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Autore: FrancyBorsari99    23/04/2014    1 recensioni
"...Mi voltai ed incrociai lo sguardo del mio amico. Non credo di aver mai visto tanta paura concentrata in soli due occhi. Gli tremavano le mani e le lacrime gli rigavano le guance. Lo abbracciai e gli promisi che sarebbe arrivato dall'altra parte, con o senza di me, gli ricordai che la sua famiglia lo aspettava a casa, così come la mia. Poi tornai a guardare su, verso il campo, cercando con lo sguardo il punto migliore per passare attraverso il filo spinato. Non appena lo individuai strinsi le dita sul fucile.
Eravamo pronti."
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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LA GRANDE GUERRA

Racconto di un soldato superstite

 

13 Novembre 1918

Un silenzio teso percorreva tutta la trincea. Non c'era soldato che non avesse paura, anche il maresciallo era terrorizzato, ma le sue parole continuavano a tenere alto il morale del plotone.

Io non ne potevo più della guerra, di tutte le motivazioni insulse ed assurde che avevano spinto le nazioni a massacrarsi a vicenda; come si suol dire, ne avevo ufficialmente piene le tasche.

Salii la scaletta di un paio di pioli impugnando il binocolo e mi sporsi oltre i sacchi di sabbia.

Il campo era impregnato di sangue mescolato a fango, qui e là i cadaveri dei nostri compagni erano riversi nelle pozzanghere fra una rete metallica e l'altra, e chi ci era impigliato dentro come un topo in trappola.

L'odore della morte mescolato a quello metallico del sangue e dei corpi in decomposizione era tremendo. Il mio stomaco si ribellò e trattenni un conato.

Ecco, dove si arriva, quando la stupidità umana fa il quattro per quattro e si comincia a litigare, e ci si allea con le persone sbagliate. Si muore.

A una decina di metri dalla nostra trincea riconobbi il corpo del ragazzo che era nel mio stesso carro armato nel trasferimento. Era appena un uomo, di soli vent'anni, e già era morto. Repressi la rabbia e spostai lo sguardo più avanti, verso l'avamposto successivo. Era vuoto, e noi dovevamo arrivare fin laggiù , a circa trecento di metri di distanza, senza fare la fine dei nostri compagni.

Ovviamente i tedeschi conoscevano le nostre intenzioni, e ci aspettavano con le orecchie tese come cani da punta. Quella trincea era vuota da qualche giorno, da quando l'unico plotone rimasto era stato decimato da una bomba di gas lacrimogeno. Nel darsi alla fuga erano stati uccisi tutti. Ormai i veleni dovevano essersi dissipati, conoscendone le proprietà chimiche, e a tornarci non c'era alcun pericolo. Ma se non ci sbrigavamo, invece che morire per una pallottola in corpo, saremmo morti di fame. Ormai i viveri mancavano da quattro lune e avevamo dato fondo alle munizioni.

Mi alitai aria calda sulle mani per vincere il freddo pungente e scesi dalla scala, lasciando il posto ad un altro mio compagno che conoscevo di vista.

Mi acquattai contro la parete e agganciai la baionetta al fucile facendo un cenno al resto del plotone. Avevo pochissima polvere da sparo e se i proiettili non avessero cominciato a cascar giù dal cielo, la situazione si sarebbe fatta ancor più tragica di quanto già non fosse. Presi un bel respiro e mi sporsi in avanti. Un brusio nervoso e concitato percorse il gruppo. Poi si spense e, nel silenzio più assoluto ci arrampicammo sulle scale, fucili in spalla.

Il maresciallo diede l'ultimo ordine: – Se il compagno davanti cade, voi prendete il suo fucile e continuate a correre. Se si rende necessario, prendete quello di uno già morto e raggiungete la prossima trincea.

Ero io il compagno davanti. Ero io quello esposto alle raffiche nemiche.

Mi voltai ed incrociai lo sguardo del mio amico. Non credo di aver mai visto tanta paura concentrata in soli due occhi. Gli tremavano le mani e le lacrime gli rigavano le guance. Lo abbracciai e gli promisi che sarebbe arrivato dall'altra parte, con o senza di me, gli ricordai che la sua famiglia lo aspettava a casa, così come la mia. Poi tornai a guardare su, verso il campo, cercando con lo sguardo il punto migliore per passare attraverso il filo spinato. Non appena lo individuai strinsi le dita sul fucile.

Eravamo pronti.

Un urlo e ci lanciammo fuori.

Corsi a rotta di collo inciampando nelle reti metalliche e nei corpi che cadevano intorno a me, senza voltarmi indietro nemmeno una volta. Le raffiche delle mitragliatrici mi echeggiavano implacabili nelle orecchie, i proiettili mi colpivano le braccia di striscio lasciando profondi solchi nella carne. Io non me ne curavo e continuavo a correre.

Le esplosioni cominciarono a far tremare la terra dieci secondi dopo che ebbi iniziato il mio percorso. Una granata atterrò a qualche metro alla mia sinistra sollevando acqua, reti, zolle di terra, polvere, corpi e cadaveri. Lo spostamento d'aria mi investì e atterrai di schianto sulla spalla. Malgrado il dolore mi annebbiasse la vista, mi rialzai barcollante e mossi qualche passo incerto verso il fucile. Vi caddi sopra e mi trascinai dietro ad una grossa matassa di filo spinato, per controllare le funzionalità dell'arma. La baionetta si era spezzata a metà, ma la polvere da sparo era praticamente intatta, e avevo ancora tutte le munizioni. La canna era scheggiata all'estremità ed sul calcio si apriva uno squarcio. Poteva ancora sparare.

Rimasi lì seduto, imbambolato, senza sapere cosa fare. Avevo senz'altro la clavicola rotta, il dolore lancinante ne era un'inconfutabile segnale. Avevo le mani sporche di rosso per tutti i corpi su cui ero inciampato e le ginocchia scorticate, l'elmetto ammaccato che mi premeva sulla tempia e le braccia piene di graffi delle pallottole che mi avevano colpito di striscio. Potevo benissimo lasciarmi sparare e tanti saluti. Far cessare quell'agonia.

Non so perché lo pensai, so di per certo che scattai subito in piedi dandomi dell'idiota. Un proiettile sibilò a pochi centimetri dal mio orecchio sinistro. Mi girai appena in tempo per vedere il mio secondo fissarmi con occhi vitrei a qualche metro da me. Aveva le pupille vuote e velate, mi fissavano senza vedermi veramente, e la bocca dischiusa in un gemito sordo.

Vacillò paurosamente in avanti e cadde al suolo in una pozza di sangue.

Era stato ucciso dalla pallottola che mi aveva mancato.

In quel momento sentii la parte più ragionevole di me morire insieme a lui.

La rabbia affiorò incontrollabile, mi voltai e ripresi a correre verso un piccolo fortino avversario, incurante del massacro che avveniva intorno a me , incurante del nemico che ci sbaragliava tranquillamente nascosto nella sua trincea.

E cominciai a combattere.

Mi lanciai per terra dietro ad un cumulo di sacchi di sabbia, imbracciai il fucile e sparai una mitragliata di pallottole abbattendo tre soldati Tedeschi che avanzavano nella mia direzione. Sganciai con i denti la sicura di una granata e la scagliai con tutta la forza della spalla sana verso il bunker.

Metà del muro di difesa saltò in aria con un fragore assordante e gli uomini nascosti con essa . Mi raggomitolai dietro al mio riparo tappandomi le orecchie e ascoltando con i piedi il tremendo vibrare della terra. Aspettai che quell'inferno finisse e mi preparai ad affrontare il prossimo.

Balzai fuori spinto da un impeto di rabbia e dolore e afferrai la baionetta di un uomo che implorava il signore di finirlo in fretta. L'agganciai al mio fucile e ammazzai l'ennesimo militare che stava per spararmi.

Poi finalmente lo vidi. Uno stretto corridoio scavato nella terra e protetto da sacchi di sabbia, pieno di tutto ciò che faceva al caso nostro : munizioni, cibo e medicinali.

Ce l'avevo fatta. Ma stavo gioendo troppo presto.

Stavo per scavalcare il muro quando sentii un dolore straziante che si propagò dal polpaccio fino al resto del corpo, lasciandomi sfuggire un grido inumano. Non riuscii più a reggermi e caddi in avanti nella trincea, tre metri più in basso. La spalla mandò un'altra fitta lancinante, e la gamba le resse il gioco.

La polvere si dissipò davanti ai miei occhi e vidi un mio compagno.

-sei vivo- mi disse. -ci sei riuscito. Starai meglio.- chiamò un altro soldato che arrivò imbracciando al volo una barella di fortuna, mi ci caricarono sopra e venni portato in infermeria. Era un locale illuminato da lampade ad olio, scavato sotto la terra. Non c'erano che due uomini in fin di vita. Dovevamo essere gli unici del plotone ad essere arrivati vivi.

I miei salvatori erano miracolosamente incolumi, e mi adagiarono su una branda.

A quel punto i miei ricordi si fanno confusi, ma sento ancora il dolore come se anche adesso mi attanagliasse, mi stringesse nella sua morsa mortale mentre mi medicavano le ferite.

Ricordo benissimo di aver sentito i due medici dire che gli altri due reduci erano morti dissanguati. Le loro voci concitate mi rimbalzano ancora oggi nella testa lasciando morire ogni volta una parte di me.

Poi erano usciti. Si erano chiusi la porta alle spalle. E non tornarono mai più.

Dormii diversi giorni. Non mangiai e non bevvi. Non venne nessuno.

Ascoltavo immobile la guerra imperversare là fuori fissando il soffitto di terra e radici.

Solo quando stavo per morire disidratato arrivarono due soldati dall'accento francese che non conoscevo e che mi trovarono sotto le macerie di altre esplosioni che avevano celato l'infermeria. Mi presero con loro.

Stetti fermo un mese e mezzo, senza capire né ascoltare quello che mi veniva detto, senza guardare né fare null'altro, se non tirare avanti e sopravvivere.

Quando finalmente ripresi coscienza e realizzai che ero in un ospedale la prima cosa che il dottore mi disse fu: -La guerra è finita. Potrai raccontarla ai tuoi nipoti.

Era esattamente quello che avrei fatto.

Poi ricordo solo di aver sorriso.

 

 

  
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