increscioso come che un luogotenente venisse attaccato. La durezza della pena è da imputare alla viltà con la quale è stata organizzata e condotta questa ridicola spedizione! Perciò lo dirò una volta sola: che nessuno osi alzare un alito di protesta, a meno che non voglia assaggiare anch’egli la frusta per mano mia».

L’ultima minaccia, efficacissima, spense i restanti malcontenti.

«A voi la parola, luogotenente Knight», disse, facendosi da parte.

Ora la scena era tutta per me, ma io non ero in vena di dar spettacolo: dilungarsi in commenti sulla fiducia tradita era fuori luogo, sapevo che non avrei mai potuto ottenere il loro rispetto.

Avrei portato a termine il mio compito e basta.

Volsi le spalle all’assemblea e fissai in viso gli uomini uno a uno, prima di raccogliere lo strumento.

Cominciò una serie infinita di movimenti: il mio braccio che si alzava, sospeso per appena un momento prima di abbassarsi con uno scatto, aprendo una ferita dopo l’altra.

Dopo il primo centinaio di colpi, tutto ciò che mi permisi di udire fu il sibilo dell’aria tagliata dalla frusta.

Più si protraeva il tempo, più i miei muscoli cominciarono a cedere all’aggressione dei crampi. Tentai di ignorarli per un po’.

Anche se pensavo che non avrei provato nulla per quella punizione, in realtà, quando arrivò il turno di Berioth, l’aspro risentimento che mi istigava mi infuse qualcosa di simile alla soddisfazione. Tra tutti, era l’unico che meritava veramente quella violenza.

L’uomo si consumò i polmoni a forza di maledirmi, tanto che al centoventesimo colpo ebbe solo la forza di gorgogliare, quasi non riuscendo a riprendere fiato.

A causa dell’agitazione, aveva perso più sangue degli altri. Dopo un paio di rantoli, sembrò riacquistare l’uso della parola.

«Maledetta cagna», sputò tra i denti in modo udibile anche a distanza.

Sollevai automaticamente la frusta e gli inflissi un ulteriore percossa, inaspettata e, per questo, più dolorosa.

«Ti consiglio di moderare il linguaggio, Berioth: sono ancora da questo lato della frusta e sono pronta a usarla.»

Raafael fece un passo nella mia direzione, pronto a impedirmi di sconfinare. Anche Chevalier si mosse, frapponendosi tra me e il Comandante. 

Toccai il braccio di Chevalier, il quale si fece immediatamente da parte, ma non servì a placare la tensione creatasi. Raafael trasudava indignazione e pareva sul punto di prenderlo a pugni per avere osato pensare di ostacolarlo. Chevalier mantenne un’espressione neutra, attentissimo e pronto a ogni evenienza.

«Cosa faresti se un tuo subordinato si rivolgesse a te usando questo linguaggio scurrile?», domandai al Comandante.

Questi si accigliò, distogliendo l’attenzione dalla mia guardia. Dopo un momento, riconobbe: «Gli farei rimangiare le parole a suon di frustate».

«Dunque sono autorizzata a punirlo se continua così.»

Raafael sospirò. «Se continua hai il permesso di punirlo.»

«Che ne dici, Berioth? Credi ti convenga fare ancora il duro?»

Con la curva della frusta, imbrattata di sangue, lo obbligai a piegare il viso sudato. Mi lanciò uno sguardo di fuoco, raccogliendo le forze per tentare di sputarmi addosso: tutto quello che gli riuscì, però, fu di imbrattarsi il mento di saliva. Una cosa disgustosa.

Gli assesstai un fendente sulla bocca che gli spaccò entrambe le labbre, aprendo una ferita fino alla base dell’occhio.

Stanca della sua insolenza, con un calcio alle gambe lo mandai in ginocchio e gli arrotolai il cuoio attorno al collo, soffocandolo. Si agitò con energia sorprendente, ma dopo diversi secondi finalmente svenne.

Lo scavalcai senza cerimonie, arrivando all’ultimo soldato.

Valen, che aveva assistito a tutto lo spettacolo, tremava di paura e si ritrasse istintivamente quando mi accostai a lui. 

Punirlo fu straziante: non aveva assolutamente la stoffa del soldato. Ogni volta che lo colpivo mi appariva sempre più giovane di quanto in realtà fosse e alla cinquantesima percossa non ne potei davvero più. 

Gettando malamente l’arma sulla pedana, mi allontanai tergendomi il sudore dalla fronte.

«Non hai terminato, Knight», disse Raafael, sorpreso.

«È stato l’unico a collaborare, per cui gli condono il resto della pena.»

Anche quello era un mio diritto.

Il Comandante lasciò perdere e fece cenno ai servitori di ripulire e di occuparsi dei feriti.

«Cosa farai adesso?», domandò.

«Partire, come avevamo concordato.»

  

[Il giorno prima ]

 

Raafael mi fissava in silenzio, per niente contento delle notizie che portavo. A suo avviso, ultimamente mi trovavo sul piede di guerra con troppe persone e rischiavo di rovinare gli equilibri interni della milizia.

Oggi mi sentivo stanca e spossata, per nulla incline a portare avanti una discussione più del necessario. 

Dovevamo prendere importanti e inevitabili provvedimenti, ma non avevo voglia di sollecitare una risposta da parte sua: ero stufa di parlare.

Rimasi immobile come una pietra, attendendo placidamente, come se il tempo non importasse. 

Anche Chevalier pareva assente, non lo si sentiva nemmeno respirare: stava tranquillo, e apparentemente inoffensivo, in un angolo dello studio.

Il mio sguardo scivolò di lato, posandosi sull’antica mobilia, sulle pareti decorate con tele di famose battaglie e sulle suppellettili un po’ antiquate il cui maggior compito era quello di raccogliere polvere.

Poi, fuori dalla finestra, mi persi a fissare il cielo. Attutiti, dallo spiazzo sottostante, arrivavano i rumori del metallo che cozzava ritmicamente, ma non coprivano il cinguettio degli uccelli più in alto.

Chiusi gli occhi e inspirai a fondo, rilassandomi completamente: i rumori familiari mi ricordavano le giornate primaverili trascorse ad allenarmi duramente assieme allo zio e agli altri ragazzi.

C’era stato un tempo in cui una sana competizione rendeva stuzzicante la sfida con l’altro sesso: i motteggi pieni di brio non erano mai intesi veramente a offendere, e mi piaceva prendermi piccole rivincite coi ragazzi un po’ troppo pieni di sé.

Un ricordo in particolare si fece presente alla mente: ero stesa all’ombra di un albero dopo una sessione particolarmente intensa di esercizi. Bevevo lunghe sorsate d’acqua, rovesciandomene addosso più della metà.

Uno dei ragazzi più grandi si avvicinò per strapparmi di mano la fiasca.

«Sam, che cavolo! Vatti a procurare l’acqua nelle cucine, questa è mia!», strillai contro il ragazzo. 

«Stai calma, pulce. Ti ho chiesto solo un sorso, no?», disse, sollevando il braccio sopra la mia testa e ridendo dei miei tentativi di recuperare la borraccia.

«Non l’hai proprio chiesto, Sam!»

«Perché non ne ho bisogno.»

Sbuffai, tirandogli una gomitata che deviò senza sforzo.

«È vero. Tutte le ragazze sono felici di darmi quello che voglio.»

«Che sbruffone che sei! Mi chiedo come ti sopportino.»

«So rendermi amabile, quando voglio», commentò scrollando le spalle e prendendo una lunga sorsata. 

Asciugandosi la bocca, mi restituì l’oggetto rubato.

«Fatico a crederci, davvero», protestai, tirandogli addosso la fiasca ormai vuota.

Lui scoppiò a ridere. «Ti metti a lanciare le cose adesso? E speri di farmi male in questo modo?»

Rise impunemente fin quando non gli assestai un gancio destro allo stomaco: gli si spezzò il fiato al mezzo e cominciò a tossicchiare.

«Ouch, ragazza! Che male. Ma sei forte, lo sai? Ah ah ah… eh però!»

Feci l’errore di abbassare la guardia, ero troppo soddisfatta di avergli fatto male: con uno scatto mi afferrò i polsi, strattonandoli verso l’alto e costingendomi a stare in punta di piedi.

«Dunque non credi che io possa rendermi amabile, pulce?»

«Tu non sai neanche cosa significhi questa parola, idiota!», gridai, senza riuscire a liberarmi.

Col solito sorrisetto beffardo mi fissò, con studiata lentezza guardò tutto il mio corpo teso.

«Magari un giorno potrò concederti un assaggio… adesso sei un po’ troppo acerba per i miei gusti, spiacente.»

Ciò detto, mi liberò le mani, voltandomi le spalle.

«Morirai di fame prima di potermi assaggiare, Samuel!»

Con un balzo, mi lanciai su di lui credendo di coglierlo impreparato ma aveva anticipato la mia mossa. Mi afferrò alla vita, mettendomi in spalla, e cominciò a girare su se stesso per disorientarmi.

Mi scappò un piccolo gemito di sorpresa. 

Quando lo giudicò opportuno mi buttò per terra, badando a non farmi male; mentre cercavo ancora di riprendermi dalle vertigini, mi baciò schiacciandomi sull’erba.

Non ebbi neanche il tempo di arrabbiarmi, tanto fu inaspettato.

La prima cosa che avvertii fu l’estraneità di quel contatto: labbra calde e morbide premevano e si muovevano sulle mie. Il sapore pungente di uomo mi turbò.

Quando riuscii di nuovo a ragionare, mi indignai. Come osava prendersi quelle libertà?

Samuel dovette percepire il cambiamento delle mie emozioni perché si affrettò a sollevarsi da me, mettendosi fuori portata con un salto.

Mi trattava come fossi una tigre infuriata, ma continuava a ridersela sotto i baffi.

«Ottimo assaggio», si prese gioco di me mentre fumavo d’ira.

Non l’avrei mai ammesso apertamente, ma ero incapace di reggermi sulle gambe. Ovviamente, il fatto che non tentai nemmeno di sollevarmi da terra non gli sfuggì. Rise più forte, ma la voce gli si era abbassata di tono e sembrava più virile.

«Io dico che mi pregherai», ribadì riprendendo la strada verso il campo.

«Te lo puoi scordare!» gli gridai dietro al secondo tentativo.

Avevo le guance in fiamme per la vergogna e la rabbia: l’avrei volentieri fatto a pezzi.

Non mi resi subito conto che il Comandante aveva cercato di attirare la mia attenzione.

«…rin… Erin!»

«Che c’è?», sussultai.

«Che c’è, mi chiedi? Sei venuta a rifermi che questa notte una squadra punitiva ha cercato inutilmente di darti una lezione, contro ogni buon senso, e mi chiedi “che c’è”?»

Sollevai un sopracciglio. «Sì, io ti ho riferito dell’accaduto. Attendevo che fossi tu a dire qualcosa.»

Dopo un momento, decise di soprassedere al mio strano atteggiamento e disse: «Chiaramente non possiamo lasciare impunito un comportamento simile».

Avevo previsto che sarebbe stata la sua conclusione, per cui rimasi impassibile mentre continuava a parlare: «Dobbiamo stabilire la data della punizione. Deve essere eseguita pubblicamente, preferibilmente nel cortile del campo d’allenamento: in quella zona è possibile ospitare tutti e sarà più facile montare l’impalcatura. Chiaramente sarai tu a eseguire il castigo, luogotenente Knight».

«Certamente. Lo faremo il prima possibile.»

«Dopodomani sarebbe…»

«Domani», l’interruppi decisa.

Raafael fu sul punto di replicare ma si trattenne. Poi acconsentì spazientito.

«Darò ordine di sgombrare e preparare immediatamente il cortile esterno. E farò girare un comunicato tra i superiori.»

«Vi ringrazio.»

«Ho intenzione di parlare chiaramente con te, Knight», proruppe d’improvviso col volto serio.

«Prego, ditemi, Comandante.»

«Intendo allontanarti per qualche tempo. L’attacco della scorsa notte non è altro che il concretizzarsi di tutti i miei sospetti. Non gira una buona aria e tu non migliori assolutamente la situazione: sei come un materiale altamente infiammabile a contatto col fuoco.»

«Signore, io non ho fatto nulla per…»

«No, tu non hai fatto nulla. Basta la tua sola esistenza per creare scompiglio, di questo ti sarai accorta.»

«Con tutto il rispetto, signore, qui il problema non sono io, ma i vostri uomini, compresi i luogotenenti che ne sono a capo», protestai irritata.

Addio serenità”, pensai rassegnata.

«Può anche darsi, ma sta di fatto che loro rappresentano la maggioranza e a me spetta ancora il compito di sedare queste… queste rivolte interne. Che diamine, una spedizione punitiva! Da che sono al comando non era mai accaduta una cosa simile.»

Raafael abbandonò il suo posto in preda all’agitazione. Era evidente quanto non sopportasse le insubordinazioni: facevano venir fuori il lato più spaventoso della sua personalità.

«Molto bene. Sono già senza uomini, non mancherò a nessuno. Dove vorreste spedirmi?»

«Ti manderò come scorta del principe, per un incontro diplomatico, nello Yefren.»

«Conosco i suoi “incontri diplomatici” e vi assicuro che non ha bisogno di alcuna scorta

«Tu lo seguirai. Questo è un ordine.»

Mi fissò con astio, pronto ad affrontarmi se mi fossi opposta.

Sapevo di averlo già stuzzicato abbastanza negli ultimi tempi, dunque giudicai prudente non fornirgli ulteriore motivo di scontento. Inoltre aveva ragione: la situazione stava drasticamente precipitando e mi avrebbe fatto bene un periodo lontano dai problemi dei soldati.

L’unica cosa che mi aveva spinto a protestare era l’indesiderabile presenza di Joshfen: il pensiero di averlo vicino così allungò ebbe il potere di abbattermi, peggiorando il mio malumore. Ma inghiottii il rospo e lasciai correre.

«Signorsì, Comandante» dissi poco convinta.

“Almeno”, tentai di consolarmi, “avrò l’occasione di condurre qualche indagine sul medaglione.”

«L’esecuzione sarà domani a mezzogiorno. Rimane da fissare il numero delle frustate… settanta? Ottanta?»

«Centoventi.»

«Sono di più del consueto», commentò con un tono cupo.

«Ne sono perfettamente consapevole.»

Con un cenno del capo accondiscese. «E centoventi siano.»

 
 
   
 
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