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Autore: Hypoprenya    22/04/2014    2 recensioni
Avrebbe anche potuto estrarre il cuore dalla cassa toracica, trafiggerlo con centinaia di lame fino a quando non avrebbe cessato di battere, ma no, non sarebbe stato abbastanza, quel male posto affianco a quel dannatissimo “qualcuno”, si sarebbe annullato.
Amalia.
Quel nome.
Sentiva ancora bruciarle nel petto quelle sei lettere.
Non riusciva nemmeno a pronunciarlo, non era abbastanza forte.
Ogni secondo che passava senza di Lei trascorreva troppo lentamente, ed era come incassare decine di pugnalate all’altezza dello stomaco.
Ma a tanto a chi importava?
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Giulia era una ragazza comune, ma, a modo suo, particolare. Indossava gli stessi capi ormai da tempo: ai piedi portava sempre i suoi fedeli anfibi, calze nere strappate con le sue piccole e fredde mani, retine alle braccia, alla mano sinistra un guanto di cuoio borchiato sul dorso e tagliato, probabilmente con una lama, all’altezza delle dita e differenti incisioni su diverse parti dell’oggetto, la felpa di “Amy Strange”, a cui lei era particolarmente legata, tantoché non l’avrebbe scambiata per nessun altra cosa al mondo, forse perché era l’unico capo di marca che possedeva? Nah, Giulia non era superficiale a tal punto, anzi, non lo era per niente. La sua era possessività. Il fatto è che quando non si ha molto, quel poco che si ha si tende a tenerlo stretto. Era una delle poche persone ad aver capito che il valore di un oggetto non dipende dell’oggetto in sé, ma dal valore attribuitogli. Indossava molto spesso dei pantaloncini tagliati con le forbici o una gonna scozzese, al collo portava un collare, che le piaceva stringere molto, dal quale si separava raramente. Portava da sempre i capelli corti, a volte legati in un piccolo codino, le quali punte erano ormai bruciate, tinti di un particolare verde acqua. Il suo era un volto minuto la cui tonalità della candida pelle era di un bianco quasi cadaverico, due enormi occhi di un verde scurissimo la cui luminosità veniva offuscata da una matita nera che li rendeva più cupi di quanto non lo fossero già , labbra carnose tinte da un trucco nero e un naso all’insù tempestato da piccole ma fitte lentiggini. Alcune persone la etichettavano come la “ragazza strana”, ma a lei stava bene così. Infondo, perché avrebbe dovuto sprecare del tempo prezioso per preoccuparsi di cosa la gente pensasse del suo abbigliamento quando lo avrebbe potuto utilizzare per ascoltare del buon Metal? Quando accumulava eccessivo stress dalla realtà circostante, metteva i suoi inseparabili cuffioni e, accompagnata dalle note di “Suicide Season”, entrava in un’altra realtà, come se la musica avrebbe potuto scavare un varco che, una volta attraversato, l’avrebbe catapultata in un universo parallelo, trovandosi finalmente in un luoghi diverso, privo di etichette, pregiudizi, compromessi e paragoni: non desiderava nient’altro; a quel punto sì che sarebbe veramente divenuta felice. Non desiderava altro: le bastava un prato verde, un’ albero ombroso sotto il quale sostare per qualche ora e la sua musica. Per molti di voi potrebbe significare niente, ma per lei era tanto, forse tutto. In realtà, per Giulia la musica era quasi un dipendenza. Sì, una dipendenza. Una dipendenza che si era creata per sostituire il vuoto lasciato da qualcos’altro, qualcosa che aveva provato a riprendersi più volte, fallendo però in tutti i casi, ma che ormai aveva perso. Per sempre. Ma qualcosa, o qualcuno? Probabilmente, qualcuno. Sicuramente, qualcuno. Qualcuno che rappresentava una parte fondamentale della sua ormai flebile esistenza. Qualcuno che, una volta uscito dalla sua vita, non sarebbe più tornato. Mai più. Questo Giulia lo sapeva, e forse anche troppo bene. E Dio, se faceva male. Un male inesprimibile a parole. Avrebbe anche potuto estrarre il cuore dalla cassa toracica, trafiggerlo con centinaia di lame fino a quando non avrebbe cessato di battere, ma no, non sarebbe stato abbastanza, quel male posto affianco a quel dannatissimo “qualcuno”, si sarebbe annullato. Amalia. Quel nome. Sentiva ancora bruciarle nel petto quelle sei lettere. Non riusciva nemmeno a pronunciarlo, non era abbastanza forte. Ogni secondo che passava senza di Lei trascorreva troppo lentamente, ed era come incassare decine di pugnalate all’altezza dello stomaco. Ma a tanto a chi importava? Ripensava quasi ogni giorno a tutte le giornate intrise nella malinconia, a tutte le volte in cui aveva pianto, sconsolata in un angolo, il più delle volte in pubblico ed essere invasa dalla frustrazione, si poneva tutti i giorni le stesse, identiche, domande: “Perché sto piangendo? Credevo di essere felice. Ho passato tutta la giornata a ridere, e allora queste lacrime? Perché? Perché nessuno se ne accorge?” Inizialmente pensava che col passare dei giorni, mesi, anni, il dolore si sarebbe alleviato. Il tempo non sarebbe bastato. Mai. Era Lei che dava un senso ai battiti cardiaci di Giulia, e da quando se ne era andata via che cercava invano valide motivazioni per continuare a vivere; le suonava spesso in testa un ritornello spezzettato di una canzone che a lei non era mai piaciuta, ma che improvvisamente aveva acquisito un senso particolare: “Ogni sera io mi chiedo Lei con chi sarà, E quella Lei di cui ti parlo be’ sei proprio tu” “Ogni volta che rientro in quella camera Mi chiedo se col tempo questa vita passerà Se tu vorrai ci incontreremo nella prossima”. Giulia era come una stella che brillava grazie alla lucentezza di un’altra, e l’improvvisa assenza dell’ultima aveva procurato una visibile opacità della prima prima. E se lei la definiva come “la sua luce”, fidatevi che non erano parole senza peso, al contrario, ogni lettera pesava troppo, troppo per riuscire a sorreggerla da sola, per questo spesso cadeva, senza avere la forza per rialzarsi. E poi per chi lo avrebbe dovuto fare? Ormai di se stessa non le importava più niente. E quel dannato 15 Aprile lei no, non se lo sarebbe mai potuto scordare. Altre pugnalate all’altezza dello stomaco. 15 Aprile. Una data impressa non nel cuore, ma nelle sue fredde iridi, mentre le parole di “Seen It All Before” le rimbombavano nella testa. “Every second’s soaked in sadness Every weekend is a war And I’m drowning in the déjà vu We’ve seen it all before I don’t wanna do this by myself I don’t live like a broken records I’ve heard these lines a thousand times And I’ve seen it all before”. “Ogni secondo è intriso di tristezza Ogni fine settimana è una guerra E sto annegando tra i déjà vu Abbiamo già visto tutto Non voglio farlo da solo Non voglio vivere come un disco rotto Ho sentito queste parole un migliaio di volte E ho già visto tutto”. Quelle parole. Questa era la sua vita. Quello era il suo malessere.
  
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