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Autore: HarryJo    22/04/2014    3 recensioni
Le ragazze non possono fare a meno di pensare a quanto sarebbe bello dimagrire un po’. Anche chi è in forma, ha un fisico perfetto e non dovrebbe godere di certi problemi, si ritrova a dire spesso: “Devo mettermi a dieta, maledizione!”, ignorando quale sia, la vera maledizione.
Perché avere qualche chilo in più può sembrare una disgrazia, qualche volta. È una tortura mangiare quel poco che serve e vedersi ingrassare sempre di più.
Ma nessuno pensa che può esserci un altro male, molto ben più grave.

Ci sono poche cose di cui Arianna è realmente fiera nella sua vita; una di queste è l'avere un fisico perfetto nonostante si abbuffi a tutte le ore.
È motivo di vanto fino a quando un giorno, con orrore, verrà a sapere che, anche se mangiasse senza sosta, continuerà a dimagrire.
Fino a sparire, inesorabilmente.
Che ne dite di ritornare sul vostro mondo? Qualche chilo in più non sembra così male ora, non è vero?
Oppure continuate a leggere. Perché questa è la storia di una diagnosi riservata. Il verme solitario ha paura di questo romanzo, e ne avrà anche la vostra bilancia.
Siete ancora in tempo per tornarvene nel vostro mondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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∞ Capitolo sesto ∞
 
AFTER ALL IT WAS A GREAT BIG WORLD
WITH LOTS OF PLACES TO RUN TO.
“American Girl”, Tom Petty and the Heartbreakers, Tom Petty & the Heartbreakers, 1977.
 
 
 
N
 ove minuti. Nove minuti e sarebbe suonata la sveglia anche quella mattina.
Sospiravo, guardando continuamente l’orologio. Continuavo a svegliarmi sempre prima, da sola, senza alcuna sveglia ed era pressoché inutile ogni tentativo di tornare a dormire. I pensieri si accumulavano uno dopo l’altro dentro di me, creando una specie di vortice da cui non potevo neanche sperare di scappare. Ero entrata in un buco nero che mi attirava completamente e non mi concedeva alcun tipo di via d’uscita.
Otto minuti. Come avrei affrontato la giornata? Mi sarei alzata, avrei fatto distrattamente colazione, sarei salita sul pullman, diretta a scuola e poi? Davanti a Francesco? Sarei stata quella di sempre o la mia gelosia avrebbe inficiato tutto? E se Ilaria fosse stata lì accanto a lui? Avrei saputo resistere a quella visione? Al mio cuore di nuovo in mille pezzi? Avevo ancora un po’ di colla da parte per rimettere assieme quei cocci di me?
Sette minuti. Mi voltai dall’altra parte del letto, serrando gli occhi il più possibile e rannicchiandomi, come se potessi darmi maggiore calore. Avrei voluto un abbraccio, uno di quelli in cui sparire e non tornare più in superficie fino a quando non sarei stata abbastanza forte. Mi domandavo cosa avrebbe pensato Francesco se mi avesse vista soffrire così a causa sua; probabilmente sarebbe rimasto zitto, incapace di proferire parola.
Sei minuti. Non era tanto complicato, dovevo solo rivestire la maschera che avevo indossato in quegli anni così tante volte da perdere il conto. Il sorriso allegro, la spensieratezza, l’allegria. Tutti quegli elementi che Arianna normalmente portava con sé ogni volta in cui usciva di casa. Dovevo solo imparare a essere me stessa anche quando il cuore me lo impediva.
Cinque minuti. E se invece fossi andata a dire a mio padre che non stavo molto bene e che dovevo rimanere a casa? Così avrei evitato di vedere i suoi occhi e la fatica di fare quei falsi sorrisi, la fatica di essere l’amica del cuore. Bastava inventarsi un po’ di mal di testa e avrei potuto rimandare la faccenda a quando sarei stata più pronta.
Quattro minuti. Stavo per alzarmi dal letto quando mi tornò in mente la situazione con mio padre e quella sua stupida fissazione sulla mia salute. Non potevo di certo dargli motivo di sospettare una malattia incurabile ancor di più di quanto già fosse nei suoi pensieri. Maledizione a lui. Dovevo affrontare nuovamente il mondo senza armi né scudi.
Tre minuti. Potevo sempre rinchiudermi in classe in ricreazione, così non avrei corso il rischio di incontrarlo nei corridoi. Avrei chiesto ad Alessia, l’unica mia compagnia di classe con cui ero davvero amica e a cui rivelavo ogni cosa, di stare davanti alla porta e, se lui avesse chiesto di me, di dirle che ero in bagno o qualcosa del genere, per non aver modo di parlarci. Così avrei potuto passare questa giornata pressoché indenne – o quasi, insomma, intenta a combattere solo con me stessa.
Due minuti. Ma perché continuavo a farmi tutte queste paranoie? No, non potevo organizzare questi tristi trucchetti da ragazzina, dovevo affrontare il mondo, affrontare l’amore, affrontare lui. E avrei agito come avevo sempre fatto: stringendo forte i denti come ti insegnano quando sei bambina, per cercare di sentire meno il dolore.
Un minuto. Avrei stretto i denti, sì.
Driiin.
 
1. Delinea l’influenza della rivoluzione scientifica nel pensiero di Cartesio.
Cercai di sorridere. Per non piangere, s’intende. Una delle cose che si dimentica di fare quando si ha il cuore in mille pezzi è quella di studiare e adempiere ai propri compiti quotidiani. Potevo dire addio al mio otto in filosofia.
Tutti attorno a me scrivevano furiosamente; probabilmente era la prima volta che si erano messi così di impegno a studiare, poiché il professore aveva garantito una maggiore rigidità con i voti, dato che sospettava che copiassimo continuamente durante i suoi compiti. Stava anche sorvegliando con maggior accuratezza tutti noi. Ero proprio sfortunata, non poteva capitarmi giorno peggiore. Rimpiansi il momento in cui non mi ero alzata da quel letto e non avevo finto una cefalea cronica da ricovero ospedaliero immediato.
Cercai di tornare a concentrarmi, a ricordare cosa avevo scritto negli appunti durante la spiegazione di Cartesio, massaggiandomi la testa. Non mi veniva in mente nulla.
Stavo per disperarmi quando vidi volare sopra al mio banco un bigliettino. Perfetto, ci mancava solo che qualcuno mi chiedesse una mano che io non ero in grado di dare.
Aprii, sconsolata, e trovai invece una serie di parole, l’una dietro l’altra. Capii immediatamente che erano i punti chiave del pensiero cartesiano. Mi girai a vedere meglio i miei compagni di classe per capire a chi dovevo quella salvezza improvvisa e a chi avrei giurato amore eterno.
Lorenzo, poco più a destra di me, mi fece un cenno della mano e sorrise, per poi tornare a scrivere la sua risposta. Vidi il professore alzarsi e venire verso la mia direzione appena in tempo; nascosi il bigliettino sotto il foglio della verifica e iniziai intanto a scrivere qualcosa, sorridendo al pensiero che ci fosse qualcuno nel mondo a capire che avevo bisogno d’aiuto senza che io lo chiedessi esplicitamente.
 
Due ore più tardi suonò la campanella della ricreazione e ancora ero indecisa su dove andare. Escludevo di fiondarmi come al solito nella classe di Francesco: avevo deciso di affrontare la cosa, ma ciò non significava che volessi andare a cercarmela. Rimanere in classe era escluso, perciò andai a prendere un caffè alle macchinette, per cercare di calmare i nervi.
Lì trovai qualche mio compagno di classe tra cui Lorenzo, perciò gli feci cenno di aspettarmi; mentre i suoi amici se ne tornavano in classe, io mi avvicinai a lui, pigiando più volte sopra al bottone dello zucchero e inserendo i soldi.
“Calo di zuccheri?” domandò, non potendo fare a meno di notare il mio gesto.
“Calo di nervi più che altro,” risposi senza pensare. “Senti, Lorenzo, grazie per il bigliettino durante il compito.”
“Ma figurati! Con tutte le volte in cui mi hai aiutato tu in latino.”
“Già, in effetti è strano che sia stato tu a passare il compito a me.” Sorrisi, ripensando ai suoi sei strappati nelle materie umanistiche solo grazie a me.
“Eh, ma oggi avevo studiato per bene, quindi tranquilla. Ciò che ti ho detto è giusto. O almeno spero.” Sorrise a mo’ di scuse, ma non ci feci caso. Anche se avesse sbagliato a passarmi qualcosa, mi aveva comunque aiutato, perché se fosse stato per me avrei consegnato il compito in bianco. E non potevo fare a meno di essergli grata.
“Grazie comunque.”
“Ma come mai un genio come te non era preparata per il compito dell’anno?” domandò, con finta noncuranza. Mi girai verso di lui, osservandolo meglio: sembrava un po’ preoccupato o era solo la mia impressione? O era solo il fatto che avevo bisogno di qualcuno che si preoccupasse per me in modo diverso da come faceva la mia famiglia a farmi pensare che fosse realmente così?
“Ieri ho avuto una brutta giornata,” minimizzai.
“Oh, del tipo ti si è rotta un’unghia?” Lorenzo era sempre stato il classico ragazzo che considerava le ragazze un gregge di pecore stupide (e spesso trovava la mia comprensione).
“Più del tipo mi si è conficcato un pezzo di vetro nel cuore.” Sorrisi garbatamente, sforzandomi di essere forte.
Lorenzo non disse nulla per un po’, poi appoggiò la sua mano sopra alla mia spalla, come a farmi coraggio, come a tenermi ferma. “Vedrai che una volta tolto con quel vetro farai tanta sabbia colorata.”
Gli sorrisi, incredula. Poi sbiancai, vedendo dietro di lui Francesco, che ancora non mi aveva notata. Avevo poco tempo per sparire da lì e non doverlo incontrare.
“Ehi, Lorenzo. Ti va di andare un po’ in giardino?”
 
Quello che chiamavano giardino, nella nostra scuola, in realtà era un semplice appezzamento di terra grande non più di una decina di metri quadri, di solito riempiti da gente che fumava qualche sigaretta di nascosto dai professori. Io non ci andavo quasi mai, poiché a me e a Francesco piaceva molto più girare per l’interno della scuola, anziché rimanere fermi in un posticino così piccolo. Non vi erano nemmeno alberi, era solo un posto di natura ritagliato in un luogo dove non c’era niente di naturale.
“Canti ancora?” chiesi a Lorenzo, giusto per iniziare a parlare di qualcosa.
“Ogni tanto, sai, il gruppo si è sciolto quindi…”
“Oh, mi dispiace. E perché?”
“Divergenze artistiche.” Scrollò le spalle. “Diciamo che non cercavamo più le stesse cose quindi abbiamo preferito concludere. Ormai sono passati un paio di mesi, mi manca un po’ ma capisco anche io che fosse la cosa giusta da fare.”
“E quindi? Pensi di cercare un altro gruppo?”
“No, non credo. In realtà vorrei più che altro fare qualcosa di acustico, sai, solo chitarra e voce. Credo di essere più portato per questo, quindi spero di avere modo di imparare a suonare presto.”
Annuii. Avevo sentito poche volte la sua voce ma ricordavo che ne avevo apprezzato molto il timbro e pensavo che non sarebbe stato male in acustico. “Se riuscirai a mettere su qualcosa devi dirmelo, voglio sentirti.”
Mi guardò, quasi sorpreso. In effetti non è che avevamo mai avuto un grande rapporto come compagni di classe, ero sempre e solo stata la sua salvezza durante i compiti impossibili, mai un’amica. “Va bene, Arianna. Tu fammi sapere se riesci a toglierti quel pezzo dal cuore, altrimenti potremmo sempre tirarci su il morale con qualche birra, una sera. Potresti uscire con noi, sempre se non vai fuori con le nostre compagne a ballare.”
Scossi la testa, ridendo. “Chi, io? Nah, non sono tipo. Mi piacerebbe molto.”
“Forte.” Mi sorrise. “Ti farei conoscere i miei amici, ti piacerebbero.”
“Ah sì? Perché, come sono?”
“Mh. Dei tipi.” Risi alle sue descrizioni così dettagliate.
“È meglio che rientriamo, a momenti suona e sai che la professoressa di Arte non vuole che arriviamo in ritardo.”
“Sia mai!”
E corremmo in classe, e mi sentii meglio. Il mondo, fuori dalle preoccupazioni, era grande e bello, se c’erano posti in cui poter correre.
 
Arrivata a casa controllai il cellulare, distrattamente, e vidi che erano arrivati tre messaggi.
Uno era di Chiara.
Come sta la mia Brie?
Brie era il nome della protagonista di un libro che avevamo letto entrambe mille o più volte, che all’inizio della storia moriva perché le si era spezzato il cuore. Sorrisi, pensando che forse in Paradiso avrei trovato pure io un Patrick con cui stare.
Risposi brevemente: Giorno 1: Pericolo scampato, cuore triturato.
Il secondo messaggio, invece, era di Francesco.
Dove sei sparita oggi? Non ti ho trovata da nessuna parte. Eri a casa? Stavi male?
Ingoiai il fiume di parole che gli avrei voluto scrivere, su come la sofferenza mi stesse dilaniando petto e cuore, su come avrebbe dovuto guardare meglio per trovarmi, su come avrebbe anche solo dovuto amarmi. Risposi invece: No, scusa, ero con dei miei compagni.
Il terzo messaggio invece era di mio padre.
Arianna, ricordati di controllare i risultati degli esami e di stamparli, così andiamo dal medico appena torno.
Deglutii, dimenticando Chiara, Francesco, Ilaria e Lorenzo.
Era ora.
Era ora di conoscere la verità.









{ Spazio HarryJo.
Ciao, come state? Eccomi qui, sono ritornata con il nuovo capitolo di Diagnosi, incredibile ma vero. Devo dire che questa storia mi è mancata molto più di quanto pensassi, perché rivedendola in questi giorni mi sono completamente ritrovata in questo mondo e sono contenta quindi d'esservi tornata. Spero faccia piacere anche a voi.
Dopo questo capitolo si tornerà a parlare della "malattia" di Arianna con più attenzione, essendo ancora all'inizio lei ora non ha ancora i pensieri così fissi lì. Ma dal prossimo capitolo sarà tutta un'altra musica.
Qui si è conosciuto, inoltre, un nuovo personaggio: Lorenzo. Un compagno di classe che lei fino ad allora non aveva mai guardato sotto occhi diversi della persona che le copiava i compiti di latino, ma che in quel giorno ha avuto una grande importanza. Chissà che non ritorni a farle e a farci compagnia. :)
Ah, il libro a cui fa riferimento Arianna è Storia catastrofica di te e di me di Jess Rothenberg, uno dei miei preferiti. Vi consiglio caldamente di leggerlo!
Ringrazio tutti coloro che mi hanno letto, recensito e seguito fino ad ora. Fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo se volete, un bacio,

Erica.
Vi ricordo, per chiunque volesse, che sto scrivendo un'altra long,
Contaminati.
   
 
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