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Autore: Anariel    24/04/2014    3 recensioni
Storia partecipante al contest "Emozioni al primo scatto" di FairLadyEFP.
Forse a dodici anni si è già vissuto abbastanza per imparare ciò che conta davvero, e non si dovrebbe essere costretti a crescere rovinando tutto. Sono stanco, Akh. Lasciamo che siano gli altri a combattere la loro guerra, e addormentiamoci fianco a fianco, finché siamo ancora fratelli.
Genere: Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Akh

 

Betlemme, 2 aprile 2002

 
Ho cercato di immaginare il nostro futuro, ma non ci sono riuscito. Ho visto solo un muro di cemento, grigio e soffocante, che gettava la sua ombra su tutti noi, togliendoci ogni speranza per una vita dignitosa.
E so che questo muro avrebbe finito per dividere anche noi, Akh.
Perché non ha nessuna importanza per quanto tempo siamo stati fratelli per le strade di Betlemme: ormai non siamo più bambini, e non possiamo più chiudere gli occhi e fingere che la guerra intorno a noi non ci riguardi.
L’ho capito l’altra sera, quando attraverso le tende socchiuse ho intravisto tuo padre che orgogliosamente cingeva il tuo capo con una kefiah rossa e ti consegnava un mitra: mi sarei aspettato di assistere alla tua ribellione, di sentirti gridare che hai solo dodici anni, che non sei un terrorista come loro, e sarei stato pronto ad accorrere a darti man forte…Invece niente, sorridevi onorato della fiducia che aveva riposto in te, ansioso di compiacerlo.
Un terrorista: ecco che cosa stava diventando quel bambino della porta accanto, lasciato spesso a se stesso da genitori con troppi figli, al quale avevo insegnato io a cavarsela per le strade del quartiere vecchio, la palestra più dura per la vita.  Non che tu avessi avuto difficoltà ad imparare: nel giro di pochi mesi eravamo diventati una coppia abilissima nello sfilare gli orologi ai turisti per poi rivenderli nel caos del bazar. Per noi era un gioco, ci sentivamo i padroni incontrastati della città, uniti da un legame molto più forte del sangue: eri l’unico che potevo chiamare fratello, “Akh”. Non è assurdo che questa parola si pronunci in modo così simile in arabo e in ebraico?
Perché non può esserci nessuna fratellanza con un popolo come il vostro, che costringe i bambini a diventare soldati, che nasconde le armi nelle scuole usando la popolazione civile come scudo, che lancia missili su gente innocente. Se non avete altri mezzi per difendere i vostri diritti, a quale prezzo vi ostinate ad occupare queste terre, in nome di che cosa continuate a spargere sangue?
 
Così quella sera sono corso al telefono più vicino e ho chiamato quello zio a Tel Aviv che aspettava solo la mia risposta alla proposta di andare a vivere con lui, nella capitale, dove sarei stato al sicuro dalla guerriglia e avrei avuto la possibilità di studiare. La Cisgiordania non è un luogo adatto ad un ragazzino.
Avevo in programma di partire proprio domani mattina: così le nostre strade si sarebbero separate, e ciascuno di noi avrebbe preso il posto al quale era destinato per nascita.
 
Sono troppo stanco per immaginare il resto della storia, ma so che non saremmo mai stati del tutto liberi dall’ombra della guerra. Forse un giorno ne avrei fatto parte attivamente anch’io: riesci a immaginarmi come capo dell’intelligence, o almeno di una piccola subunità? Credo proprio che avrei scelto come base uno scantinato di un edificio vecchio, simile a questo: sai bene quanto i pilastri di queste fondamenta siano resistenti ai bombardamenti, e come i molti anfratti offrano ottimi rifugi e nascondigli.
Anzi, mi conosci così bene che sono sicuro che un giorno saresti riuscito a scovarmi; ma anch’io ti conosco bene, e so che saresti stato così impulsivo da venirmi a cercare da solo, spinto solo dalla rabbia e dall’odio.
E ci saremmo trovati faccia a faccia, nel buio, con le rispettive pistole puntate alla fronte. Ci saremmo fissati negli occhi, e sicuramente avremmo provato una trafiggente stretta al cuore nel riconoscere lo sguardo del bambino di un tempo e nel constatare com’era cambiato. Ma le nostre braccia, non più sottili come sono adesso, ma forti e muscolose come quelle di sue soldati, non avrebbero tremato; avresti riversato su di me l’odio di un intero popolo costretto da tanti anni al silenzio, alla fame, a vivere chiuso in pochi chilometri quadrati economicamente morti, bloccato ad ogni tentativo di riorganizzare una vita dignitosa.
So che nessuno dei due si sarebbe tirato indietro, ma che, pur sopraffatti dal dolore, saremmo andati fino in fondo nel fare ciò che ritenevamo giusto, nel vendicare i nostri morti, nell’eliminare un altro pericolo per i nostri figli, nel fare il lavoro sporco nella conquista della pace e della libertà, nel compiere la volontà del nostro Dio.
Tutto questo nel breve spazio di uno sguardo, una scheggia di tempo in cui dirci addio, fratello. Ed entrambi avremmo premuto il grilletto.
 
Renditi conto, Akh, che non avremmo mai potuto avere un futuro diverso, io e te. Per questo non mi dispiace poi così tanto che quel futuro ci sia stato negato. Forse dopotutto non è stata una cattiva idea quella di recarci da soli in questo edificio dismesso, stamattina, per affrontarci un’ultima volta prima di dirci addio; e non importa se abbiamo capito troppo tardi che quei missili intelligenti erano diretti proprio qui, e se nel caos di rumore, polvere e crolli che ne è conseguito non siamo riusciti a ripararci.
Forse a dodici anni si è già vissuto abbastanza per imparare ciò che conta davvero, e non si dovrebbe essere costretti a crescere rovinando tutto. Sono stanco, Akh. Lasciamo che siano gli altri a combattere la loro guerra, e addormentiamoci fianco a fianco, finché siamo ancora fratelli.
 
 
 
  
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