La
storia è ambientata ad occhi e croce nel 79, anno più, anno meno, ovvero pochi
mesi dopo il loro rientro dal Nuovo Mondo. In cui diamo per scontato che Da
Vinci si è semplicemente avvicinato alla Volta Celeste e a sua madre, senza
però averli trovati. Dunque pronto a ricominciare dal principio, con un Nico
non più Nico ed uno Zoroastro decisamente meno prodigo a tali follie. E be, il
titolo è preso dalla Genesi, così come il titolo del capitolo (e come farò
probabilmente per tutti i titoli dei capitoli) di un brano legato strettamente
a questa storia. Diciamo che quel Brano mi ha dato l’idea.
Buona
Lettura
RLandH
Sono forse il guardiano di mio fratello?
Atto
I: Io sarò ramingo e fuggiasco
(1450)
“Non è giusto che debba sempre tenerli
d’occhio” s’era lamentata la bambina battendo i piedi per terra, calpestano
l’erba dei giardini, aveva chiuso le mani attorno al petto ed imbronciato il
viso. Sua madre s’era chinata, così da poterla guardare negli occhi,
accarezzandole delicatamente i capelli in maniera così dolce, da far sciogliere
il piccolo broncio della bambina. “Ma perché tu sei la più grande” le aveva
detto con una voce minuta, “Ma loro sono maschi, sono loro che dovrebbero
prendersi cura di me” si lagnò ancora la piccola. “Ma così sarà, bambina mia,
quando sarete grandi, loro saranno forti e ti proteggeranno, sempre” le aveva
assicurato sua madre, “Ma … ora devi prenderti tu cura di loro” aveva detto toccandole
il naso con l’indice in un lieve buffetto, il suo sorriso era di miele. La
bambina aveva annuito, silenziosa, non del tutto convinta. Ma era scappata per
ricercare i suoi due piccoli fratellini. Lei aveva nove anni, era una piccola
donna, i suoi fratellini avevano sette ed due, la mamma diceva che doveva
occuparsene lei e così avrebbe fatto. Trovò il mezzano seduto sull’erba,
incurante del macchiarsi gli abiti che li avevano a forza infilato, con i
capelli spettinanti, sulle gambe teneva il minore, mentre lì mostrava quello
che doveva essere una lumaca. “Mamma
dice che devo tenervi d’occhio” aveva
detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata
disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine. Lei li aveva
guardati, aveva mosso il viso e si era sforzata di restare calma, perché erano
piccoli ed era normale che non capissero, non era neanche importante che lo
facessero, tanto c’era lei lì ad assicurarsi che andasse tutto bene.
(1479)
Filippa era finalmente riuscita a
prendere sonno, chiudendosi sotto le coperte del suo lettino. Quello era da
notti la prima volta che riusciva ad addormentarsi nella sua piccola stanzetta,
negli alloggi della servitù. Era tornata la madonna della casa ed era
disdicevole che una serva dormisse nelle stanze del signore, anche perché quasi
sicuramente i due avrebbero condiviso il letto. A volte a guardarli Filippa
aveva l’impressione si amassero davvero molto, o almeno si prendessero cura
l’uno dell’altra, anche se le loro nozze
erano state organizzate ed i due sposi non s’erano mai visti fino
all’annunciazione del fidanzamento, sembrava avessero costruito una solida
affinità. D’altronde avevano condiviso non solo una non minima porzioni di
tempo assieme, ma anche un figlio. Nessuno l’aveva mai detto a Filippa, ma lei
stessa aveva l’impressione il signore si svuotasse in lei quasi per bisogno che
per interesse nella sua persona.
Chiuse gli occhi e finalmente fu
pronta a concedersi al dolce bacio del sonno, quando un forte picchiare sul legno
della porta, la costrinse a schiudere le palpebre. Scivolò fuori dalle coperte,
con solo la vestaglia di lino a coprirla ed aprì la porta. Stagliato sulla
porta c’era un imponente uomo, dalla stazza d’un orso, vestito , con forse il
doppio dei suoi anni, con un grosso naso schiacciato tumefatto a causa di tutti
i colpi che aveva ricevuto ed occhi ombrosi, “Lele” mormorò abbastanza
preoccupata, “Che succede?” domandò poi, non ottenendo dall’uomo neanche un
sussurro, “La madonna vuole parlarti” aveva detto quello, prima di andarsene,
attendendo il suo solito grugno sul viso.
Filippa aveva appena aperto la bocca, abbastanza impreparata. La signora
voleva vederla? A quell’ora di notte? Neanche tre ore che fosse tornata dal suo
viaggio? Possibile che quella donna non avesse neanche il bisogno di riposarsi?
Seguì Lele fino alle porte della
camera della madonna. Si arrestò lì davanti, bussò in maniera delicata, fino a
che non udì il permesso di entrare. Allora aprì la porta e si infilò dentro.
“Chiudi la porta” le disse imperiosa la signora, lei annuì e se la chiuse alle
spalle, posando la schiena su essa, intimorita leggermente. La madonna era
seduta sul letto, non indossava ne l’abito da notte, ne quello comodo con cui
era arrivata qualche ora prima alla tenuta. Ma indossava una lunga maglia
morbida di lana, fermata sulla vita da una cintura di cuoio scuro, pantaloni di
lino scuro e stivali di pelle. Non era
una donna bella, ne una donna brutta, aveva un viso spigoloso ed un naso
vagamente importante, la sua carnagione non era chiara come la perle, ma sempre
brunita, il viso era incorniciato in capelli lunghi e lisci, d’un nero così
scuro come l’inchiostro più corvino, ma ugualmente più chiari degli occhi, così
scuri come schegge di pece bruna, da
sembrare il vivo sguardo d’un satanasso.
“Ho intenzione di partire questa notte” aveva commentato, afferrando
dalla postazione cui era abituata farsi la toletta, una spazzola. “Certo
signora” disse Filippa con un tono ossequioso, “Ma non si dovrà sapere”
aggiunse, prima di sistemarsi davanti lo specchio, finemente istoriato e
ponendo l’oggetto verso la cameriera, che con un passo lento l’aveva raggiunta,
cominciando a pettinare i capelli. “Da domani sarà noto, che dal mio ultimo
viaggio io sia stata colta da una febbre” aveva comunicato, mentre Filippa
faceva passare i denti tra i fili di capelli, “Partirai con me, insieme al buon
Michele” aveva stabilito ferrea. “Intrecciali e raccoglierli in cima, in modo
che stiano sotto un capello” le ordinò, prima di riprendere il discorso sulla
partenza, “Non portare nulla di quello che non sia essenziali, partiremo con
tre cavalli questa notte, nelle cucine stanno già preparando le scorte” aveva
impartito, la cameriera aveva annuito, mentre chiudeva con degli spilli i
capelli sulla sommità della nuca della sua madonna. Avrebbe voluto chiederle
dove erano dirette e perché avesse scelto proprio lei, ma non era prerogativa
dei signori rispondere alle domande della servitù. La madonna fissò il suo
collo, dove svettava un crocifisso grande come un palmo d’un argento brillante,
l’aveva preso ed infilato nell’orlo della maglia, lasciandola nascondere sotto
gli abiti, cosa che inquietò Filippa non poco, non era abitudine della signora
nascondere i suoi oggetti più preziosi e quello, ne era certa, lo era.
“Ultima cosa” le disse, mentre
sistemava il capello per nascondere i capelli, “Vestiti in maniera discreta” le
impartì, prima di congedarla ed avvertirla di essere nel cortile ad un ora da
quel momento. Filippa chinò il capo in maniera distinta e si mosse a
prepararsi. Il suo guardaroba non era fornito, non possedeva abiti vistosi ne
da viaggio. Era una serva, le uniche cavalcate che aveva fatto erano state per
accompagnare i signori le poche volte che le era stato richiesto e spesso le era
evitato il dorso d’un equino. Non aveva pantaloni o stivali, ne farsetti,
l’abito meno femminile e più anonimo che avesse era una bisaccia ed un saio che
una volta aveva preso ad un giovane francescano disgustato dalla sua stessa
veste, che aveva intrapreso quella strada più per volere paterno che per
illuminazione. Il frate s’era preso il vestito del coppiere che prontamente
Filippa s’era guadagnata e lei aveva acquisito un saio, che di fatti non le era
stato mai molto utile, se non nell’occupare
un piccolo spazio nella sua già modesta stanza. Alla fine indossò una
lunga veste di lana nera, che coprì con una mantella nocciolo di mela, che
arrivava fino a terra. Aveva infilato delle bende nella bisaccia e della stoffa
nella biancheria, dopo che contando i giorni s’era resa conto che il suo sangue
era prossimo. Si chinò ed infilò le mani sotto la sua brandina su cui dormiva,
pigiò tra le mattonelle fredde per cercare quella che scricchiolava e quando
una si sollevò appena, Filippa la tirò fuori; scostata quella, infilò la mano
piccola nel fessura del pavimento ed afferrò l’oggetto morbido che era riposto
dentro. Impolverato si trovò tra le dita un panno gialliccio annodato, che
sfasciò con movimenti frettolosi, esso era custode d’un legnetto piatto,
attraversato da due barre orizzontale nella parte superiore, la seconda era più
lunga, c’era una terza più bassa, obliqua, v’era rappresentato un uomo
crocifisso. Era vecchia, il dipinto sempre più pallido ed il legno più marcio. Ma
Filippa non ne era toccata affatto, ne baciò il centro con dedizione, come un
affamato alla vista d’un tozzo di pane, poi l’avvolse ancora nel panno, con
movimenti lenti, delicati, curati e la
sistemò nella bisaccia, tra le bende per il flusso ed i vestiti per qualche
giorno. Non si sarebbe mai sentita sicura senza, mai nella vita, era l’unico
appiglio che le restava di quella vita così lontana. Era un ricordo, un ancora
per la sua anima. Era perduta senza. Ripose la mattonella, per chiudere la
fessura con movimenti molto meno frenetici di quelli usati per estrarla. Si
sollevò dalla posizione inginocchiata ed infilò la bisaccia con la corda di
traverso, nascondendola sotto la mantellina.
Quando si presentò ai giardini,
Lele era l’unico ad essere lì, indossava gli stessi abiti con cui l’aveva visto
un ora prima. Teneva le redini di un grosso stallone maculato ed alcuni
scudieri preparavano due giumente già sellate, una era Dalila, la cavalla della
signora, l’altra, quella più piccola e sottile, doveva essere quella che
spettava a lei. “Non sali, Ippa?” aveva domandato Lele, con quella voce greve,
che metteva sempre in soggezione la cameriera, quella annui, tirò su l’orlo
della gonna fino all’inguine, non vergognandosi di mettere in mostra le calze
blu spesse ed infilando la pianella scura nella staffa ed issarsi di forza,
rischiando di scivolare giù ed aggrappandosi al collo della cavalla. Lele
l’aveva afferrata per la vita ed issata di forza, prima che scivolasse a terra
e si portasse a terra anche la puledra. “Grazie” disse lievemente in imbarazzo.
Lele non accennò un sorriso, ne nulla,
il suo viso rimase un granito grugno e continuò a fare ciò che faceva prima, aspettare la madonna nel
più completo dei silenzi. Mentre Filippa cercava di prendere confidenza con la
puledra, provando ad accarezzarne in collo con movimenti lenti, Lele sembrò accorgersi di nuovo di lei, “Sai
che questo viaggio è diverso dagli altri” le disse con un tono disinteressato,
lei lo guardò mordendosi il labbro appena, “Certo … l’avevo capito dalla
fretta” aveva mormorato dopo diversi, interminabili, minuti. La verità era che
non se n’era minimamente curata, le era stato insegnato che ad una serva non
era richiesto pensare o parlare, solo servire. L’aveva imparato con le legnate,
i calci ed i pugni. Se la tua madonna ti chiedeva di rammendare tutti i
fazzoletti lo facevi, così come alzavi la gonna se il signore l’ordinava. Era
stata per Filippa genuina curiosità chiedersi perché la madonna avesse scelto
proprio lei, ma non aveva dato fiato ai suoi pensieri, su dove andassero, non
era suo interesse, era solo suo dovere andare.
La signora arrivò poco dopo, con
una falcata imperiosa, era esattamente
come la cameriera l’aveva lasciata, l’unica differenza era una lunga cappa, del
colore del manto della notte, ad oscillarle sulle spalle, fino alle caviglie, legato al
collo, ma aperto sul davanti. Alla sua schiena c’era il Signore della casa e
qualche altro scudiero frettoloso. Il padrone aiutò a salire la moglie su
Dalila. Poi le aveva passato la sua sacca, che la donna legò alla sella del
cavallo, il tutto in un silenzio spettrale ed angosciante. “Fa attenzione” cedette alla fine lui, con un
tono apprensivo. Filippa sollevò lo sguardo e l’osservò: era un bell’uomo,
pensò, aveva i capelli di miele, striati di grigio, e gli occhi scuri come le
querce, l’aspetto poteva apparire alquanto anonimo, ma aveva una bella bocca,
carnosa ed una dentatura perfetta.
Filippa avrebbe voluto baciarlo quando la prendeva ma non ne aveva mai
avuto coraggio. “Non posso più aspettare, Antonio, io devo sapere” disse con un tono basso, ombrato d’un’incredibile
dolore e rabbia la donna, stritolando le redine con i pugni, tante che le
nocche erano divenute livide come la neve, “Non posso più vivere, senza sapere”.
L’uomo annui, piccolo in confronto a quella donna, le prese la mano coperta dal guanto e la
spogliò, lambì la nuda pelle del dorso con la bocca, un bacio dolce e carico di
reverenza. “Tornerò Antonio” lo tranquillizzò la donna, il marito sorrise
“Torni sempre” concordò affabile , a quel sorriso in grado di sciogliere
qualsiasi cuore anche la madonna rise, non aggiunse altro, batté i talloni sul
ventre della creatura e partì a galoppo, seguita immediatamente dalla prodezza
di Lele e da una più impreparata Filippa, cui dovettero tirare uno schiaffo sul
deretano della puledra perché questa partisse, la cameriera afferrò le redini
quasi per miracolo.
“Devo restare in questa posizione
per quanto tempo ancora, Maestro?” domandò Yana, mentre cercava di calmare la
creaturina tra le sue braccia, una capretta che non ne voleva sapere di star
ferma, così come la straniera che cercava anche di abituarsi a quei vestiti
mondani e civilizzati che sembravano starle alquanto scomode. E Leonardo spezzò
la punta del gessetto sulla tela, chiedendosi dove fosse stato possibile
trovare un abbinamento donna-capra tanto ostico. Vanessa avrebbe fatto star calma tra le sue
braccia anche una tigre, la prova era che appena stava tra le sue braccia il
suo bambino taceva i suoi vagiti. Ma sfortunatamente, madonna Orsini l’aveva
privato della sua modella più esperta, rettificando che quel bambino era un De
Medici ed anche sua madre era ora membro di quella famiglia ed una donna d’alto
borgo non se ne andava in giro per le taverne con un artista squattrinato, che
Leonardo fosse l’ingegnere di Firenze e condividesse lo stesso sangue di
Lorenzo, per Clarice Orsini era relativo.
“Sta ferma” impartì nervoso. Non
aveva affatto voglia di star a disegnare quella donna, non che avesse qualcosa
contro Yana, ma Andrea – vecchio pazzo – l’aveva minacciato di sfratto se non si fosse
dedicato ad altro che non fosse la Ricerca della Volta Celeste o la guerra
contro Roma, almeno per un pomeriggio; Verrocchio lo faceva per farlo
distrarre, almeno così diceva. Yana
ringhiò qualcosa a denti stretti e non ci serviva Zoroastro per tradurre il
senso di quel che avesse detto. Con il carboncino sfumò appena il profilo
preciso della ragazza, cercando di darle un aria divina, una modella come
Lucrezia sarebbe stata più adatta, ogni sua espressione era da immortalare o
Ima, ancora ora a distanza di tempo, si sentiva ambiguo nel pensare alla
sacerdotessa del nuovo mondo. “Ritorna a guardare obliquo” ordinò a Yana,
quando questa aveva inclinato il capo; sbuffò e tornò alla sistemazione
originale, cercando di non far cadere la capretta che continuava a dimenarsi.
“Oh maestro siete incredibile” disse una voce adorante, Leonardo si voltò, alle sue spalle c’era un ragazzo con meno di
vent’anni, la carnagione olivastra ed un indomita criniera di ricci e sorrideva
quasi adorante, era vestito con un abito semplice, ma di colori sgargianti, “Grazie
Lorenzo” borbottò Leonardo tornando alla sua amica che sembrava aver cominciato
una faida con la pecora, intenzionata a mangiarla arrosto, come stava dicendo
in quel momento.
“Avete un tratto così preciso,
Botticelli è mosso solo da invidia, Maestro” aveva detto languido. Leonardo
vide un sopraciglio di Yana sollevarsi e sul viso tatuato tingersi un
espressione profondamente ilare e irrisoria, “Non cambiare espressione” le
impartì, ignorando apertamente le parole di Lorenzo, completamente perso per lui. La ragazza s’era impegnata per non cambiare
espressione, mentre l’artista cercava di immortalarla, “Ma Nico e Zoroastro?”
domandò alla fine lei, Leonardo non le
rispose, continuando a ritrarla, anche mentre la capretta le stava mangiando i
capelli, nonostante la ragazza fosse stata completamente ignorante di questo.
Lui era solamente frustrato, trovava un enorme perdita di tempo, stare a disegnare,
quando altre mille idea s’affollavano nella sua testa. “Maestro ho trovato la
sua Annunciazione, ho notato che non è completa” aveva mormorato Lorenzo con un
tono di voce bassa. Leonardo lo guardò, “Puoi farlo tu” disse disinteressato,
di qualsiasi quadro stesse parlando, difficilmente lui l’avrebbe finito, quando
perdeva interesse in qualcosa non era sua abitudine portarlo a termine, come
quel dannatissimo carboncino che stava facendo in quel momento, che avrebbe
volentieri voluto accartocciare e far
sparire da qualche parte.
Yana posò la capretta a terra,
“Mi sono stufata, Leonardo, preferisco fissare le stelle” disse infastidita,
sollevando la gonna lunga per camminare più comoda, totalmente infastidita da
quegli abiti che Zoroastro e Leonardo le avevano fatto infilare a forza quando
aveva messo piede sul suolo italiano. “Andrò
a pregare per i miei avi” stabilì lasciando da solo l’artista con il
giovane. “È molto bella” aveva commentato Lorenzo, “Ha inciso con un pugnale la
parola giocattolo sul petto di Alfoso
di Napoli” aveva spiegato Leonardo, in una maniera contorta di spiegargli che
era meglio stare lontano da Yana il più possibile. Il ragazzo annui, sembrava disorientato,
forse non era interessato alle carni della straniera. Leonardo lo guardò un
attimo con mero disinteresse, prima di notare il profilo quasi scultoreo del
ragazzo, afferrò il mento di quello e lo studiò con una rinnovata
attenzione, quello divenne paonazzo
sulle gote, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, Leonardo aveva già
sorriso.
“Leonardo”
La voce arrivò distante, ma
Leonardo spalancò gli occhi lo stesso, non era steso nel suo letto, ma su
qualcosa di freddo e resistente, come la pietra. Si rese conto non vi fosse
luce. Era limitato alla pietra, pareti che li si chiudevano sui fianchi ed un
soffitto che distava quasi una testa, premette le mani, nella speranza di
sollevarlo, l’aria era stantia, irrespirabile. Uno spiraglio di luce appena, ed
il mondo tornò a mostrarsi, il soffitto era stato spostato, Leonardo si sollevò
cauto, rendendosi conto di trovarsi in una cripta e quella dove era sistemato
era una tomba. “Cos …” non riuscì a finire, era stato investito come da mille
luci, li parve di vedere il Turco, il Conte, un viso senza dettagli, se stesso, Lucrezia,
il papa ed alla fine era rimasto un ragazzino. “Dove siamo?” domandò, “Non
dove, quando” lo corresse quello, aveva una risata divertita, era minuto,
sparuto, dai capelli annodati e neri, aveva occhi castani stranamente
amichevoli. “Quando siamo?” chiese, ma il ragazzino rise, “Siamo tutti di tempo
diverso, io, te, il luogo” aveva risposto alla fine, sedendosi in bilico sulla
tomba cercando di non caderci, “Ho sempre trovato meraviglioso che voi figli di
Mitra poteste farlo” aveva spiegato.
Leonardo l’aveva guardato, “Chi
sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della
conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i
fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori
s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli
indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto. Poi era saltato
giù dalla tomba ed era corso fuori dalla porta della cripta, un apertura che
Leonardo non si era accorto fosse presente. L’aveva inseguito svelto. Ma il
ragazzo era scomparso nel giardino, una donna piangeva disperata aggrappata ad
un tronco, il viso era liquefatto dal dolore ed i capelli strappati, rovinati,
trincianti dalla disperazione, così come il vestito a brandelli, le unghia scarnificate
dal troppo graffiare sul legno. Un passo verso di lei e già non esisteva più,
di fronte a lui si erigeva spettrale Girolamo Riario, ma il viso tradiva
confusione.
“Maestro”
Aprì gli occhi di nuovo, e su di
lui s’era aperta la mappa di quella terra lontana, ricavata dalle pagine del
libro dell’ebreo impiccato. Fu per un attimo spaesato, poi riconobbe la
martellante voce di Lorenzo al suo fianco, che lo chiamava ripetutamente. Si
voltò incrociando il ragazzino nudo steso al suo fianco, colmo di sudore e con
un espressione allarmata. “Era un sogno” disse sbrigativo tirandosi sulla
schiena e guardandosi in torno per metabolizzare dove fossero finiti i suoi
vestiti, vista la fretta con cui il ragazzino
li aveva tolti, con l’impeto di saziare i propri ardori. Infilò le braghe, afferrò una maglia, prima di
rendersi conto fosse quella di Lorenzo e non la sua, la lanciò verso il
ragazzo, ma questi non la prese al volo,
ricominciando a cercare i suoi vestiti. L’occhio cadde sulla Pietà che
Lorenzo aveva trovato accatastato tra gli oggetti vecchi del Verrocchio. Quando
Leonardo lasciava un lavoro, difficilmente riprendeva l’interesse, ma il giovane artista aveva insistito così tanto
che alla fine s’era convinto a rivederlo. Lo fissò per una serie di
interminabili lavori, prima di ricordarsi che i Figli di Mitra avevano la
precedenza. “Dove va maestro?” domandò
il ragazzo, sollevandosi, senza vergogna della sua nudità, guardando l’altro
uomo di suo pari, Leonardo sollevò la
mano per zittirlo, afferrò con quella stessa la nuca del ragazzo e lo baciò con
vigore, “Finiremo quel quadro assieme” lo rassicurò, prima di baciarlo ancora e
fuggire via, animato da troppe perplessità da poter essere sfogate
semplicemente in un letto in compagnia di una vigorosa compagnia. Prima di
tutto doveva trovare Zo e Nico, poteva
immaginare dove potesse essere il primo, ad una qualche locanda.
Con la fretta d’uscire dalla
bottega, Leonardo quasi si lanciò in
strada, travolse un indistinta macchia azzurra, che finì per ruzzolare al
suolo, “Figlio di una cagna!” rantolò la
figura, da sotto un cappuccio chiaro, era emersa una chioma di ferrugine, che
nascondeva un viso pallido ed infuocato, “Scusatemi signora” disse affabile
allungando la mano verso la fanciulla che ora riversava sul suolo, la donna,
anzi ragazzina, realizzò Leonardo, non più giovane di Nico o Lorenzo, tese il braccio con l’intenzione di afferrare
la sua mano, ma al contrario, ne schiaffeggiò la superficie, “Farei più
attenzione a chi colpisco bifolco” mormorò infastidita, togliendosi la polvere
dal mantello azzurro, sul collo la stoffa era fermata da una spilla d’argento
istoriato, dalla forma di drago serpente, “Sparisci dalla mia vista” disse
infuocata. Leonardo aveva troppa fretta per discutere con la madonna e lasciò
semplicemente perdere, più interessato a trovare la tomba, il giardino, la
donna urlante, il conte ed avvicinarsi al libro delle lamine ed ovviamente a
sua madre, Caterina. “Questi artisti, non hanno mai la testa sulle spalle” si lagnò, digrignando
i denti la madonna e quella fu l’ultima cosa che Leonardo ascoltò uscire dalla
bocca della ragazza.
Lorenzo collassò sul letto,
sbuffante, dell’improvvisa fuga dell’uomo con cui aveva condiviso la carne, ma
poi fu rallegrato dalla promessa di disegnare insieme, strinse tra le dita la
stoffa intenzionato ad aggrapparsi a qualsiasi cosa per il ricordo e dopo
essere sprofondato tra le lenzuola di Da Vinci, per odorare ciò che erano
stati, si sollevò per osservare meglio la stanza che lo circondava, pieno di
tutti quei disegni e progetti per cui neanche tra mille anni, Lorenzo avrebbe
potuto essere in grado di comprendere. E si sentì così piccolo, eppure così
desideroso di imparare. Lui non era come Botticelli, lui riconosceva la sua
inferiorità, desiderava come lui migliorarsi a tal punto da essere un giorno in
grado di superare quell’uomo, ma non era mosso da una logorante invidia, quanto
da ammirazione, genuina e totale. Sandro era bravo, Lorenzo lo riconosceva,
bravo come davvero pochi potevano essere a quel mondo, molto più bravo di lui,
eppure nutrendosi di rancore avrebbe finito solo per rovinare la sua arte.
Guardò la stanza per crogiolarsi
in quelle grandezze e notò l’abbozzò d’un viso d’una donna, il disegno era un
tratto chiaro, insicuro, preciso, ben diverso dai progetti che aveva visto fino
allora. Il viso non era delineato, non v’era che un abbozzo di naso e capelli
ondulati. Ne rimase grandemente colpito, “Cosa vi sfugge, Maestro?” domandò
retorico, inclinando appena il capo, osservando quelle linee disperate, alla
ricerca d’un immagine che lo stesso autore non doveva avere. Che fosse anche
Leonardo, come loro, alla fine un’anima persa? Che anche lui non vedesse sempre
tutto chiaramente. Sorrise davanti
quella debolezza e se possibile si sentì più innamorato. Lasciò le stanze dopo
tempo, rivestendosi in tutta calma, saggiando l’odore impresso in ogni oggetto
di quell’uomo inafferrabile, fuggito di fretta e furia, con una promessa che
probabilmente non avrebbe mai mantenuto.
Incontrò Benedetto mentre si
dirigeva al laboratorio, “Cercavo proprio te, Lorenzo” disse con un sorriso
amichevole, “Andrea ti chiama nella sala
all’aperto” spiegò immediatamente il conciatore, Lorenzo sorrise e lo ringraziò
prima di correre nella sala in questione. Il primo viso che vide fu quello
dell’amica di Da Vinci con il viso tatuato, che seduta sopra un tavolo da
lavoro osservava una scena. Il Maestro Verrocchio aveva al suo fianco Sandro,
una mano sulla schiena del ragazzo, sorrideva orgoglioso, mentre parlava con
una fanciulla dai capelli di rame. Il maestro lo vide e sorrise anche a lui,
“Oh Lorenzo, eccoti finalmente” esclamò sorridente, prima di invitarlo ad
avvicinarsi, “Signora, lui è Lorenzo di Credi, insieme a Botticelli, uno dei
miei migliori talenti” aveva esclamato l’uomo. La ragazza lo aveva guardato,
lui non aveva mai trovato il gentil sesso attraente, ma quella di fronte lui
doveva essere Venere sorta dalle acque, “Ma non i migliori” aveva detto, la sua
voce era tagliente e spigolosa, “Il migliore madonna è il più incostante,
purtroppo” giustificò Verrocchio,
parlava di Leonardo, si rese conto Lorenzo, “Uno di loro andrà
meravigliosamente” aggiunse, battendo una mano sulle spalle di ambedue i
ragazzi. La donna lì guardò con mera sufficienza, molto infastidita dalle parole dell’artista.
Era venuta per Leonardo Da Vinci, tutto del suo sguardo lo tradiva, ed invece
aveva trovato loro, che non erano nulla in confronto quell’uomo.
Girolamo Riario aveva avuto un
sonno inquieto. Nei suoi sogni c’era Da Vinci. Zita aveva preparato un infuso
per farlo calmare, ma nulla era valso per tacere i suoi tormenti. Aveva pensato
di scrivere una lunga lettera a Nico, per sapere cosa l’artista stesse facendo,
per tranquillizzare i suoi tumulti ed anche perché era sempre meglio sapere su
che cosa tenesse le mani quel folle d’un artista. Certo non pensava che il
ragazzo avrebbe tradito il maestro che seguiva con tanto ardore, ma sperava che
inavvertitamente, per la vita che gli
doveva, potesse lasciarsi sfuggire qualche indizio, anche minimo. Girolamo si concentrò nel sogno trascorso: stava
inseguendo qualcosa nel suo sogno, o era inseguito da qualcosa? Non lo
ricordava! Era in un giardino, aveva sentito una donna urlare, un lamento quasi
famigliare, cercandola, aveva trovato Da Vinci, con lo sguardo spaesato e
perso. Aveva avuto la sgradevole sensazione che l’uomo fosse veramente lì, che
non fosse un mondo fittizio. “Va meglio
conte?” domandò gentile la donna, massaggiandoli le spalle, l’uomo annui
lentamente, “E’ buono” commentò,
guardando la tazza fumante del denso liquido, “È una formula Abissina?” domandò stranamente incuriosito,
la donna mosse il capo in senso di negazione, “Signore” disse con un tono
basso, “La contessa lo ha creato” aveva mormorato, con un tono leggermente a
disagio.
Girolamo sorrise appena, Caterina
il suo tedio quotidiano, detestava trascorrere tempo con lei quanto la stessa
detestasse stare con lui, provavano una profonda infelicità nella reciproca
compagnia, composta da molti attimi di silenzio angosciante, tagliente come
mille spade. Eppure, talvolta, Caterina lo cercava in maniera quasi
ossessiva. La notte che era tornato a
Roma, dopo essere stato nella terra aldilà del mare, lei lo aveva aspettato
nella sua stanza, con i capelli sciolti ed il vestito da notte, s’era slacciata
la vestaglia ed era rimasta nuda davanti a lui, nel suo corpo spigoloso ed
acerbo, Girolamo era stato con lei quasi per dovere, il meno possibile, ma
quella sera, a Caterina non erano importate della stanchezza, delle ferite, del
suo animo logorato, aveva voluto unirsi a lui oltre ogni cosa. Ed era sto così
per due lunghe settimane, poi come un belva selvatica s’era rinchiusa in se
stessa, passando il più delle giornate ad ignorarlo e dedicarsi ai dolci fasti
della capitale. “Mi chiedo come stia facendo ora ad Imola” commentò assente,
non realmente interessato, non aveva detto nulla quando sua moglie aveva
espresso il suo desiderio di allontanarsi un poco dal ritmo frenetico della
città. Lo aveva baciato davanti la carrozza, prima di salire e con la mantella
stretta si era voltata. Era stata un azione meccanica, fredda, eppure in
qualche modo Riario ci aveva trovato qualcosa, era come se Caterina cercasse
qualcosa da lui, che il conte, così come la contessa stessa, non riuscivano a
capire. “Non dovete essere in pena, la
contessa è molto forte” disse Zita, scambiando forse l’assenza di Riario per
preoccupazione, il conte le aveva sorriso, “Caterina è una tigre, non sono per
nulla angustiato per lei” disse sterile. Aveva altri problemi, altri dubbi e
tormenti. Come il suo sogno, era una cosa che non faceva mai, i suoi sogni
erano d’un buio come l’inchiostro, solo da bambino gli era capitato di sognare
qualcosa, immagini contorte e malate.
“Zita, devo farti una richiesta”
disse con voce fredda, serrando gli occhi. Se
ne sarebbe pentito.
Allora, precisazioni dovute :
L’ordine cronologico delle scene, la
prima è la prima, poiché è un ricordo, dunque, ufficialmente la prima scena è
di fatti quella di Leonardo che
dipinge Yana, la seconda è il sogno di Leonardo che si svolge in piena notte,
assieme all’improvvisa partenza di Filippa
e la sua combriccola, la seconda scena di Leonardo
(Quando scappa dopo la promessa) è la terza, il primo frammento di quella
di Lorenzo, la terza di Leonardo(l’incontro con la fanciulla) e
quella di Girolamo sono contemporanee
è sono la quarta scena. Il secondo frammento di Lorenzo chiude ufficialmente questa porzione. Tutti i capitoli
saranno presentati con una scala temporale scomoda.
Lorenzo
Di Credi è uno dei miei artisti preferiti ed il
quadro a cui fanno riferimento spesso lui e Leonardo è un quadro che ancora
oggi ha dubbia paternità tra i due. È abbastanza noto che i due artisti si
siano influenzati tra loro nel dipingere; Se Leonardo ammette di non avere
confini, il mio Lorenzo invece li ha ed è perdutamente invaghito del maestro. Quando
commenta la bellezza di Yana era per scoprire se fosse o meno l’amante di
Leonardo, mentre quando rimane incantato dalla madonna, è una cosa puramente
platonica.
Girolamo
che scrive a Nico è qualcosa di
apparentemente OOC, ma tra il Nico della prima stagione e Machiavelli c’è di
mezzo un abisso, che si sta sempre di più accorciando, abbiamo visto qualcosa
nel finale della prima stagione ed insomma Girolamo ha detto che Nico li
ricorda lui e che lo vorrebbe formare lontano dalla Grazia e come abbiamo visto
nell’ultimo episodio Nico ha tentato di evitare che Zo picchiasse Girolamo;
quindi avevo pensato che il loro rapporto non è destinato ad interrompersi fino
alla morte del conte, in modo che il Giovane Nico possa diventare Machiavelli. Oltre
a ciò essendo questa storia ambientata più o meno nel 79, pochi mesi dopo il
loro ritorno in patria, immagino anche Riario non intenzionato a sbarazzarsi di
Leonardo, ma comunque timoroso del suo operato. E si i sogni di Girolamo e di Da Vinci si sono toccati (?).
Caterina
Sforza, non lo so, ho voluto dare una spiegazione a
perché non fosse apparsa nella serie. O vero un’intolleranza tra lei e suo
marito, che rende il loro matrimonio
ostico. Forse cambierà, forse no … Ciò nonostante oltre essere un’abile
cacciatrice, una brava stratega,
Caterina era anche un erborista molto abile.
Filippa
si ritiene una donna senza volontà! Sarà vero? Comunque sia si sforza di mantenere
delle radici, conservando la sua croce “particolare”.
Be Grazie mille a chiunque è arrivato fin qua
giù :D
RLandH