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Autore: RLandH    23/04/2014    4 recensioni
“Mamma dice che devo tenervi d’occhio” aveva detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine.
Leonardo Da Vinci incontra in un sogno un ragazzino che sembra presentarsi come un'altra sorsata alla fontana della conoscenza.
Girolamo è perseguitato da incubi.
Una serva, un artista, una madonna ed un indovino.
E tutti sono legati inevitabilmente dal desiderio di una donna di conoscenza, incapace di viver ancora nel dubbio.
Leonardo l’aveva guardato, “Chi sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto.
Genere: Avventura, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nico, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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DVD

La storia è ambientata ad occhi e croce nel 79, anno più, anno meno, ovvero pochi mesi dopo il loro rientro dal Nuovo Mondo. In cui diamo per scontato che Da Vinci si è semplicemente avvicinato alla Volta Celeste e a sua madre, senza però averli trovati. Dunque pronto a ricominciare dal principio, con un Nico non più Nico ed uno Zoroastro decisamente meno prodigo a tali follie. E be, il titolo è preso dalla Genesi, così come il titolo del capitolo (e come farò probabilmente per tutti i titoli dei capitoli) di un brano legato strettamente a questa storia. Diciamo che quel Brano mi ha dato l’idea.

Buona Lettura

RLandH

 

 

 

Sono forse il guardiano di mio fratello?

 

 

Atto I: Io sarò ramingo e fuggiasco

 

(1450)

“Non è giusto che debba sempre tenerli d’occhio” s’era lamentata la bambina battendo i piedi per terra, calpestano l’erba dei giardini, aveva chiuso le mani attorno al petto ed imbronciato il viso. Sua madre s’era chinata, così da poterla guardare negli occhi, accarezzandole delicatamente i capelli in maniera così dolce, da far sciogliere il piccolo broncio della bambina. “Ma perché tu sei la più grande” le aveva detto con una voce minuta, “Ma loro sono maschi, sono loro che dovrebbero prendersi cura di me” si lagnò ancora la piccola. “Ma così sarà, bambina mia, quando sarete grandi, loro saranno forti e ti proteggeranno, sempre” le aveva assicurato sua madre, “Ma … ora devi prenderti tu cura di loro” aveva detto toccandole il naso con l’indice in un lieve buffetto, il suo sorriso era di miele. La bambina aveva annuito, silenziosa, non del tutto convinta. Ma era scappata per ricercare i suoi due piccoli fratellini. Lei aveva nove anni, era una piccola donna, i suoi fratellini avevano sette ed due, la mamma diceva che doveva occuparsene lei e così avrebbe fatto. Trovò il mezzano seduto sull’erba, incurante del macchiarsi gli abiti che li avevano a forza infilato, con i capelli spettinanti, sulle gambe teneva il minore, mentre lì mostrava quello che doveva essere una lumaca.  “Mamma dice che devo tenervi d’occhio”  aveva detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine. Lei li aveva guardati, aveva mosso il viso e si era sforzata di restare calma, perché erano piccoli ed era normale che non capissero, non era neanche importante che lo facessero, tanto c’era lei lì ad assicurarsi che andasse tutto bene.

 

 

 

(1479)

Filippa era finalmente riuscita a prendere sonno, chiudendosi sotto le coperte del suo lettino. Quello era da notti la prima volta che riusciva ad addormentarsi nella sua piccola stanzetta, negli alloggi della servitù. Era tornata la madonna della casa ed era disdicevole che una serva dormisse nelle stanze del signore, anche perché quasi sicuramente i due avrebbero condiviso il letto. A volte a guardarli Filippa aveva l’impressione si amassero davvero molto, o almeno si prendessero cura l’uno dell’altra,  anche se le loro nozze erano state organizzate ed i due sposi non s’erano mai visti fino all’annunciazione del fidanzamento, sembrava avessero costruito una solida affinità. D’altronde avevano condiviso non solo una non minima porzioni di tempo assieme, ma anche un figlio. Nessuno l’aveva mai detto a Filippa, ma lei stessa aveva l’impressione il signore si svuotasse in lei quasi per bisogno che per interesse nella sua persona.

Chiuse gli occhi e finalmente fu pronta a concedersi al dolce bacio del sonno, quando un forte picchiare sul legno della porta, la costrinse a schiudere le palpebre. Scivolò fuori dalle coperte, con solo la vestaglia di lino a coprirla ed aprì la porta. Stagliato sulla porta c’era un imponente uomo, dalla stazza d’un orso, vestito , con forse il doppio dei suoi anni, con un grosso naso schiacciato tumefatto a causa di tutti i colpi che aveva ricevuto ed occhi ombrosi, “Lele” mormorò abbastanza preoccupata, “Che succede?” domandò poi, non ottenendo dall’uomo neanche un sussurro, “La madonna vuole parlarti” aveva detto quello, prima di andarsene, attendendo il suo solito grugno sul viso.  Filippa aveva appena aperto la bocca, abbastanza impreparata. La signora voleva vederla? A quell’ora di notte? Neanche tre ore che fosse tornata dal suo viaggio? Possibile che quella donna non avesse neanche il bisogno di riposarsi?

Seguì Lele fino alle porte della camera della madonna. Si arrestò lì davanti, bussò in maniera delicata, fino a che non udì il permesso di entrare. Allora aprì la porta e si infilò dentro. “Chiudi la porta” le disse imperiosa la signora, lei annuì e se la chiuse alle spalle, posando la schiena su essa, intimorita leggermente. La madonna era seduta sul letto, non indossava ne l’abito da notte, ne quello comodo con cui era arrivata qualche ora prima alla tenuta. Ma indossava una lunga maglia morbida di lana, fermata sulla vita da una cintura di cuoio scuro, pantaloni di lino scuro e stivali di pelle.  Non era una donna bella, ne una donna brutta, aveva un viso spigoloso ed un naso vagamente importante, la sua carnagione non era chiara come la perle, ma sempre brunita, il viso era incorniciato in capelli lunghi e lisci, d’un nero così scuro come l’inchiostro più corvino, ma ugualmente più chiari degli occhi, così scuri come  schegge di pece bruna, da sembrare il vivo sguardo d’un satanasso.  “Ho intenzione di partire questa notte” aveva commentato, afferrando dalla postazione cui era abituata farsi la toletta, una spazzola. “Certo signora” disse Filippa con un tono ossequioso, “Ma non si dovrà sapere” aggiunse, prima di sistemarsi davanti lo specchio, finemente istoriato e ponendo l’oggetto verso la cameriera, che con un passo lento l’aveva raggiunta, cominciando a pettinare i capelli. “Da domani sarà noto, che dal mio ultimo viaggio io sia stata colta da una febbre” aveva comunicato, mentre Filippa faceva passare i denti tra i fili di capelli, “Partirai con me, insieme al buon Michele” aveva stabilito ferrea. “Intrecciali e raccoglierli in cima, in modo che stiano sotto un capello” le ordinò, prima di riprendere il discorso sulla partenza, “Non portare nulla di quello che non sia essenziali, partiremo con tre cavalli questa notte, nelle cucine stanno già preparando le scorte” aveva impartito, la cameriera aveva annuito, mentre chiudeva con degli spilli i capelli sulla sommità della nuca della sua madonna. Avrebbe voluto chiederle dove erano dirette e perché avesse scelto proprio lei, ma non era prerogativa dei signori rispondere alle domande della servitù. La madonna fissò il suo collo, dove svettava un crocifisso grande come un palmo d’un argento brillante, l’aveva preso ed infilato nell’orlo della maglia, lasciandola nascondere sotto gli abiti, cosa che inquietò Filippa non poco, non era abitudine della signora nascondere i suoi oggetti più preziosi e quello, ne era certa, lo era.

“Ultima cosa” le disse, mentre sistemava il capello per nascondere i capelli, “Vestiti in maniera discreta” le impartì, prima di congedarla ed avvertirla di essere nel cortile ad un ora da quel momento. Filippa chinò il capo in maniera distinta e si mosse a prepararsi. Il suo guardaroba non era fornito, non possedeva abiti vistosi ne da viaggio. Era una serva, le uniche cavalcate che aveva fatto erano state per accompagnare i signori le poche volte che le era stato richiesto e spesso le era evitato il dorso d’un equino. Non aveva pantaloni o stivali, ne farsetti, l’abito meno femminile e più anonimo che avesse era una bisaccia ed un saio che una volta aveva preso ad un giovane francescano disgustato dalla sua stessa veste, che aveva intrapreso quella strada più per volere paterno che per illuminazione. Il frate s’era preso il vestito del coppiere che prontamente Filippa s’era guadagnata e lei aveva acquisito un saio, che di fatti non le era stato mai molto utile, se non nell’occupare  un piccolo spazio nella sua già modesta stanza. Alla fine indossò una lunga veste di lana nera, che coprì con una mantella nocciolo di mela, che arrivava fino a terra. Aveva infilato delle bende nella bisaccia e della stoffa nella biancheria, dopo che contando i giorni s’era resa conto che il suo sangue era prossimo. Si chinò ed infilò le mani sotto la sua brandina su cui dormiva, pigiò tra le mattonelle fredde per cercare quella che scricchiolava e quando una si sollevò appena, Filippa la tirò fuori; scostata quella, infilò la mano piccola nel fessura del pavimento ed afferrò l’oggetto morbido che era riposto dentro. Impolverato si trovò tra le dita un panno gialliccio annodato, che sfasciò con movimenti frettolosi, esso era custode d’un legnetto piatto, attraversato da due barre orizzontale nella parte superiore, la seconda era più lunga, c’era una terza più bassa, obliqua, v’era rappresentato un uomo crocifisso. Era vecchia, il dipinto sempre più pallido ed il legno più marcio. Ma Filippa non ne era toccata affatto, ne baciò il centro con dedizione, come un affamato alla vista d’un tozzo di pane, poi l’avvolse ancora nel panno, con movimenti lenti, delicati, curati  e la sistemò nella bisaccia, tra le bende per il flusso ed i vestiti per qualche giorno. Non si sarebbe mai sentita sicura senza, mai nella vita, era l’unico appiglio che le restava di quella vita così lontana. Era un ricordo, un ancora per la sua anima. Era perduta senza. Ripose la mattonella, per chiudere la fessura con movimenti molto meno frenetici di quelli usati per estrarla. Si sollevò dalla posizione inginocchiata ed infilò la bisaccia con la corda di traverso, nascondendola sotto la mantellina.

Quando si presentò ai giardini, Lele era l’unico ad essere lì, indossava gli stessi abiti con cui l’aveva visto un ora prima. Teneva le redini di un grosso stallone maculato ed alcuni scudieri preparavano due giumente già sellate, una era Dalila, la cavalla della signora, l’altra, quella più piccola e sottile, doveva essere quella che spettava a lei. “Non sali, Ippa?” aveva domandato Lele, con quella voce greve, che metteva sempre in soggezione la cameriera, quella annui, tirò su l’orlo della gonna fino all’inguine, non vergognandosi di mettere in mostra le calze blu spesse ed infilando la pianella scura nella staffa ed issarsi di forza, rischiando di scivolare giù ed aggrappandosi al collo della cavalla. Lele l’aveva afferrata per la vita ed issata di forza, prima che scivolasse a terra e si portasse a terra anche la puledra. “Grazie” disse lievemente in imbarazzo.  Lele non accennò un sorriso, ne nulla, il suo viso rimase un granito grugno e continuò a fare ciò  che faceva prima, aspettare la madonna nel più completo dei silenzi. Mentre Filippa cercava di prendere confidenza con la puledra, provando ad accarezzarne in collo con movimenti lenti,  Lele sembrò accorgersi di nuovo di lei, “Sai che questo viaggio è diverso dagli altri” le disse con un tono disinteressato, lei lo guardò mordendosi il labbro appena, “Certo … l’avevo capito dalla fretta” aveva mormorato dopo diversi, interminabili, minuti. La verità era che non se n’era minimamente curata, le era stato insegnato che ad una serva non era richiesto pensare o parlare, solo servire. L’aveva imparato con le legnate, i calci ed i pugni. Se la tua madonna ti chiedeva di rammendare tutti i fazzoletti lo facevi, così come alzavi la gonna se il signore l’ordinava. Era stata per Filippa genuina curiosità chiedersi perché la madonna avesse scelto proprio lei, ma non aveva dato fiato ai suoi pensieri, su dove andassero, non era suo interesse, era solo suo dovere andare.

La signora arrivò poco dopo, con una falcata imperiosa,  era esattamente come  la cameriera l’aveva lasciata,  l’unica differenza era una lunga cappa, del colore del manto della notte, ad oscillarle  sulle spalle, fino alle caviglie, legato al collo, ma aperto sul davanti. Alla sua schiena c’era il Signore della casa e qualche altro scudiero frettoloso. Il padrone aiutò a salire la moglie su Dalila. Poi le aveva passato la sua sacca, che la donna legò alla sella del cavallo, il tutto in un silenzio spettrale ed angosciante.  “Fa attenzione” cedette alla fine lui, con un tono apprensivo. Filippa sollevò lo sguardo e l’osservò: era un bell’uomo, pensò, aveva i capelli di miele, striati di grigio, e gli occhi scuri come le querce, l’aspetto poteva apparire alquanto anonimo, ma aveva una bella bocca, carnosa ed una dentatura perfetta.  Filippa avrebbe voluto baciarlo quando la prendeva ma non ne aveva mai avuto coraggio. “Non posso più aspettare, Antonio, io devo sapere” disse con un tono basso, ombrato d’un’incredibile dolore e rabbia la donna, stritolando le redine con i pugni, tante che le nocche erano divenute livide come la neve, “Non posso più vivere, senza sapere”. L’uomo annui, piccolo in confronto a quella donna,  le prese la mano coperta dal guanto e la spogliò, lambì la nuda pelle del dorso con la bocca, un bacio dolce e carico di reverenza. “Tornerò Antonio” lo tranquillizzò la donna, il marito sorrise “Torni sempre” concordò affabile , a quel sorriso in grado di sciogliere qualsiasi cuore anche la madonna rise, non aggiunse altro, batté i talloni sul ventre della creatura e partì a galoppo, seguita immediatamente dalla prodezza di Lele e da una più impreparata Filippa, cui dovettero tirare uno schiaffo sul deretano della puledra perché questa partisse, la cameriera afferrò le redini quasi per miracolo.

 

“Devo restare in questa posizione per quanto tempo ancora, Maestro?” domandò Yana, mentre cercava di calmare la creaturina tra le sue braccia, una capretta che non ne voleva sapere di star ferma, così come la straniera che cercava anche di abituarsi a quei vestiti mondani e civilizzati che sembravano starle alquanto scomode. E Leonardo spezzò la punta del gessetto sulla tela, chiedendosi dove fosse stato possibile trovare un abbinamento donna-capra tanto ostico.  Vanessa avrebbe fatto star calma tra le sue braccia anche una tigre, la prova era che appena stava tra le sue braccia il suo bambino taceva i suoi vagiti. Ma sfortunatamente, madonna Orsini l’aveva privato della sua modella più esperta, rettificando che quel bambino era un De Medici ed anche sua madre era ora membro di quella famiglia ed una donna d’alto borgo non se ne andava in giro per le taverne con un artista squattrinato, che Leonardo fosse l’ingegnere di Firenze e condividesse lo stesso sangue di Lorenzo, per Clarice Orsini era relativo.

“Sta ferma” impartì nervoso. Non aveva affatto voglia di star a disegnare quella donna, non che avesse qualcosa contro Yana, ma Andrea – vecchio pazzo –  l’aveva minacciato di sfratto se non si fosse dedicato ad altro che non fosse la Ricerca della Volta Celeste o la guerra contro Roma, almeno per un pomeriggio; Verrocchio lo faceva per farlo distrarre, almeno così diceva.  Yana ringhiò qualcosa a denti stretti e non ci serviva Zoroastro per tradurre il senso di quel che avesse detto. Con il carboncino sfumò appena il profilo preciso della ragazza, cercando di darle un aria divina, una modella come Lucrezia sarebbe stata più adatta, ogni sua espressione era da immortalare o Ima, ancora ora a distanza di tempo, si sentiva ambiguo nel pensare alla sacerdotessa del nuovo mondo. “Ritorna a guardare obliquo” ordinò a Yana, quando questa aveva inclinato il capo; sbuffò e tornò alla sistemazione originale, cercando di non far cadere la capretta che continuava a dimenarsi. “Oh maestro siete incredibile” disse una voce adorante, Leonardo si voltò,  alle sue spalle c’era un ragazzo con meno di vent’anni, la carnagione olivastra ed un indomita criniera di ricci e sorrideva quasi adorante, era vestito con un abito semplice, ma di colori sgargianti, “Grazie Lorenzo” borbottò Leonardo tornando alla sua amica che sembrava aver cominciato una faida con la pecora, intenzionata a mangiarla arrosto, come stava dicendo in quel momento.

“Avete un tratto così preciso, Botticelli è mosso solo da invidia, Maestro” aveva detto languido. Leonardo vide un sopraciglio di Yana sollevarsi e sul viso tatuato tingersi un espressione profondamente ilare e irrisoria, “Non cambiare espressione” le impartì, ignorando apertamente le parole di Lorenzo, completamente  perso per lui.  La ragazza s’era impegnata per non cambiare espressione, mentre l’artista cercava di immortalarla, “Ma Nico e Zoroastro?” domandò alla fine lei,  Leonardo non le rispose, continuando a ritrarla, anche mentre la capretta le stava mangiando i capelli, nonostante la ragazza fosse stata completamente ignorante di questo. Lui era solamente frustrato, trovava un enorme perdita di tempo, stare a disegnare, quando altre mille idea s’affollavano nella sua testa. “Maestro ho trovato la sua Annunciazione, ho notato che non è completa” aveva mormorato Lorenzo con un tono di voce bassa. Leonardo lo guardò, “Puoi farlo tu” disse disinteressato, di qualsiasi quadro stesse parlando, difficilmente lui l’avrebbe finito, quando perdeva interesse in qualcosa non era sua abitudine portarlo a termine, come quel dannatissimo carboncino che stava facendo in quel momento, che avrebbe volentieri voluto accartocciare  e far sparire da qualche parte.

Yana posò la capretta a terra, “Mi sono stufata, Leonardo, preferisco fissare le stelle” disse infastidita, sollevando la gonna lunga per camminare più comoda, totalmente infastidita da quegli abiti che Zoroastro e Leonardo le avevano fatto infilare a forza quando aveva messo piede sul suolo italiano. “Andrò  a pregare per i miei avi” stabilì lasciando da solo l’artista con il giovane. “È molto bella” aveva commentato Lorenzo, “Ha inciso con un pugnale la parola giocattolo sul petto di Alfoso di Napoli” aveva spiegato Leonardo, in una maniera contorta di spiegargli che era meglio stare lontano da Yana il più possibile.  Il ragazzo annui, sembrava disorientato, forse non era interessato alle carni della straniera. Leonardo lo guardò un attimo con mero disinteresse, prima di notare il profilo quasi scultoreo del ragazzo, afferrò il mento di quello e lo studiò con una rinnovata attenzione,  quello divenne paonazzo sulle gote, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, Leonardo aveva già sorriso.

Leonardo

La voce arrivò distante, ma Leonardo spalancò gli occhi lo stesso, non era steso nel suo letto, ma su qualcosa di freddo e resistente, come la pietra. Si rese conto non vi fosse luce. Era limitato alla pietra, pareti che li si chiudevano sui fianchi ed un soffitto che distava quasi una testa, premette le mani, nella speranza di sollevarlo, l’aria era stantia, irrespirabile. Uno spiraglio di luce appena, ed il mondo tornò a mostrarsi, il soffitto era stato spostato, Leonardo si sollevò cauto, rendendosi conto di trovarsi in una cripta e quella dove era sistemato era una tomba. “Cos …” non riuscì a finire, era stato investito come da mille luci, li parve di vedere il Turco, il Conte,  un viso senza dettagli, se stesso, Lucrezia, il papa ed alla fine era rimasto un ragazzino. “Dove siamo?” domandò, “Non dove, quando” lo corresse quello, aveva una risata divertita, era minuto, sparuto, dai capelli annodati e neri, aveva occhi castani stranamente amichevoli. “Quando siamo?” chiese, ma il ragazzino rise, “Siamo tutti di tempo diverso, io, te, il luogo” aveva risposto alla fine, sedendosi in bilico sulla tomba cercando di non caderci, “Ho sempre trovato meraviglioso che voi figli di Mitra poteste farlo” aveva spiegato.

Leonardo l’aveva guardato, “Chi sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto. Poi era saltato giù dalla tomba ed era corso fuori dalla porta della cripta, un apertura che Leonardo non si era accorto fosse presente. L’aveva inseguito svelto. Ma il ragazzo era scomparso nel giardino, una donna piangeva disperata aggrappata ad un tronco, il viso era liquefatto dal dolore ed i capelli strappati, rovinati, trincianti dalla disperazione, così come il vestito a brandelli, le unghia scarnificate dal troppo graffiare sul legno. Un passo verso di lei e già non esisteva più, di fronte a lui si erigeva spettrale Girolamo Riario, ma il viso tradiva confusione.

“Maestro”

Aprì gli occhi di nuovo, e su di lui s’era aperta la mappa di quella terra lontana, ricavata dalle pagine del libro dell’ebreo impiccato. Fu per un attimo spaesato, poi riconobbe la martellante voce di Lorenzo al suo fianco, che lo chiamava ripetutamente. Si voltò incrociando il ragazzino nudo steso al suo fianco, colmo di sudore e con un espressione allarmata. “Era un sogno” disse sbrigativo tirandosi sulla schiena e guardandosi in torno per metabolizzare dove fossero finiti i suoi vestiti, vista la fretta con cui il ragazzino  li aveva tolti, con l’impeto di saziare i propri ardori.  Infilò le braghe, afferrò una maglia, prima di rendersi conto fosse quella di Lorenzo e non la sua, la lanciò verso il ragazzo, ma questi non la prese al volo,  ricominciando a cercare i suoi vestiti. L’occhio cadde sulla Pietà che Lorenzo aveva trovato accatastato tra gli oggetti vecchi del Verrocchio. Quando Leonardo lasciava un lavoro, difficilmente riprendeva l’interesse, ma  il giovane artista aveva insistito così tanto che alla fine s’era convinto a rivederlo. Lo fissò per una serie di interminabili lavori, prima di ricordarsi che i Figli di Mitra avevano la precedenza. “Dove va  maestro?” domandò il ragazzo, sollevandosi, senza vergogna della sua nudità, guardando l’altro uomo di suo pari,  Leonardo sollevò la mano per zittirlo, afferrò con quella stessa la nuca del ragazzo e lo baciò con vigore, “Finiremo quel quadro assieme” lo rassicurò, prima di baciarlo ancora e fuggire via, animato da troppe perplessità da poter essere sfogate semplicemente in un letto in compagnia di una vigorosa compagnia. Prima di tutto doveva trovare Zo e Nico,  poteva immaginare dove potesse essere il primo, ad una qualche locanda.

Con la fretta d’uscire dalla bottega,  Leonardo quasi si lanciò in strada, travolse un indistinta macchia azzurra, che finì per ruzzolare al suolo,  “Figlio di una cagna!” rantolò la figura, da sotto un cappuccio chiaro, era emersa una chioma di ferrugine, che nascondeva un viso pallido ed infuocato, “Scusatemi signora” disse affabile allungando la mano verso la fanciulla che ora riversava sul suolo, la donna, anzi ragazzina, realizzò Leonardo, non più giovane di Nico o Lorenzo,  tese il braccio con l’intenzione di afferrare la sua mano, ma al contrario, ne schiaffeggiò la superficie, “Farei più attenzione a chi colpisco bifolco” mormorò infastidita, togliendosi la polvere dal mantello azzurro, sul collo la stoffa era fermata da una spilla d’argento istoriato, dalla forma di drago serpente, “Sparisci dalla mia vista” disse infuocata. Leonardo aveva troppa fretta per discutere con la madonna e lasciò semplicemente perdere, più interessato a trovare la tomba, il giardino, la donna urlante, il conte ed avvicinarsi al libro delle lamine ed ovviamente a sua madre, Caterina. “Questi artisti, non hanno mai  la testa sulle spalle” si lagnò, digrignando i denti la madonna e quella fu l’ultima cosa che Leonardo ascoltò uscire dalla bocca della ragazza.

Lorenzo collassò sul letto, sbuffante, dell’improvvisa fuga dell’uomo con cui aveva condiviso la carne, ma poi fu rallegrato dalla promessa di disegnare insieme, strinse tra le dita la stoffa intenzionato ad aggrapparsi a qualsiasi cosa per il ricordo e dopo essere sprofondato tra le lenzuola di Da Vinci, per odorare ciò che erano stati, si sollevò per osservare meglio la stanza che lo circondava, pieno di tutti quei disegni e progetti per cui neanche tra mille anni, Lorenzo avrebbe potuto essere in grado di comprendere. E si sentì così piccolo, eppure così desideroso di imparare. Lui non era come Botticelli, lui riconosceva la sua inferiorità, desiderava come lui migliorarsi a tal punto da essere un giorno in grado di superare quell’uomo, ma non era mosso da una logorante invidia, quanto da ammirazione, genuina e totale. Sandro era bravo, Lorenzo lo riconosceva, bravo come davvero pochi potevano essere a quel mondo, molto più bravo di lui, eppure nutrendosi di rancore avrebbe finito solo per rovinare la sua arte.

Guardò la stanza per crogiolarsi in quelle grandezze e notò l’abbozzò d’un viso d’una donna, il disegno era un tratto chiaro, insicuro, preciso, ben diverso dai progetti che aveva visto fino allora. Il viso non era delineato, non v’era che un abbozzo di naso e capelli ondulati. Ne rimase grandemente colpito, “Cosa vi sfugge, Maestro?” domandò retorico, inclinando appena il capo, osservando quelle linee disperate, alla ricerca d’un immagine che lo stesso autore non doveva avere. Che fosse anche Leonardo, come loro, alla fine un’anima persa? Che anche lui non vedesse sempre tutto chiaramente.  Sorrise davanti quella debolezza e se possibile si sentì più innamorato. Lasciò le stanze dopo tempo, rivestendosi in tutta calma, saggiando l’odore impresso in ogni oggetto di quell’uomo inafferrabile, fuggito di fretta e furia, con una promessa che probabilmente non avrebbe mai mantenuto.

Incontrò Benedetto mentre si dirigeva al laboratorio, “Cercavo proprio te, Lorenzo” disse con un sorriso amichevole, “Andrea ti chiama  nella sala all’aperto” spiegò immediatamente il conciatore, Lorenzo sorrise e lo ringraziò prima di correre nella sala in questione. Il primo viso che vide fu quello dell’amica di Da Vinci con il viso tatuato, che seduta sopra un tavolo da lavoro osservava una scena. Il Maestro Verrocchio aveva al suo fianco Sandro, una mano sulla schiena del ragazzo, sorrideva orgoglioso, mentre parlava con una fanciulla dai capelli di rame. Il maestro lo vide e sorrise anche a lui, “Oh Lorenzo, eccoti finalmente” esclamò sorridente, prima di invitarlo ad avvicinarsi, “Signora, lui è Lorenzo di Credi, insieme a Botticelli, uno dei miei migliori talenti” aveva esclamato l’uomo. La ragazza lo aveva guardato, lui non aveva mai trovato il gentil sesso attraente, ma quella di fronte lui doveva essere Venere sorta dalle acque, “Ma non i migliori” aveva detto, la sua voce era tagliente e spigolosa, “Il migliore madonna è il più incostante, purtroppo”  giustificò Verrocchio, parlava di Leonardo, si rese conto Lorenzo, “Uno di loro andrà meravigliosamente” aggiunse, battendo una mano sulle spalle di ambedue i ragazzi. La donna lì guardò con mera sufficienza,  molto infastidita dalle parole dell’artista. Era venuta per Leonardo Da Vinci, tutto del suo sguardo lo tradiva, ed invece aveva trovato loro, che non erano nulla in confronto quell’uomo.

 

Girolamo Riario aveva avuto un sonno inquieto. Nei suoi sogni c’era Da Vinci. Zita aveva preparato un infuso per farlo calmare, ma nulla era valso per tacere i suoi tormenti. Aveva pensato di scrivere una lunga lettera a Nico, per sapere cosa l’artista stesse facendo, per tranquillizzare i suoi tumulti ed anche perché era sempre meglio sapere su che cosa tenesse le mani quel folle d’un artista. Certo non pensava che il ragazzo avrebbe tradito il maestro che seguiva con tanto ardore, ma sperava che inavvertitamente, per  la vita che gli doveva, potesse lasciarsi sfuggire qualche indizio, anche minimo.  Girolamo si concentrò nel sogno trascorso: stava inseguendo qualcosa nel suo sogno, o era inseguito da qualcosa? Non lo ricordava! Era in un giardino, aveva sentito una donna urlare, un lamento quasi famigliare, cercandola, aveva trovato Da Vinci, con lo sguardo spaesato e perso. Aveva avuto la sgradevole sensazione che l’uomo fosse veramente lì, che non fosse un mondo fittizio.  “Va meglio conte?” domandò gentile la donna, massaggiandoli le spalle, l’uomo annui lentamente,  “E’ buono” commentò, guardando la tazza fumante del denso liquido, “È una formula  Abissina?” domandò stranamente incuriosito, la donna mosse il capo in senso di negazione, “Signore” disse con un tono basso, “La contessa lo ha creato” aveva mormorato, con un tono leggermente a disagio.

Girolamo sorrise appena, Caterina il suo tedio quotidiano, detestava trascorrere tempo con lei quanto la stessa detestasse stare con lui, provavano una profonda infelicità nella reciproca compagnia, composta da molti attimi di silenzio angosciante, tagliente come mille spade. Eppure, talvolta, Caterina lo cercava in maniera quasi ossessiva.  La notte che era tornato a Roma, dopo essere stato nella terra aldilà del mare, lei lo aveva aspettato nella sua stanza, con i capelli sciolti ed il vestito da notte, s’era slacciata la vestaglia ed era rimasta nuda davanti a lui, nel suo corpo spigoloso ed acerbo, Girolamo era stato con lei quasi per dovere, il meno possibile, ma quella sera, a Caterina non erano importate della stanchezza, delle ferite, del suo animo logorato, aveva voluto unirsi a lui oltre ogni cosa. Ed era sto così per due lunghe settimane, poi come un belva selvatica s’era rinchiusa in se stessa, passando il più delle giornate ad ignorarlo e dedicarsi ai dolci fasti della capitale. “Mi chiedo come stia facendo ora ad Imola” commentò assente, non realmente interessato, non aveva detto nulla quando sua moglie aveva espresso il suo desiderio di allontanarsi un poco dal ritmo frenetico della città. Lo aveva baciato davanti la carrozza, prima di salire e con la mantella stretta si era voltata. Era stata un azione meccanica, fredda, eppure in qualche modo Riario ci aveva trovato qualcosa, era come se Caterina cercasse qualcosa da lui, che il conte, così come la contessa stessa, non riuscivano a capire.  “Non dovete essere in pena, la contessa è molto forte” disse Zita, scambiando forse l’assenza di Riario per preoccupazione, il conte le aveva sorriso, “Caterina è una tigre, non sono per nulla angustiato per lei” disse sterile. Aveva altri problemi, altri dubbi e tormenti. Come il suo sogno, era una cosa che non faceva mai, i suoi sogni erano d’un buio come l’inchiostro, solo da bambino gli era capitato di sognare qualcosa, immagini contorte e malate.

“Zita, devo farti una richiesta” disse con voce fredda, serrando gli occhi. Se ne sarebbe pentito.

 

 

 

 

 

 

Allora, precisazioni dovute :

 L’ordine cronologico delle scene, la prima è la prima, poiché è un ricordo, dunque, ufficialmente la prima scena è di fatti quella di Leonardo che dipinge Yana, la seconda è il sogno di Leonardo che si svolge in piena notte, assieme all’improvvisa partenza di Filippa e la sua combriccola, la seconda scena di Leonardo (Quando scappa dopo la promessa) è la terza, il primo frammento di quella di Lorenzo, la terza di Leonardo(l’incontro con la fanciulla) e quella di Girolamo sono contemporanee è sono la quarta scena. Il secondo frammento di Lorenzo chiude ufficialmente questa porzione. Tutti i capitoli saranno presentati con una scala temporale scomoda.

Lorenzo Di Credi è uno dei miei artisti preferiti ed il quadro a cui fanno riferimento spesso lui e Leonardo è un quadro che ancora oggi ha dubbia paternità tra i due. È abbastanza noto che i due artisti si siano influenzati tra loro nel dipingere; Se Leonardo ammette di non avere confini, il mio Lorenzo invece li ha ed è perdutamente invaghito del maestro. Quando commenta la bellezza di Yana era per scoprire se fosse o meno l’amante di Leonardo, mentre quando rimane incantato dalla madonna, è una cosa puramente platonica.

Girolamo che scrive a Nico è qualcosa di apparentemente OOC, ma tra il Nico della prima stagione e Machiavelli c’è di mezzo un abisso, che si sta sempre di più accorciando, abbiamo visto qualcosa nel finale della prima stagione ed insomma Girolamo ha detto che Nico li ricorda lui e che lo vorrebbe formare lontano dalla Grazia e come abbiamo visto nell’ultimo episodio Nico ha tentato di evitare che Zo picchiasse Girolamo; quindi avevo pensato che il loro rapporto non è destinato ad interrompersi fino alla morte del conte, in modo che il Giovane Nico possa diventare Machiavelli. Oltre a ciò essendo questa storia ambientata più o meno nel 79, pochi mesi dopo il loro ritorno in patria, immagino anche Riario non intenzionato a sbarazzarsi di Leonardo, ma comunque timoroso del suo operato. E si i sogni di Girolamo e di Da Vinci si sono toccati (?).

Caterina Sforza, non lo so, ho voluto dare una spiegazione a perché non fosse apparsa nella serie. O vero un’intolleranza tra lei e suo marito, che rende il loro matrimonio  ostico. Forse cambierà, forse no … Ciò nonostante oltre essere un’abile cacciatrice,  una brava stratega, Caterina era anche un erborista molto abile.

Filippa si ritiene una donna senza volontà! Sarà vero? Comunque sia si sforza di mantenere delle radici, conservando la sua croce “particolare”.

Be Grazie mille a chiunque è arrivato fin qua giù :D

RLandH

   
 
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