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Autore: lili1741    15/07/2008    2 recensioni
Una raccolta di addii di tutti i tempi e i luoghi. Si può dire addio a un amore, alla famiglia, alla patria, ma quando le cose si portano nel cuore non è mai un vero addio...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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1. Philologia

Questo scritto è stato ritrovato sul retro del Codex Florentinum, manoscritto contenente la raccolta delle tragedie euripidee risalente al IX secolo, ma portato a Firenze da Costantinopoli dal giovane umanista Fedria Filosebasto, allievo di Ippolito Paleologo, ultimo curatore della Biblioteca Imperiale, poco prima della presa del 1453.

[...] ... da quando per colpa tua mi trovo a fare voti a Nostro Signore perché conservi il cielo sereno e perché la nave mi faccia infine arrivare alla seconda Costantinopoli a cui tu mi affidi. Ci saranno a Fi[renze] chiese belle come Santa Sofia? Troverò chi sappia amare Euripide come te? Troverò chi ami me?..

Non so se riuscirò a raggiungere la mia nuova Costantinopoli in questo mio viaggio dall’Anatolia all’Italia, come un nuovo Enea, come tu avresti voluto per me. Il morbo ha preso possesso della nave ed i miei compagni, gli altri tuoi alunni, a poco a poco sono morti delirando per la febbre che ora divora anche me, l’ultimo rimasto. Ma io devo sopravvivere, altrimenti cosa ne sarà di Euripide e dei suoi versi immortali che tu mi hai affidato, o Ippolito?

Tu mi vuoi morta, nutrice. In nome di Dio, ti prego, non nominare più quest’uomo...

Quei versi erano la nostra vita, e passavamo le giornate a leggerli, declamarli, discutere sulla loro forma originaria. Tu sopravvivi in essi, Maestro mio, ora che mi hai abbandonato su una nave che ogni giorno mi allontana ancora di più da te. In essi rivivo i nostri giorni e le nostre notti passate a... (testo illeggibile)

Povera madre mia, che razza di amore il tuo!

E tu Arianna, misera sorella, sposa di Dioniso...

E la terza infelice sono io, che sto morendo.

Addio Maestro, tu dicevi di affidarmi a questa nave, una delle ultime a partire dalla nostra martoriata città sotto assedio, per salvarmi, perché sono così giovane ed avrò grazie a te una nuova vita laggiù, nella terra dei dolci colli. Piangesti come me quando ci lasciasti al molo, al tramonto che rendeva dorata la nostra bianca città, piangesti per me, per Euripide, per il nostro impero.

"Veramente non vorrei lasciarti, ma ricorda- voglio che tu ricordi- che vita felice si viveva alla Biblioteca, com’era dolce discutere di filologia sotto quei porticati." Mi hai detto.

Come potrei dimenticare? Questo è il mio sedicesimo anno di vita, il nono da quando sono arrivato come apprendista alla Biblioteca. I miei compagni erano i miei veri fratelli, la filologia il senso della mia vita terrena, tu la mia guida e la metà della mia anima, o Ipp[olito]!

Povera me, cosa ho fatto? Dov’è finito il mio buon senso?

Perché ci hai abbandonati e non sei venuto con noi in questa Firenze dalle chiese rosse, la nostra nuova città tra le colline, se mai ci arriveremo? Perché hai voluto morire con Costantinopoli? Vale forse più essa della tua vita, di me, della salvezza di questi codici? Non sarebbe comunque bella una vita, la nostra vita, in qualunque altro luogo?

Tu mi insegnasti che il motivo per cui i testi antichi meritano ancora di essere letti è il fatto che l’uomo, nelle sue componenti più intime, non è cambiato da quando sono stati scritti, non cambia mai. A Fir[enze] allora sarà tutto come a casa, soltanto il clima sarà più mite che nella nostra torrida patria, e in primavera con la brezza fresca della sera sarà splendido banchettare sui colli disputando sull’immortalità dell’anima. Ma tu non ci sarai, perché hai voluto restare e morirai con Costantinopoli. Tu mi hai lasciato solo, hai lasciato soli tutti noi, le tue creature, i giovani filologi che tu hai forgiato per poi lasciarli desolati, privi della tua guida. Molti di noi non vedranno Firenze, ma la Gerusalemme celeste.

La sventura che patisco muove verso il limite insormontabile della vita: sono la più infelice delle donne.

Stringo a me gli antichi volumi e declamo i versi che recitavo anche all’epoca della mia felicità, soltanto qualche giorno fa. La febbre è forte, mi fa delirare e mi sembra di rivedere la tua [dolce presenza]. Ma io arriverò in Italia e non condurrò una vita infelice. Mi hai detto che laggiù mi accoglieranno come un benemerito, che si cureranno di me e di Euripide come hai fatto tu. Tu sarai sempre vivo nella mia anima ed io... (testo illeggibile)

E ora addio. Non mi è permesso vedere i morti... e mi accorgo che ormai tu sei vicino alla fine...

Le parti in corsivo sono versi tratti dall’Ippolito di Euripide, tutti pronunciati da Fedra tranne l’ultimo, pronunciato da Artemide. Le parentesi quadre etc sono un tentativo (non troppo riuscito;)) di imitare con questa storia i testi ricostruiti filologicamente. Nonostante ciò che dico nell’introduzione, tutti i personaggi sono d’invenzione, ma senza di essa non si sarebbe capito nulla, credo. Grazie mille a tutti i lettori e un ringraziamento enorme se qualcuno commenterà.

  
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