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Autore: Melanto    23/04/2014    7 recensioni
Le scelte che compiamo e le loro conseguenze tracciano la storia, disegnano la realtà così come la conosciamo. Costruiscono il mondo che ci circonda.
Ma cosa sarebbe successo se una scelta fosse stata diversa? Come sarebbero cambiate le conseguenze? Che mondo avrebbero costruito?
Mamoru e Yuzo non avrebbero mai pensato che potessero segnarne addirittura la fine.
Genere: Introspettivo, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Altri, Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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The Bug - VII (parte IV)

Nota Iniziale: Come promesso, ecco che arriva in anticipo l'ultimo capitolo! Ci rileggiamo nelle note finali! :*

 

The Bug
- VII: fixing the bug -
(parte IV)

 

«No!» Mamoru lo gridò, ma la trasmittente lo tenne per sé e non condivise nemmeno una parola con la compagna che aveva il portiere. «No, no, no! A volte parlo troppo! Dico cose che possono andar bene solo in teoria, non devi starmi a sentire!»
Ma Yuzo doveva essersi già mosso e la sua era solo una preghiera troppo lontana.
«Non fare pazzie, stupido portiere…»
Una voce fuori campo, una supplica che Mamoru sapeva non sarebbe stata ascoltata.
Dall’altra parte, mentre lui parlava al vento, Yuzo si muoveva, adagio come prima. Un passo alla volta scese ai piani inferiori, ma al primo l’ingresso principale era sbarrato così fu costretto a deviare, passando per una delle finestre distrutte. I vetri erano già infranti, sparpagliati ovunque come una pioggia di diamanti senza valore.
Yuzo si issò dal bordo per guardare fuori e capire quanto fosse alto. Una scheggia rimasta ostinatamente attaccata al proprio posto gli lacerò la pelle nel centro del palmo e il portiere ritrasse la mano con un’imprecazione.
Il sangue scivolava dal foro, Yuzo lo fissò e poi guardò il frammento di vetro. Si ergeva sempre lì, orgoglioso e sporco di rosso. Sembrava il soldato morente che era troppo attaccato alla vita per esalare in pace l’ultimo respiro e preferiva restare a soffrire piuttosto che lasciarsi andare.
Dabbasso, il salto non si presentò troppo alto e, per sua fortuna, c’era una camionetta parcheggiata. Sarebbe potuto atterrare sul tettuccio e poi scivolare a terra, sempre facendo piano e poco rumore altrimenti le crepe l’avrebbero sentito e trovato. Da lì in poi, lo separavano dal punto di passaggio solo due-trecento metri, e le opzioni erano due: o camminare pianissimo, per produrre meno vibrazioni possibili, o correre e far scattare l’allarme. La terza opzione, quella che lui sperava, fu che non sarebbero arrivate in nessun caso, che magari erano state richiamate o ci avessero rinunciate; che fossero morte, se di ‘morte’ si poteva parlare nel loro caso.
Yuzo tolse svelto lo zaino dalle spalle, prese l’acqua e ne bevve un lungo sorso per dare sollievo alla gola secca e al petto. Poi, lasciò tutto lì, aveva bisogno di essere il più leggero possibile per muoversi piano e in silenzio o velocemente, a seconda della situazione.
Quando si sentì pronto, scavalcò il parapetto e iniziò a calarsi, aiutandosi con i blocchi dell’edificio che sporgevano innaturalmente a causa del crollo. Gli fornirono quasi una scala arrangiata su cui scese, un passo alla volta, fino al salto finale sul tettuccio della camionetta; lo affrontò dopo aver preso un ultimo respiro e la mira giusta. Quest’ultima si rivelò esatta e precisa, ma il rumore cupo del metallo gli sembrò così assordante da lasciarlo immobile nella posizione d’atterraggio e con i denti stretti. Nel petto, il cuore batteva velocissimo, anche troppo, e sperò che il suo rumore non venisse udito perché forse era ancora più forte di quello prodotto dal salto.
Rimase così, con le ginocchia piegate e le mani sollevate a mezz’aria, che bilanciavano l’equilibrio di tutto il corpo, in silenzio religioso e solo gli occhi che ruotavano, ma la testa ferma: le ossa avrebbero potuto fare rumore e anche i muscoli.
Non successe nulla nei successivi venti secondi che a Yuzo parvero una perfetta combinazione tra venti minuti e venti ore. La terra e tutt’intorno rimasero silenziosi, nessuno sbuffo di polvere né suono crepitante. Gli oggetti sostarono immobili così come erano stati abbandonati e il portiere pensò di potersi tirare su, piano piano. Anche perché le gambe iniziavano a fargli male per la tensione.
Si mise in piedi e guardò ciò che aveva attorno; d’improvviso, il silenzio parve essere una condizione rassicurante per lui, quando prima gli aveva creato disagio e angoscia. Ora, se c’era silenzio, significava anche che non c’erano pericoli e che poteva muoversi.
Scivolò dal tettuccio al cofano, sfruttando il parabrezza della camionetta, fino ad arrivare a terra, mettendo giù un piede alla volta.
Piano, pianissimo.
Nessun rumore, per quanto possibile, nessuna vibrazione.
E d’intorno ancora silenzio.
Yuzo si convinse di poter camminare e i suoi passi erano lenti come quelli di un bradipo e silenziosi come quelli di un gatto; l’edificio che gli avrebbe fatto da ponte appariva lontanissimo e irraggiungibile se non in ore, ore che lui non aveva e non avrebbe mai avuto, perché il Muro era arrivato, il Muro sarebbe stato presto più stretto come un cappio attorno al collo fino a stritolare il loro spazio, il loro fazzoletto di realtà.
Fu mentre si trovava a metà strada che un pezzo della struttura, che fino a quel momento gli aveva fatto da riparo, decise di tradirlo. Da solo, senza che nessun altro lo toccasse, un blocco di intonaco e cemento su cui si era appoggiato durante la discesa, venne giù. Con uno schianto precipitò sulla camionetta e l’antifurto della stessa, che non era scattato fino a quel momento, azionò la sirena.
Un fracasso così assordante, Yuzo non lo aveva mai sentito. Si girò di scatto, l’espressione inorridita che gli deformava i tratti e gli diceva chiaro e tondo che adesso era nella merda. Guardò le luci delle quattro frecce accendersi e spegnersi scandendo il ritmo del suono e poi gli sbuffi, come pennacchi di vapore, si innalzarono da almeno sette direzioni diverse, attorno e dietro di lui.
Era stato individuato, la copertura saltata e il piano aveva bisogno di una improvvisa accelerata.
Yuzo iniziò a correre e seppe, pur senza voltarsi, che anche le crepe si erano mosse e lo stavano inseguendo. Lo capì quando, infilatosi nell’edificio, sentì la sirena della camionetta avere un’impennata improvvisa e poi spegnersi, come se si fossero scaricate le batterie. Semplicemente, le crepe l’avevano inghiottita e lui lo sapeva, ma non aveva tempo di fermarsi e guardarsi indietro, o anche solo provarci. Lui doveva correre e non ci sarebbero state gambe zoppicanti o fianchi doloranti, in quel momento, perché era l’unico che aveva, l’unica possibilità: se avesse fallito, sarebbe morto.
Anche se la decisione di attraversare tre edifici sospesi sul vuoto era stata presa su due piedi, aveva avuto abbastanza tempo per potersela studiare in qualche modo. Per questo, quando Yuzo entrò nell’edificio, la prima cosa che fece fu di salire al piano superiore. Le scale erano inclinate e gli facilitarono il lavoro in maniera involontaria. La prima finestra che dava sul retro fu sua. Il vetro era ancora intatto ma si distrusse quando l’aprì e le ante gli sfuggirono di mano, attirate verso l’esterno dalla gravità. Sbatterono nei cardini e le vibrazioni mandarono tutto in pezzi in un suono crepitante di cristalli.
L’altro edificio era sotto di lui, molto più inclinato di quello in cui stava adesso, doveva solo saltare giù e correre sulla facciata fino alla terza costruzione, quella che si incastrava con la seconda in un equilibrio forzato. Sembrava che qualcuno avesse voluto mettere per forza il tassello del puzzle nella posizione sbagliata.
Poi, le crepe arrivarono.
L’impatto fu così violento che la struttura tremò tutta e la vibrazione si trasmise anche alle altre.
Yuzo si tenne al parapetto, si abbassò, cercando di non cadere, ma quando si accorse che l’inclinazione dell’edificio stava aumentando, capì che si sarebbe giocato tutto sull’attimo. L’attimo per uscire, l’attimo per correre e l’attimo per saltare.
Pochi, pochissimi e tutti sequenziali.
Yuzo saltò giù dalla finestra e la solidità del secondo edificio fu sotto di lui, cinque metri più in basso. Il dolore alla gamba, nel momento in cui arrivò a terra e si rotolò sul fianco, si trasmise al livido e gli ricordò che non doveva appoggiarsi da quella parte, strappandogli un lamento più lungo e sofferente.
Guardò in alto e l’edificio, che già gli faceva ombra, diventava più vicino. Le crepe gli stavano fottendo le fondamenta e questo si ripercuoteva con una perdita di equilibrio. E la perdita di equilibrio dell’uno variava quello dell’altro, su cui si trovava adesso, che iniziava a inclinarsi pericolosamente; la strada per la vetta diveniva sempre più in salita. Quando il primo edificio sarebbe crollato del tutto, il secondo avrebbe perso l’incastro con il terzo e tutti e tre sarebbero precipitati, e lui con loro.
Quello era l’attimo che aveva per correre.
Yuzo scattò veloce, mentre la macchina di distruzione continuava il suo lento percorso alla fine del quale non ci sarebbero più stati punti di incontro tra le due sponde della voragine.
Forse, in quel preciso istante, in cui stava quasi per sputare i polmoni, a Yuzo avrebbe fatto bene sentire la voce di Mamoru che continuava a chiamarlo e a correre, anche lui, verso il loro punto di incontro.
Il centrocampista era scattato non appena aveva sentito il rumore dell’antifurto e visto gli sbuffi di polvere alzarsi tra le case, troppo lontane da lui. Gli avevano indicato dove fosse Yuzo e quanto ancora gli mancasse per poter raggiungere la salita che portava al parco.
E aveva corso, e aveva gridato il suo nome. Ma il rumore degli edifici che rombavano come tuoni nel lento morire aveva coperto tutto.
Se Yuzo avesse potuto sentirlo, di sicuro avrebbe corso ancora più veloce e si sarebbe sentito più forte nel sapere che ormai era solo questione di metri e passi, pochi gli uni e pochi gli altri.
Ma Yuzo non sentiva nient’altro che la morte ruggente alle sue spalle e il fiatone che gli stava facendo esplodere il petto. In condizioni normali, forse, sarebbe caduto a terra stremato, ma l’adrenalina venne in suo soccorso a dargli quella forza di cui aveva bisogno.
Raggiunse il punto di contatto con il terzo edificio quando entrambi arrivarono al momento di massima tensione e un istante prima che perdessero l’incastro che li teneva uniti. Ancora, un attimo. E questo era l’attimo per saltare su cui non rifletté.
La facciata del terzo edificio era in pendenza negativa. Sembrava un enorme scivolo su cui atterrò di schiena, e per il resto non gli rimase che affidarsi alla gravità. Quattro piani come se stesse su uno slittino invisibile, mentre alle sue spalle il mondo rombava come se ci fosse una valanga a inseguirlo e, quando arrivò alla base, Yuzo piantò i piedi al suolo e si trovò di nuovo a rotolare di lato, dentro la terra e l’asfalto, tra schegge e frammenti di vetro e tutto quello che era rimasto. Poi, il mondo smise di girare, ma non di fremere, e lui si ritrovò boccheggiante, faccia a terra, a respirare sulla polvere con la bocca e con il naso. Tossì, un paio di volte, per l’aria che non riusciva a entrare a sufficienza e per la polvere che veniva inalata involontariamente. Strusciò le dita sul ruvido dell’asfalto quando cercò di fare forza per alzarsi e si sentiva, di nuovo, a pezzi, proprio come la sera prima nella casa di campagna. Eppure tutte le parti del suo corpo rispondevano, seppur in differita, ai comandi impartiti dal cervello. Si trascinò, si sollevò sulle braccia e le ginocchia si piegarono verso il bacino per dargli un appoggio più solido su cui tentare di sedersi. Quando alzò il viso, la polvere era una nuvola che si sollevava dalla voragine e gli scivolava attorno in lingue sottilissime quanto leggere. I tre edifici erano crollati portandosi dietro tutti i loro rumori, la metropolitana rimasta in equilibrio e le crepe, che nel vuoto si erano estinte, ma non fu mai in grado di udire lo schianto finale, quando arrivavano al fondo. Forse perché un fondo non esisteva affatto e, come aveva detto Mamoru, non c’era più nulla sotto di loro. Galleggiavano come polistirolo sull’acqua, alla deriva in un mare che non era nemmeno visibile.
Yuzo si sedette sui talloni e appoggiò le mani sulle gambe, continuando a respirare. L’adrenalina se ne andava, il cuore trovava un ritmo regolare e l’aria era di nuovo tutta lì, nelle giuste quantità.
E lui ce l’aveva fatta.
Ce l’aveva fatta sul serio e ancora non riusciva a crederci.
Il coraggio era una qualità che si doveva dimostrare. Proprio come la follia.
«Yuzo!»
Ora che non c’erano più edifici che crollavano né il proprio fiato a tappargli le orecchie sentì distintamente quel richiamo e si volse di scatto a sinistra.
Mamoru arrivò di corsa, con la sua stessa fretta e urgenza. Anche lui sembrava dovesse sputare il polmoni da un momento all’altro, ma l’adrenalina copriva tutto, anche il dolore.
Quando lo vide, Yuzo ripensò alle ipotesi terribili che la sua testa aveva formulato nella frazione di secondo successiva alle ripetute mancate risposte, dopo che aveva provato a contattarlo. Ripensò alla peggiore di tutte e sentì le lacrime che aveva ricacciato in gola tornare di colpo, più forti di prima per rendere acquosa l’immagine del centrocampista che ora si era fermata a una decina di metri con la sua stessa incredulità negli occhi.
«Mamoru…» Gli uscì quasi senza fiato, mentre cercava di mettersi in piedi e le gambe non lo rendevano particolarmente stabile; la tensione era ancora lì, che cercava di dissiparsi, ma aveva bisogno di tempo.
Lui si alzò comunque, traballò quasi fosse ubriaco, ma si tenne, in qualche modo, in equilibrio.
«Mamoru…» ce l’ho fatta, visto? Mi sono buttato nella mischia, come dicevi tu! E ci sono riuscito! Ho dimostrato di essere più un cavaliere che una principessa?
Ma tutto quello non lo esternò a voce, rimase solo nella testa, sotto la lingua e nel fiato che usciva fuori ancora affannoso. Parlò il corpo al suo posto, e il fatto che fosse in piedi, davanti a lui, dalla sua stessa parte di mondo di nuovo.
Mamoru fu come se lo capisse ugualmente, in un modo tutto particolare e misterioso, fatto solo di intuizioni e gesti così piccoli ma ricchi di significato. Lo capì e si sentì pervaso da un senso di orgoglio che non sapeva da dove diavolo fosse nato, di preciso, ma che era lì e gli stava allagando il petto, e poi sollievo. Di quello ce n’era fino a scoppiare, fino a piangere, ma lui non era tipo da mostrare commozione tanto facilmente, così ingoiò tutto e prese a camminare nel momento in cui Yuzo fece altrettanto. I suoi passi erano più sicuri, quelli del portiere non seguivano una linea retta, ma acquistarono sempre più sicurezza e velocità a mano a mano che la distanza tra loro diminuiva e ora sì, lo poteva vedere chiaramente che stava piangendo, quando attraverso la trasmittente aveva solo potuto immaginarlo.
Lo accolse tra le braccia quasi fosse un miracolo o un pezzo della sua stessa vita che aveva ritrovato dopo tantissimo tempo. Lo strinse, gli afferrò la felpa e continuò a ripetergli quel ‘Va tutto bene’ come fosse un mantra.
Yuzo gli teneva il viso nascosto nella spalla e tra i capelli; un braccio attorno alla vita e l’altro attorno al collo. Anch’egli lo stringeva quasi non si vedessero da tempi immemori, e continuava a chiamarlo, dire solo il suo nome, nonostante avesse voluto riversare su di lui migliaia di parole.
«Mamoru…»
Stai bene?! Maledizione, credevo che le crepe ti avessero preso! Che diavolo è successo?!
«…Mamoru…»
Me la sono vista proprio nera! Cioè! Credevi che ci sarei riuscito?! Buon per te, io nemmeno tra un paio di secoli!
«…Mamoru.»
Piccole e bastarde, peggio della Crepa-madre!
Yuzo sembrava quasi non conoscesse altre parole e sapeva che udire il suono del suo nome unito alla certezza che adesso ce lo aveva addosso, lo stringeva, potesse calmarlo più in fretta. Erano magie, quelle, che nessuno dei due aveva mai avuto modo di conoscere con i tempi giusti e un po’ alla volta. Adesso se le erano trovate tutte insieme tra le mani e ciò che potevano fare era solo lasciarsene travolgere, perché erano troppo giovani per dare loro un aspetto più razionale con cui relazionarsi. Le vivevano così, con tutta la loro magia.
Mamoru si allontanò appena dal portiere in modo da poterlo guardare in viso.
«Come ti è saltato in mente, eh? Ma dico io, quanto sei pazzo?» Scorse il taglio sulla guancia e cercò di pulirlo con la manica della felpa, ma come lo toglieva il rivoletto di sangue tornava a sporcargli la pelle. Per il resto, gli sembrò che fosse tutto intero e non avesse ferite evidenti. Tolse via le lacrime con il palmo della mano.
Yuzo lo lasciò fare. Le parole tornavano alla lingua, ma le sue mani restarono aggrappate alla maglia di Mamoru che si appoggiava sui fianchi. «Non rispondevi, e ho creduto che…»
«La trasmittente si è rotta. Ha fatto un volo mentre scappavo. Io riuscivo a sentirti, ma non potevo comunicare con te.»
Yuzo era sollevato, mentre abbassava la testa e pensava che tutto lì, era solo tutto lì, la radio si era semplicemente rotta. Sentì le sue mani poggiarsi lungo le linee delle mascelle affinché alzasse il viso, lo guardasse di nuovo.
«Perché hai corso un rischio simile?»
«Perché non abbiamo più tempo, Mamoru!» Lo fissò con fermezza, gli occhi rossi ma di nuovo asciutti. «Non ti sei guardato intorno? Le nuvole si sono alzate…»
Mamoru dovette ammettere a sé stesso che non aveva avuto tempo di farlo, di concentrarsi sulla completezza della loro realtà, troppo preso a scappare prima e a preoccuparsi di lui dopo, ma ora che il portiere glielo aveva fatto notare, non poté tergiversare. Si volse, lo sguardo correva lungo la linea più lontana cui potesse arrivare e la presenza del Muro era così ingombrante da essere impossibile che non l’avesse notata fino a quel momento. Era entrato in città, da ogni lato, e si stringeva attorno a loro. Niente più vie d’uscita da quel labirinto.
«Dovevo trovarti il prima possibile… questo era l’unico modo…» Yuzo scosse il capo. «Ma adesso che quell’affare è qui… noi cosa facciamo? Cosa possiamo fare, Mamoru?»
Arrendersi?
Mai e poi mai! Mamoru avrebbe venduto cara la pelle prima che quell’assurda eventualità si realizzasse, ma non c’erano vie di fuga e allora cosa?
Resistenza.
Fino alla fine.
Gli sbuffi di polvere si alzarono di colpo per annunciar loro che non erano più da soli e che gli ultimi momenti prima della fine non sarebbero stati tranquilli ma se li sarebbero dovuti sudare.
«Ce la fai a correre?» domandò, con una certa urgenza, dopo aver deciso da che parte si sarebbero mossi.
Yuzo non negò né affermò. «Insomma.» Il fianco lo stilettava di continuo, anche solo stando in piedi, e sulla gamba non ci si poteva appoggiare in maniera stabile.
Mamoru si passò un suo braccio attorno al collo e gli tenne piano la mano sul fianco ferito.
«Ti aiuto io, ma devi stringere i denti. Ci resta solo un po’ di salita da percorrere.»
Fuga estrema, l’ultima, per raggiungere il punto oltre il quale non sarebbero più potuti andare.
Il sentiero che si addentrava nell’Hikarigaoka era tutto ciò a essergli rimasto, l’unica strada da percorrere ancora fianco a fianco prima che il mondo fosse finito.
Camminavano svelti per quanto potevano, ormai tutti e due prossimi al limite oltre il quale sarebbero crollati, senza più potersi alzare. Ma mentre si guardava indietro, per vedere dove fossero le crepe, Mamoru si accorse che non correvano veloci come sapeva fossero in grado di fare.
«Ci vogliono sfiancati, lo fanno apposta. Bastarde!» ringhiò, tenendo saldamente il compagno, gli dava il ritmo col proprio passo e Yuzo faceva il possibile, stringeva i denti proprio come gli aveva chiesto, per non rallentarlo e stargli dietro.
«Ci siamo quasi.» Lo rassicurò, mentre raggiungevano il promontorio e quindi la fine del sentiero.
Il belvedere davanti al tempietto dal quale era possibile dominare l’intera Nankatsu. Il belvedere su cui tutto era cominciato, quel pomeriggio di alcuni giorni prima. Sembravano trascorsi anni e invece non era così. A distruggere un intero universo ci voleva davvero poco, dopotutto.
Si fermarono che dietro di loro c’era solo la ringhiera che affacciava sulla città e il Muro Bianco era lì, enorme, altissimo. Mangiava le case e la terra, mangiava il cielo un pezzo alla volta e sarebbe arrivato a mangiare anche loro, da ogni direzione.
Arrivarono anche le crepe, che si ridussero, facendosi piccolissime, ma senza superare un certo limite. Non gli andarono addosso come avevano sempre fatto, ma si comportavano come gli squali che circondavano la preda e le giravano intorno, in attesa.
Mamoru si frappose subito fra loro e il portiere.
«Dovranno pur farsi vedere i bastardi che stanno facendo tutto questo! Devono! Voglio vedere che faccia hanno! Se sono Dei, Demoni o fottuti alieni! Voglio vedere chi devo maledire dall’Aldilà!»
Yuzo si tenne il fianco e scosse il capo, respirando con dolore e fatica.
«Non c’è nessuno, Mamoru.»
«Non essere ridicolo! Deve esserci un colpevole!»
«E c’è» confermò il portiere, mentre Mamoru si girava a guardarlo con espressione furente. «Ci sono.»
«Chi?!»
«Noi.» Lo esalò, cadendo in ginocchio. Esausto.
«Come sarebbe?! Che significa?»
«Quando eravamo fuori città, tu mi hai chiesto perché le cose erano precipitate, tra noi, perché non siamo mai riusciti ad andare d’accordo come nelle altre realtà. Mi chiedesti se fosse questo l’errore. Ricordi?»
Mamoru tornò indietro, alla sera prima, e l’urgenza che l’aveva tenuto impegnato sembrò dissiparsi, permettendogli di afferrare di nuovo la conclusione che aveva raggiunto.
«Lo ricordo…»
«Bene. Sappi che la risposta è sì. Sì, è quello l’errore, il fatto che in questa realtà non siamo riusciti a trovare un punto d’incontro ha mandato il sistema all’aria. Ti dissi anche questo, che c’era come un bug… e quel bug siamo noi. Siamo noi l’errore che sta distruggendo il mondo.»
«No…» Mamoru scosse il capo, inginocchiato davanti a lui. Non riusciva a crederci. «Tutto il mondo, l’universo stesso, non può dipendere solo da noi due! Da una nostra misera scelta! Non ha… non ha senso!»
«Ne ha, se quella scelta crea un’anomalia. Può essere piccolissima, ma si ripercuote a catena sulle vita di tutti coloro che ci circondano e di quelle che circondano coloro che circondano noi. E così via.» Yuzo mimò con due dita la grandezza di un chicco di riso, così irrisoria rispetto alla vastità di un’intera esistenza. «Un piccolo errore, che ha spezzato l’equilibrio universale.»
«E… quello che sta succedendo… cosa…»
Yuzo si strinse nelle spalle. «Credo… credo che il sistema stia cercando di cancellare l’errore, cancellare noi e ricominciare da capo. È come quando si formatta un computer.»
Distolse lo sguardo, tornando indietro con la mente, fino alle origini dei cambiamenti più evidenti e poi ancora più indietro. Di anni interi.
«Avremmo dovuto capirlo prima, ci erano stati dati tanti segnali… quasi delle avvisaglie, prima che le cose precipitassero. Ricordi… ricordi i tuoni? Spezzavano il cielo ogni volta che ci davamo contro; l’ho notato solo dopo. E anche la pioggia.» Sollevò lo sguardo al cielo che non esisteva più, sostituito dal Muro che aveva formato una cupola sopra le loro teste. «Sono giorni che non piove. Da quando abbiamo smesso di litigare e abbiamo iniziato a conoscerci e capirci.» Si rivide per un attimo più bambino e sospirò, parlando in particolar modo di sé. «Avrei dovuto comprenderlo da quella strana sensazione di incompletezza. Tu l’hai mai provata, in questi anni? Io non avevo capito cosa fosse, sapevo solo che c’era qualcosa che mi mancava, anche se non sapevo cosa. Eppure avevo degli amici fantastici, andavo bene a scuola e genitori che mi volevano bene. Nonostante tutto, c’era questo piccolo senso di vuoto, proprio qui, che non aveva nome.» Si puntellò il petto, all’altezza del cuore. Il suo vuoto personale ne aveva scelto un angolino in cui farci la casa. «E sai da quando è scomparso? Da quando mi hai salvato dalla crepa la prima volta. È stato lì che abbiamo iniziato a parlare senza aggredirci. È stato lì che ho sentito che ti eri preoccupato per me: perché mi cercavi quando credevi fossi scomparso.»
Mamoru arrossì per un attimo, ricordando quel particolare e la sensazione di smarrimento totale che aveva provato, quando non aveva più trovato Yuzo nell’appartamento al suo risveglio.
«Quel piccolo spazio si era finalmente riempito e anche se tutti gli altri erano scomparsi, io mi sentivo completo. Perché ciò che mi mancava… eri proprio tu.»
«Come il perché… ti dovessi sempre dare addosso, perché ti odiassi per non aver tentato di entrare alla Nankatsu… perché desiderassi tanto che tu giocassi con me…» Nella mente del centrocampista si aprì come un mondo in cui fu finalmente in grado di comprendere sé stesso, anche quegli atteggiamenti che non era mai riuscito a spiegarsi. Levò lo sguardo su Yuzo e riempì i suoi occhi con l’oscurità delle proprie iridi. «Ma io non voglio… non voglio ricominciare da capo. Voglio essere libero di poter scegliere, di rimediare agli sbagli, di… di sistemare quello che non eravamo riusciti a risolvere prima. Adesso le cose sono cambiate, perché sta sparendo tutto?!»
«Perché non è sufficiente, forse, o perché è troppo tardi. Cancellare ogni traccia è la soluzione più rapida…»
«E allora risolviamolo noi il problema. Se è nato da noi, ci spetta il compito di sistemarlo.»
«E come? Come possiamo combattere l’ordine dell’universo?»
Mamoru lo osservò passarsi una mano sul viso e guardare lontano, verso il biancore della fine che era sempre più vicino. Lo rivide in tutte le diverse realtà che aveva scorto di nascosto, si sovrapposero cambiandogli gli abiti e il taglio di capelli, l’età dei tratti, ma lo rivide sempre uguale, sempre lui negli occhi e nelle espressioni. Lo riconobbe nelle ferite visibili e invisibili, nel coraggio delle sue scelte e azioni sconsiderate, lo riconobbe nell’affidabilità e nella bontà dello spirito e capì perché così tante volte aveva finito con l’innamorarsi di lui, come in quell’ennesima realtà in cui avrebbe potuto arrendersi e mollare molto prima, ma aveva continuato a lottare al suo fianco nonostante fosse consapevole che non ci sarebbe stata salvezza ad attenderli. Aveva lottato per fare in modo che rimanessero accanto.
Nonostante il finale amaro, Mamoru si rese conto che anche quella vita era valsa la pena d’esser vissuta.
«Fissiamolo.» Calmo, ma convinto. «Fissiamo il bug.»
«In che modo?»
Un altro silenzio e gli occhi di Yuzo di nuovo nei suoi, che si fidavano di lui, che credevano avesse potuto trovare una soluzione anche all’ultimo istante.
C’erano baci che si sentivano nell’aria come un profumo noto ma il cui nome rimaneva fermo sulla punta della lingua, senza venire fuori. Si sapeva che sarebbe arrivato, prima o poi, che quel nome sarebbe giunto tanto che si aveva l’impressione di averlo già detto e averlo dimenticato di nuovo. Ma quando poi arrivava davvero, quando le labbra trovavano la controparte perfetta su cui adagiarsi, si ritornava improvvisamente indietro, alla sorpresa originaria e si ricordava all’improvviso il nome di quella fragranza tanto cercata, e ci si sentiva felici e in pace con sé stessi. E si capiva che non era il nome la cosa più importante, quanto l’effetto che quel profumo aveva su di noi, il modo in cui poteva avvolgere, i ricordi che portava con sé. E il loro bacio, come un profumo che aveva attraversato i secoli, ne aveva così tanti di ricordi che non sarebbero bastate mille vite per accumularli tutti.
In quel bacio, in quell’essenza, c’erano loro, le identità dimenticate e mai conosciute, quella che stavano vivendo e quelle che non avrebbero mai visto. C’erano le domande e le risposte, i perché che non si erano ancora posti. C’era tutto ciò che non erano mai riusciti ad afferrare, nonostante gli indizi.
Mamoru gli teneva le mani tra mascella e collo, mentre Yuzo era aggrappato alla felpa. E quando si separarono, fu il portiere a baciarlo di nuovo, perché capisse che il suo era un ‘sì’, qualunque cosa gli avesse chiesto.
Ma quante speranze aveva un bacio di vincere contro la fine del mondo?
Mamoru lo guardò di nuovo negli occhi senza nessun imbarazzo, non c’era tempo per quello.
«Lo fisseremo rimanendo uniti fino alla fine e affrontandolo a testa alta. Deve vedere che adesso, a sbagliare, è solo lui, perché noi ci siamo trovati, proprio come era stabilito che fosse.» Sorrise. «Noi ci siamo trovati e non avremo paura.» Gli porse la mano. «Avrei voluto avere più tempo o esserci solo arrivato prima. So per certo che saremmo stati una grande squadra.»
La migliore in assoluto, di questo anche Yuzo era convinto e non poté non sorridere a sua volta, memore anche dei ricordi delle altre realtà.
«Sei sempre stato tu il campione delle dichiarazioni fatte all’ultimo secondo(1)
Gli strinse le dita e lasciò che l’altro l’aiutasse ad alzarsi; nonostante il dolore, proprio come Mamoru, non avrebbe chinato il capo e avrebbe sopportato qualunque fine a testa alta.
Nonostante tutto, erano davvero rientrati nei ‘ranghi’ universali e quel poco tempo che aveva potuto passare con Izawa nessuno avrebbe potuto portarglielo via.
Yuzo si volse a osservare il profilo del compagno ritto in avanti, dove del mondo non restava che quel belvedere, ma il panorama era scomparso e così le piccole crepe; ora c’era solo il bianco, attorno e sopra, il bianco che li avrebbe fatti sparire. Ma andava bene così, perché erano insieme.
«Mamoru?» Strinse le dita che erano rimaste unite anche dopo che si era alzato, e sorrise nel potersi riflettere di nuovo in quelle iridi così scure. «Sono felice di avere te accanto in ogni mia realtà.»
Un sorriso di rimando che non credeva avrebbe mai visto sulle labbra del centrocampista; gli aveva sempre mostrato solo il lato più antipatico e beffardo di lui, ma ora conosceva anche l’altra faccia della medaglia e capì di amarle entrambe.
Mamoru abbassò leggermente il capo, cercando la sua fronte, e Yuzo gliela concesse in quell’ultimo contatto, mentre chiudeva gli occhi.

“Dio, quando verrò in Paradiso
ti prego, lasciami portare il mio uomo.
Quando verrà, dimmi che lo farai entrare.
Padre, dimmi che puoi.”

Lana del Rey Young and Beautiful

 

Li riaprirono insieme e fu come riemergere da un’apnea prolungata. Forse non li avevano nemmeno mai chiusi, questi occhi, perché bruciavano come fossero stati spalancati troppo a lungo senza sbattere le palpebre.
Non l’avrebbero mai saputo dire con certezza e forse nemmeno gli importava, seppero solo che i loro sguardi erano fermi l’uno nell’altro, immobili, che fissavano espressioni incredule e lacrime. Dagli occhi di Yuzo, da quelli di Mamoru.
Proprio quest’ultimo, che odiava mostrarsi commosso davanti a tutti, non aveva fatto niente per fermare quella lacrima che ora scivolava indisturbata sulla guancia. Una identica la vedeva anche sulla pelle di Yuzo, che gli stava di fronte, immobile come lui. Le mani di entrambi reggevano qualcosa che non stavano guardando direttamente ma che sapevano benissimo cosa fosse. Sapevano anche dove fossero e quando, di preciso. Non sapevano il perché ma non era così importante, adesso.
Il vento di Marzo scivolò tra loro con un refolo freddo, smuovendo l’aria e dando finalmente una sensazione di movimento, di vita che passava loro intorno, così come i rumori – i rumori! – in lontananza o il verso di un corvo appollaiato su un ramo.
Erano stati convinti che avrebbero dovuto dimenticarli per sempre, che avrebbero dovuto dimenticare ogni cosa, compresi loro stessi, e invece il tempo aveva riavvolto il nastro al momento esatto in cui il mondo aveva iniziato a precipitare verso l’apocalisse.
E quel pallone, tra loro, rimaneva saldo sotto al tocco delle mani.
«Y-Yuzo?»
La voce titubante di Theodore spezzò l’immobilità dei corpi, la fissità degli sguardi.
Yuzo sbatté le palpebre e tornò a respirare con boccate ampie, mentre si guardava attorno e vide che erano tutti lì, nel parco Hikarigaoka, sul famoso belvedere. Tutti insieme. Guardò il pallone e poi di nuovo Mamoru.
Quest’ultimo ebbe come un gesto istintivo e lasciò andare la sfera, allontanandosi di un passo. Si volse, trovò Teppei, Hajime, i due fratelli di quest’ultimo e inspirò a fondo. Poi guardò Yuzo, ancora davanti a lui, ancora troppo vicino. Indietreggiò di nuovo.
«E’ tutto a posto?»
A quella nuova domanda di Miyamoto, Mamoru girò le spalle e iniziò ad allontanarsi da lì, quasi ne fosse spaventato, e a nulla servirono i richiami di Taki e Kisugi.
Yuzo fu tentato di seguirlo, fermarlo, ma Kenta e Theo lo raggiunsero per primi.
«Ma che diavolo gli è preso? Lo avete visto?» La Giraffa della Mizukoshi si grattò la tempia. «Sbaglio o Izawa stava piangendo? Devi avergli detto qualcosa di pesante in quei dieci secondi che siete rimasti a fissarvi! Eppure io non ho sent- ehi!» Kenta si accorse che stava piangendo anche il portiere.
«Che è successo?»
La mano di Theo si poggiò sul suo braccio, Yuzo la fissò, si concentrò sulla presenza del tocco che gli diceva che era tutto vero, che erano tornati indietro e che avevano una seconda possibilità.
Una seconda possibilità che non potevano sprecare.
«Mamoru!»
Yuzo si volse di scatto, guardando il sentiero che portava fuori dal parco. Il centrocampista si stava allontanando ma si fermò, quando sentì che a chiamarlo era la sua voce, mentre era stato come sordo a quella dei compagni di sempre.
Attorno a loro due si creò come una sorta di sospensione dell’incredulità. Hajime e Teppei da un lato, Kenta e Theo dall’altro si sentirono spettatori di un qualcosa cui non avrebbero potuto prendere parte, perché non gli apparteneva. Si scambiarono occhiate fugaci e silenziose; erano tagliati fuori.
«E così… te ne vai? Senza dire una parola dopo tutto quello che è successo? Senza nemmeno guardarmi?» L’altro non rispose né si volse, ma Yuzo vide chiaramente il modo in cui stringeva il pugno. «Non è stato un sogno, lo sai anche tu. Abbiamo fissato il bug e ci è stata data una seconda possibilità, Mamoru. A quanti viene data una chance così grande? Ma se ora te ne vai, se lasci che ogni cosa ritorni com’era prima, allora ricomincerà tutto da capo e quello che abbiamo cercato faticosamente di salvare sparirà di nuovo, si sfalderà. È questo che vuoi? Avrei giurato di no, dopo le tue parole.»
«E allora cosa ti aspetti che faccia?!» Mamoru si volse di scatto, ma non era arrabbiato quanto spaventato e per Hajime e Teppei, che lo conoscevano bene, apparve chiaro. Cambiava piede d’appoggio, aveva un’espressione contrita, era in evidente disagio. «Avanti, dimmelo!»
Yuzo scosse il capo. «Non spetta a me dirlo, lo sai benissimo anche da solo. Le cose tra noi non sono cambiate e non cambieranno. Non cambierà ciò che provo io e nemmeno quello che provi tu, dovresti saperlo.»
«Lì c’eravamo solo noi, mentre adesso… adesso siamo… migliaia!» Mamoru allargò le braccia con frustrazione.
«E allora? Hai paura di cosa possano pensare gli altri? Hai paura dei tuoi amici, dei miei, di me? O hai paura di te stesso?»
Di ciò che non aveva mai mostrato e che ora non poteva più nascondere, paura di dare spiegazioni, di non essere capito, dei suoi sentimenti che erano esplosi troppo velocemente e ancora non li conosceva bene. Prima era stato tutto chiaro, ma prima c’era stata la fine e quando si è a un passo dalla fine non esistono più segreti o cose sconosciute, si sa chi si è e dove e anche perché. Però per loro, che la fine l’avevano addirittura superata, cosa ci doveva essere?
«Perché io non temo nessuno di loro, men che meno te.» Sulle labbra di Yuzo si aprì un sorriso. «Me lo hai detto tu: a testa alta, e senza paura.»
«Già… già, te l’ho detto io…» Il centrocampista si passò nervosamente una mano tra i capelli. «Ti ho detto proprio un sacco di cose.»
«Questa volta tocca a me. Sarò io a dirti ciò che più conta per me.»
Yuzo mollò il pallone che rotolò solitario, ma nessuno se ne curò perché i loro sguardi erano solo per loro.
Per Yuzo che si allontanava a passo deciso e svelto, che raggiungeva Mamoru quasi col piglio di uno che volesse venire alle mani e che lo baciava, invece, davanti a tutti gli altri rimasti indietro, non solo fisicamente, ma anche nella successione e comprensione degli eventi.
Kenta afferrò il braccio di Theo liberando quel sincero e naturale: «Occazzo!»
Hajime coprì gli occhi dei fratelli che invece ridacchiarono e protestarono per essere stati interrotti proprio sul più bello. Teppei tirò via l’aria nell’aspirazione infinita di una ‘h’ preceduta da una ‘i’. E infine Theo che aprì solo la bocca, ma non disse niente.
Tutto quel frammento di mondo piccolissimo era concentrato su quel bacio, sul modo in cui Mamoru tenesse stretto il portiere e su come Yuzo gli cingesse il collo.
Decisamente, non sarebbero venuti alla mani né allora né mai.
«Ehi, hai fegato…» Mamoru lo sussurrò sulle sue labbra con un sorriso.
«Ho attraversato tre edifici in bilico sul vuoto mentre stavano crollando; non c’è più nulla ch’io non possa fare.»
«Non lo dimenticherò.» Prese un profondo sospiro. «Quindi mi toccherà davvero portare a casa un ragazzo, come voleva mia madre.»
Yuzo ridacchiò, facendo scivolare le braccia lungo le sue, coperte dalla giacca sportiva. «Sono davvero curioso di conoscerla.»
«Ah! Lo dici adesso! Riparliamone tra un paio di mesi, ok?»
Tutto naturale, come se il mondo non esistesse, come se fossero ancora solo e soltanto loro, tanto che anche Theo si sentì di troppo nell’interromperli e interrompere il modo in cui si sorridevano e parlavano che lo fece arrossire per un momento, perché gli sembrava perfetto in una maniera del tutto irrazionale.
«Sc-scusate…» tossicchiò, con Kenta che faceva capolino alle sue spalle e Hajime e Teppei che avanzavano al seguito. «Yuzo… mi vorresti spiegare che diavolo sta succedendo?!»
Il portiere guardò il capitano della Mizukoshi e poi il centrocampista che si grattava un sopracciglio, cercando di non ridere.
«Niente» disse con semplicità, ridendo a sua volta. «Anzi, è finalmente tutto a posto.» Negli occhi di Mamoru trovò la comprensione immediata che aveva sempre percepito nelle altre realtà; adesso apparteneva anche a loro ed era meravigliosa. «Tutto come deve essere.»

Sedute a un tavolino di ferro bianco, con abiti troppo estivi, tè e biscottini, le due giovani continuarono a non essere viste e a rimanere silenziose testimoni di quel quadretto.
«Oh, che carini.» La ragazza dai capelli lunghi si portò le mani al viso, sorridendo.
«Che ti avevo detto? Bisognava avere solo un po’ di fiducia.»
L’altra rivolse un’occhiata divertita alla compagna più anziana, con il cappello a tesa larga che arrivava quasi a coprirle gli occhi e gli immancabili scarponi da trekking.
«Tu lo sapevi, di’ la verità.»
«No, è solo che li conosco bene. Dopo tanti anni, qualcosa finisci con l’impararla e sai quando possono cavarsela da soli e quando metterci lo zampino.»
«Ah! Parli come una vecchia!»
«Matura, mia cara, matura
«Sì, sì, come dici tu» ridacchiò, afferrando un pasticcino. «E ci scriverai sopra, immagino.»
L’altra si strinse nelle spalle, guardò i suoi protetti da sotto alla tesa e tornò a sorseggiare il tè.
«Chi può dirlo? Dopotutto, cos’è che siamo se non scrivani al servizio dell’Universo? Quand’Egli detterà, io lo scriverò.»
Nel riflesso del tè, che oscillava nella tazza, vide l’alternarsi di centinaia di realtà e mondi, di scelte compiute e conseguenze, di scelte da compiere e bivi, di uomini, donne, amori, avventure e così tante emozioni che non sarebbero bastate le parole.
Sorrise, consapevole che il divertimento era ben lungi dal terminare, anzi, forse non era che appena iniziato.

 

“Il sole tramonta,
le stelle vengon fuori
e tutto ciò che conta è qui e ora.
Il mio universo non sarebbe mai stato lo stesso.
Sono felice che tu sia arrivato,
sono felice che tu sia arrivato.”

Tiffany AlvordGlad you came
(cover)

 


[1]: XD è vero. In svariate storie, Mamoru ha avuto l’onere – e l’onore – di essere il primo a confessare i propri sentimenti e sempre all’ultimo momento XDDD


 

The Bug
FINE

 

Nota Finale: E così, anche questa storia giunge al termine! :D
E’ stata frutto di un’ispirazione fulminea e di una congiunzione astrale favorevole in termini di ‘tempo per scrivere’. Non so quando tornerò con un nuovo lavoro, anche se progetti a cui sto lavorando ce ne sono; è quel famoso ‘tempo per scrivere’ che manca. :/
Cercherò di fare il possibile, confidando anche su un po’ di buona sorte! X3
Nel frattempo, vorrei ringraziare tutte le persone che mi hanno fatto compagnia durante la pubblicazione, lasciandomi i loro pareri attraverso le recensioni: Sakura-chan, Karon, Releuse, Kourin, Aelfgifu e Berlinene. :D
Ringrazio anche coloro che hanno messo la storia in una delle liste e coloro che son stati lettori ninja! :D
Spero di ritrovarvi al prossimo lavoro. :333

Il Re è morto.
Viva il Re.

   
 
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