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Autore: ale_chan19    25/04/2014    1 recensioni
Se c’era qualcosa che in quel momento Celia Bowen non sopportava era l’attesa. Mancavano solo pochi giorni al suo undicesimo compleanno, ma ciò le faceva saltare i nervi, perché sin da quando aveva iniziato a vivere con suo padre l’idea di andarsene era sempre stata il suo primo pensiero e l’andare ad Hogwarts il settembre successivo era, a tutti gli effetti, il coronamento di un sogno.
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Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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The Night Enchantment


 
 
Capitolo 1
 
 
 
Se c’era qualcosa che in quel momento Celia Bowen non sopportava era l’attesa. Mancavano solo pochi giorni al suo undicesimo compleanno, ma ciò le faceva saltare i nervi, perché sin da quando aveva iniziato a vivere con suo padre l’idea di andarsene era sempre stata il suo primo pensiero e l’andare ad Hogwarts il settembre successivo era, a tutti gli effetti, il coronamento di un sogno.
 
Ad essere sinceri, prima di conoscere suo padre, ancora non sapeva di essere la figlia di un mago e di averne ereditato i poteri, ma tutto ciò fu la risposta agli interrogativi che la sua giovane mente si era posta negli anni addietro, quando ancora viveva con la madre.
Effettivamente il loro primissimo incontro fu un avvenimento alquanto bizzarro, che diceva di non ricordare più e che ancora suscitava abbastanza interesse tra chi faceva parte della cerchia di conoscenti del signor Bowen, quando questi lo raccontava con un bel bicchiere di Whisky Incendiario in una mano e una pipa dorata nell’altro, in un qualche pub dell’Essex.
Egli ancora rammentava quella mattinata grigia, mentre percorreva a passo svelto un lunghissimo corridoio del quinto livello del Ministero della Magia, diretto al suo ufficio, e il suo stupore nell’aprirne la porta e nel trovare una bambina seduta su una delle sedie davanti alla scrivania. Dopo essersi ripreso era andato a chiamare una collega e avevano cercato di capirci qualcosa, ma la piccola non spicciava parola e nessuno sapeva come diavolo fosse entrata nel Ministero e avesse raggiunto il suo ufficio senza chiedere alcuna informazione. All’improvviso la sua minuscola ospite tirò fuori dalla tasca del cappottino una lettera indirizzata ad “Hector Bowen” (ed egli fu certo che lei avesse provato un lieve, subdolo e sadico divertimento nel farli impazzire prima di mostrar loro quella maledetta lettera) e così la prese, l’aprì, la lesse e una volta appoggiatala sulla scrivania, osservò di nuovo attentamente l’aspetto della bambina. Ancora una volta pensò che non ci potessero essere dubbi: gli occhi vivaci che spuntavano da quella selva di ricci scuri e ribelli erano palesemente la versione più giovane e spalancata dei propri.
Nel rileggere il contenuto della missiva, il signor Bowen, anche conosciuto col nome di Prospero per la sua smodata passione per la babbana letteratura Shakespeariana, si rese conto che, pur ricevendo sempre una cospicua quantità di posta ogni settimana, non gli era mai capitato di ricevere una busta contenete una nota di suicidio, per di più recapitatagli da quella bambina, che, dovette ammettere, era proprio sua figlia ed in quel momento era passata sotto la sua custodia.
Alla fine del foglio c’era scritto “Si chiama Celia”.
«Avrebbe potuto chiamarti Miranda» ridacchiò il signor Bowen teoricamente rivolto alla figlia, in realtà più rivolto a se stesso «Ma suppongo non fosse abbastanza intelligente per pensarci.»
La bambina lo fissò con gli occhi stretti, mentre la superficie del the che la sua collega le aveva portato iniziava ad incresparsi, formando piccole onde sempre più furiose, e al mago sparì il sorriso dal volto; le prese il mento tra le dita e la guardò con più curiosità di prima.
«Interessante… sei sempre stata in grado di fare cose del genere?»
La bambina non rispose, né in seguito rispose a molte altre domande se prima l’uomo non si abbassava a chiamarla per nome e non rispose neanche a nessuno degli altri nomi che cercò di affibbiarle, a nessuno fuorché a Celia.
 
Nei primi tempi della sua nuova vita con il padre, Celia si sentì a tutti gli effetti alla stregua di un soprammobile; costretta a seguire il genitore in quegl’interminabili viaggi di lavoro in giro per le comunità magiche del mondo, quasi sempre egli ne approfittava per portarla con sé la sera, tutta pulita ed infiocchettata, per esibirla nei pub del dopo-riunione di fronte ad una decina di pompose vecchie maghe adoranti. Ben presto però diventò troppo alta per essere sfoggiata come una bambolina perfetta, così il signor Bowen preferì spesso lasciarla a casa, a Chipping Ongar, con la sola compagnia di Rabuly, la loro elfa domestica.
In quei lunghi periodi di quasi completa solitudine, lontana dal controllo del padre, Celia amava distrarsi affrontando numerosissime letture, alcune talmente complicate da renderle ben difficile la comprensione, ma non le importava. Leggere le piaceva a tal punto che poco dopo il suo decimo compleanno avrebbe potuto affermare di aver letto ogni singolo libro presente nella biblioteca del signor Bowen, anche quelli che di sicuro non si addicevano ad una ragazzina così giovane e che aveva potuto ottenere solo dopo un duro lavoro nel convincere Rabuly a riferirle il loro nascondiglio.
Più volte il signor Bowen, nei rari momenti in cui si trovava a Chipping Ongar con la figlia, constatò di averne una con capacità e una maturità superiori alla media dei suoi coetanei e non poté far altro che compiacersene segretamente. Per questo, durante quegli ultimi giorni di fastidiosissima attesa, la signorina Bowen, sebbene riuscisse solo a pensare ossessivamente alla lettera, tentò di non mostrare nessuno dei suoi sentimenti al padre, volendo mantenere quell’aria di indifferente alterigia che gli riusciva alla perfezione, nonostante la punzecchiasse continuamente con battute sui gufi lenti e sulla posta perduta.
 
Quando quel mattino si svegliò, sorrise; vide il sole spuntare fuori dalla finestra e sorrise; sentì l’odore del bacon e delle uova strapazzate venire dalla cucina e sorrise; scese le scale sorridendo sempre di più e quando raggiunse il primo piano vide suo padre, seduto in una delle tante suntuose poltrone spaiate sparse per il salotto, che sventolava una bellissima busta gialla con la mano destra.
«Pare ci sia qualcosa per lei, signorina Bowen».
 
 
SCUOLA DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS
Direttore: Albus Silente
(Ordine di Merlino, Prima Classe, Grande Esorcista, Stregone Capo, Supremo Pezzo Grosso, Confed. Internaz. Dei Maghi)
 
Cara signorina Bowen,
siamo lieti di informarLa che Lei ha diritto a frequentare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Qui accluso troverà l’elenco di tutti i libri di testo e delle attrezzature…
 
 
Celia non finì di leggere la lettera che proruppe in un grido di gioia ed iniziò a saltellare tenendo per mano Rabuly, che aveva appena portato la colazione. Si girò verso il padre con un sorriso così radioso da illuminare la stanza e si dimenticò della promessa che si era fatta sul mostrarsi sempre calma e posata davanti a lui. Il signor Bowen le promise che il giorno seguente sarebbero andati insieme a Diagon Alley per comprare ciò che le sarebbe servito a scuola, anche se in realtà non avrebbe certo voluto accompagnarla a fare compere, ma si era deciso a sacrificare il riposo della domenica per l’incolumità della figlia: infatti avrebbe volentieri mandato Celia a Diagon Alley insieme a Rabuly, ma in quel periodo alcune voci che giravano sul Signore Oscuro si erano fatte troppo insistenti.
 
Verso le undici del mattino dopo (il signor Bowen si era categoricamente rifiutato di svegliarsi prima delle dieci e mezza, al contrario della figlia, già in piedi dalle sette), i due entrarono al Paiolo Magico. Dopo un veloce “Buongiorno Tom” rivolto all’uomo con la calvizie incipiente dietro al bancone e un “Buongiorno anche a lei, signor Bowen” di risposta, Celia si ritrovò nel cortile sul retro, sbuffando, incapace di aspettare che il padre si decidesse su quale mattone del muro battere la bacchetta.
«È quello, papà» disse indicandone uno sopra il bidone della spazzatura, spazientita «Tre verticali, due orizzontali… me l’hai detto tu.»
Il padre rimase zitto e batté la punta della bacchetta tre volte contro il mattone che aveva detto la figlia, ma dentro di sé era segretamente compiaciuto che lei se lo ricordasse ancora, nonostante l’avesse portata a Diagon Alley in pochissime occasioni.
Il mattone che aveva colpito vibrò, si contorse e apparve un piccolo buco che si allargò fino a quando non comparì un arco che dava su una lunghissima strada selciata e piena di curve.
«Dove andiamo?» gli chiese eccitata. Celia ricordava come fossero ieri le uniche due volte in cui aveva accompagnato lì il padre, entrambe in occasione di due suoi compleanni: per il suo settimo le aveva promesso di portarla alla Gelateria Fortebraccio, per l’ottavo erano andati a comprarle dei libri al Ghirigoro, ma non era mai stata in grado di vedere il resto di Diagon Alley e si sentiva terribilmente su di giri.
Prima che il signor Bowen le potesse rispondere, li raggiunse un mago che era certa di aver già visto da qualche parte. Quest’ultimo aveva un imbarazzante panciotto giallo, i cui bottoni sembravano essere sul punto di saltar via, delle gambe piuttosto tozze, dei folti baffoni giallognoli e un viso tondo e lucido, che le fece immediatamente pensare ad un uovo sodo con la senape sopra.
L’uomo-uovo esclamò:«Prospero! Non ci credo, Prospero Bowen!» e abbracciò il signor Bowen, abbraccio che fu ricambiato con molto meno trasporto dell’altro e con una vaga espressione di disgusto in faccia.
«Nedenus, quale piacere rivederti» disse infine.
«Era da tanto che non ti si vedeva in giro, eh? Dove sei stato?»
«Un po’ qui, un po’ là… sai, quando il lavoro chiama devo rispondere»
«Perché se hai un po’ di tempo libero si potrebbe parlare di quella cosa, insomma… di quell’affare speciale…» aggiunse sottovoce, ma Hector Bowen si schiarì la gola e guardò in tralice la figlia alle sue spalle e finalmente l’uomo-uovo si accorse di lei.
«Per le mutande di Merlino, ma allora è vero che hai una figlia! Come ti chiami piccolina?» e le sorrise mostrando i suoi denti gialli, confermandole sempre di più la teoria dell’uovo sodo con la senape. Lei alzò uno sguardo interrogativo verso il padre, che non disse niente, quindi si rivolse nuovamente all’altro mago e dopo aver fatto una lieve riverenza con tutta la grazia ed educazione che possedeva (e che il padre le imponeva di usare in sua presenza nei confronti degli sconosciuti), rispose:«Il mio nome è Celia, signore».
«Che graziosa» affermò l’uomo-uovo, con un tono che le ricordò fastidiosamente quello usate dalle vecchie maghe conosciute durante i viaggi del signor Bowen. Dopodiché alzò lo sguardo verso di lui:«Non dirmi che la piccola Celia ha undici anni, Prospero, e che siete qui per Hogwarts… perché la situazione si farebbe decisamente interessante…» disse con voce melliflua «ho sentito voci attendibili poco tempo fa e dicono che anche uno dei suoi rampolli debba andarci questo settembre…»
Il volto del signor Bowen si irrigidì; ovviamente Celia aveva notato come l'uomo-uovo aveva sottolineato quel "suoi", dato che era stato fin troppo eloquente nel pronunciarlo, ma non aveva la più pallida idea di chi stesse parlando.
«Grazie per l’informazione, Nedenus, ne terrò conto»
«Figurati! Ma ditemi, dove dovete andare? Perché esco adesso dalla Gringott e devo comprare alcune cosucce, magari potrei accompagnar…»
Ma non fece in tempo a finire la frase che il signor Bowen disse:«Che coincidenza sfortunata, stavamo proprio andando alla Gringott. Sarà per la prossima volta Nedenus, a presto» e, presa la figlia per mano, si affrettò verso la banca dei maghi.
Celia, che a malapena riusciva a sostenere il passo del padre, era molto confusa, anche perché era certa che le avesse detto di essersi già procurato del denaro il giorno prima, e stava per chiedergli spiegazioni, quando questi, prima ancora che lei riuscisse ad aprir bocca, disse:«Non fare domande.» Dunque lei non poté far altro che fissare con occhi colmi di curiosità il volto pensieroso del signor Bowen e voltarsi in continuazione verso l’uomo-uovo, che era ancora fermo dove l’avevano lasciato e li stava osservando. «E smettila di girarti!» sbottò e a Celia non rimase che correre al fianco del padre, con la mente che vorticava alla ricerca di risposte.
Tutto quel pensare si arrestò all’istante quando i due si fermarono davanti alla banca e Celia la vide per la prima volta: era un edificio bianco, che svettava per altezza e magnificenza rispetto alle altre costruzioni nei dintorni e nei pressi del gigantesco portone di bronzo c’era un folletto, più grande di Rabuly, vestito con un’uniforme scarlatta e dorata. 
«Dopotutto ogni mago che si rispetti deve vedere la Gringott almeno una volta» borbottò l’uomo; saliti gli scalini che portavano all’entrata, il folletto fece loro un inchino; una volta entrati si ritrovarono davanti ad una porta d’argento, su cui era incisa quella che a prima vista le sembrò una filastrocca, ma leggendola meglio si rivelò un avvertimento:
 
Straniero, entra, ma tieni in gran conto
Quel che ti aspetta se sarai ingordo
Perché chi prende ma non guadagna
Pagherà cara la magagna
Quindi se cerchi nel sotterraneo
Un tesoro che ti è estraneo
Ladro avvisato mezzo salvato:
Più del tesoro non va cercato.
 
Attraversata la porta d’argento, una coppia di folletti si inchinò davanti a loro e li introdusse in un salone marmoreo e sul volto di Celia si poteva chiaramente leggere la meraviglia.
Decine, forse un centinaio di folletti erano seduti su scranni altissimi, dietro un lungo bancone, e trafficavano febbrilmente con denaro, pietre preziose, scribacchiavano su libroni quasi più grandi di loro.
«Non sarai felice di sentirlo, ma non ho la minima intenzione di portarti alla nostra cella» le disse e vide certamente lo sguardo piccato e deluso della figlia «Niente discussioni, finché sono vivo del denaro me ne occupo io»
«Quindi mi hai portato qui solo per sfuggire dall’uomo-uovo?»
Facendosi sfuggire una risata per il soprannome che la figlia aveva affidato a Nedenus Gloch, annuì e dopo qualche minuto disse:«Usciamo, spero che se ne sia andato.»
Effettivamente non c’era più alcun uomo-uovo ad aspettarli fuori in strada, così iniziarono a girare per i negozi.
Per entrambi fu quasi una sofferenza quando toccò ad andare da Madama McClan, ma per Celia fu un sogno che si avvera quando fu il turno di passare dal Ghirigoro. Uscita dalla bottega di Olivander, il fabbricante di bacchette, rimirò a lungo la propria: era di faggio, lunga dodici pollici e mezzo, leggermente flessibile e con il nucleo di corde di cuore di drago. «Che bacchetta, signorina Bowen.» le aveva detto. «Questo legno è molto ricercato, prestigioso» e l’aveva fissata dritto negli occhi, sussurrando «Solo i maghi più svegli possono ricavarci magie meravigliose.»
Pensò a suo padre, che aveva una bacchetta di abete, e si chiese che cosa gli avesse detto Olivander prima di vendergliela, ma non osò chiedergli niente.
 
Verso l’una il signor Bowen le chiese se dovessero prendere ancora qualcosa e Celia, scorrendo l’elenco fornito dalla scuola, si soffermò sull’ultima riga e involontariamente si girò verso “Il Serraglio Stregato”: non aveva mai avuto il permesso di possedere un animale tutto suo. A casa era sempre stata circondata dalle stravaganze del padre, che l’avevano portato a comprare decine e decine di candide colombe, per cui Celia non aveva mai provato alcunché, ma l’idea di avere anche solo un rospo di sua proprietà le faceva battere il cuore. Con sua sorpresa il signor Bowen non si oppose quando affermò di voler entrare in quell’ultimo negozio, ma un istante prima che aprisse la porta, Celia intravide con lo sguardo l’insegna della bottega a fianco, “L’Emporio del Gufo” e pensò che forse non aveva poi tanta voglia di prendersi un gatto. Con uno sbuffo il padre la seguì nel secondo negozio, un locale buio, pieno di gabbie e animali che raspavano e frullavano. Mentre osservava attentamente ad uno ad uno tutti gli uccelli appollaiati sui numerosissimi trespoli sparsi per la stanza, trovò ciò che cercava: era un gufo grande, nero come un corvo e con gli occhi che sembravano pepite d’oro. “È lui” pensò “È proprio lui!” e pochi minuti dopo si trovò in mano una pesante gabbia dorata come gli occhi del suo Melas.
 
L’euforia della gita a Diagon Alley le fece momentaneamente dimenticare quello strano incontro con l’uomo-uovo, ma ben presto, mentre stava accarezzando Melas nella sua camera da letto (aveva dovuto spostarlo dalla stanza delle colombe del padre perché le aveva terrorizzate), le ritornò in mente ed iniziò ad investigare.
Sfruttando l’assenza del signor Bowen, che si trovava chissà dove per lavoro, s’impegnò a lungo per stilare una lista di tutte le persone più inquietanti o ostili che aveva conosciuto viaggiando con lui, ma senza ottenere risultati rilevanti; passò poi alla rassegna di alcuni vecchi libri sulle famiglie magiche per vedere se ci fossero state strane interazione fra la sua famiglia e quelle di altri maghi, ma trovò solo alcune informazioni riguardanti i suoi antenati più antichi; riuscì addirittura a mettere le mani sul taccuino che il padre ogni tanto usava per appuntarsi le cose, ma l’unica frase ambigua risaliva proprio alla data in cui erano andati a Diagon Alley e affermava solamente quanto quel Gloch fosse il solito fesso. Ancora più scoraggiata, si era ritrovata a supplicare Rabuly perché le rivelasse ciò che sapeva, se era a conoscenza di ciò che le interessava, ma invano.
Ottenne qualche vago indizio ulteriore solo il 31 agosto, quando suo padre tornò dal suo lungo viaggio, un giorno prima della sua partenza per Hogwarts.
Era appena entrato in casa e si era seduto su una delle tante poltrone del salotto con il suo cappello a cilindro appoggiato sulle ginocchia, il volto stanco e non rasato gli conferiva qualche anno in più di quanti ne avesse. Celia, scesa per salutarlo, stava già salendo le scale quando egli improvvisamente le disse:«Torna qui.» Il guizzo dei suoi occhi forse tradì la sua curiosità, ma il signor Bowen parve non accorgersene.
«Devi sapere, Celia, che i Bowen sono sempre stati un’influente famiglia dell’Essex di maghi Purosangue… insomma, a parte te» e la guardò con un vago disappunto «Discendi da una stirpe di maghi potenti, molto stimati per questo, ma con la pecca dell’orgoglio.»
«Siamo spesso entrati in competizione con altri, fin dai tempi dei nostri più antichi antenati, per ottenere il primato in abilità magiche e potere…» ma cambiò discorso «ed è per questo che dovrai impegnarti con tutta te stessa ad Hogwarts, devi essere la migliore. Me lo prometti?»
Celia annuì, internamente delusa, e poi il padre le fece cenno di andare in camera sua. Dopo di che si mise a bere Whisky Incendiario fino a sera e Celia fu costretta a cenare da sola e a finire il suo baule insieme a Rabuly per poi andare a letto presto in vista della partenza del giorno dopo.
Non si sa come, ma il signor Bowen riuscì a svegliarsi abbastanza presto quel primo di settembre per portare la figlia a Londra. Si fermarono da Tom, al Paiolo Magico, per fare colazione (o almeno, Celia bevette il suo the, ma il signor Bowen preferì qualcosa di più forte), e poi si recarono alla stazione di King’s Cross per le dieci e mezza. Fermi al binario Nove e Tre Quarti c’erano centinaia di bambini e ragazzi con le rispettive famiglie, alcuni erano già sull’Espresso per Hogwarts e ogni tanto si sporgevano dal finestrino per salutare i familiari rimasti sulla banchina.
Celia e suo padre erano tesi in un silenzio imbarazzato e dopo alcune parole di circostanza e un buffetto sulla testa, il padre fermò due ragazzi di qualche anno più grandi della figlia e sbraitò:«Non  esiste più la galanteria? Voi! Portate questo sul treno.» indicando il grande baule di Celia, che aveva già in mano la pesante gabbia con dentro un Melas alquanto infastidito dal frastuono. Rossa in viso, li seguì sul treno, salutando con la mano il signor Bowen, che, notò Celia quando controllò da un finestrino, sparì subito dopo. I due ragazzi, entrambi con i capelli scuri, uno con gli occhiali e l’altro decisamente affascinante, trasportarono il suo baule fino ad uno scompartimento a metà del treno e la salutarono.
Ancora imbarazzata si girò verso i suoi compagni di scompartimento: a fianco alla finestra c’era una bambina dai tratti vagamente orientali con lisci capelli neri stretti in due trecce elaborate, che era assorta ad osservare la gente che si sbracciava per salutare quelli sul treno; vicino alla finestra sul lato opposto era seduto un bambino con i capelli castani che stava giochicchiando con una scatolina di legno; al suo fianco c’erano due bambini, palesemente fratello e sorella, entrambi con i capelli di un rosso scuro, ma molto acceso e gli occhi blu. Celia pensò che dovesse essere una sorta di fissazione familiare il fatto che lei indossasse solo abiti bianchi e lui solo neri, ma, decidendo di non soffermarsi troppo a fissarli, si girò per mettere la gabbia di Melas sulla rastrelliera sopra i sedili e poi si sedette, con l’intenzione di continuare a leggere il libro che aveva iniziato a casa.
La prima parte del viaggio si rivelò alquanto solitaria, infatti la ragazza alla sua sinistra continuò a guardare fuori dal finestrino e ogni tanto si addormentava, lo stesso fece l’altro ragazzo e i due fratelli davanti a lei confabularono per tutto il tempo fra di loro. La situazione si smosse all’arrivo di un’anziana maga che trascinava un carrello pieno di dolci di ogni tipo, perché quando aprì la porta del loro scompartimento ci fu una piccola discussione tra Widget (così lo chiamò lei) e Poppet (così la chiamò lui) perché la ragazza non voleva che lui spendesse tutti i loro risparmi in dolciumi, ma lui aveva fame, così lei si arrese con uno sbuffo e sia Celia che il secondo ragazzo si ritrovarono a ridacchiare, mentre la ragazza della finestra fissava la scena con un sorriso enigmatico.
Quando la donna passò allo scompartimento successivo, Poppet e Widget si presentarono ufficialmente con un gran sorriso, così fece Celia, l’altra ragazza, Tsukiko e il ragazzo, Bailey. Dovevano tutti iniziare il loro primo anno ad Hogwarts ed erano un po’ agitati, ma si trovarono abbastanza in sintonia e il viaggio si concluse in maniera più rilassata. Quando fu il momento di cambiarsi, a turno, i ragazzi o le ragazze furono costretti a turno ad uscire; poco dopo una voce risuonò per tutto il treno:«Tra cinque  minuti arriveremo ad Hogwarts. Siete pregati di lasciare il bagaglio sul treno; verrà portato nella scuola separatamente». Celia infilò il libro che stava leggendo dentro il suo baule e uscirono tutti dallo scompartimento; quando scesero dal treno sentirono una voce che chiamava quelli del primo anno e si affrettarono verso quella direzione.
 
Quella notte, una volta coricatasi a letto, Celia ripensò a tutto ciò che era successo e si chiese cosa avrebbe potuto scrivere al padre: aveva  attraversato il lago del castello, aveva dovuto aspettare che la smistassero in piedi e davanti a tutti gli altri studenti. “Proprio tutti”, gli avrebbe scritto, “anche quelli dell’ultimo anno”. La fortuna aveva voluto che lei fosse una dei primi ad essere chiamata ad indossare il vecchio cappello parlante di Grifondoro; si disse che avrebbe ricordato per sempre quel momento in cui aveva camminato da sola, davanti all’intera Sala Grande, fino a quel maledetto sgabello e ci si era seduta.
«Vediamo, vediamo cosa abbiamo qui…» le aveva sussurrato una vocina nell’orecchio « Non c’è dubbio: CORVONERO!»
E, quando qualcuno le tolse il cappello dalla vista, era andata verso il secondo tavolo da sinistra, dove molti ragazzi le avevano stretto la mano prima che si sedesse, ancora terribilmente emozionata.
Poco dopo di lei fu chiamato un certo Clarke Bailey e vide il ragazzino che aveva conosciuto sul treno andare a Grifondoro; in seguito sentì un “Fairbairn Tsukiko”, e la ragazza la raggiunse a Corvonero, rivolgendole solo uno dei suoi soliti sorrisi enigmatici prima di rigirarsi verso il centro della sala. Dovette aspettare ancora per lo smistamento dei due gemelli, che tutti i ragazzi intorno a lei pensavano facessero parte della famiglia di un certo Weasley. “Murray Penelope” finì raggiante a Corvonero, ma “Murray Winston” si sedette al tavolo dei Tassorosso.
Seguendo i prefetti aveva raggiunto la loro sala comune, la stessa sala ampia, circolare e ariosa dove molti suoi antenati avevano studiato. Il signor Bowen sarebbe stato fiero di lei, pensò, anche lui era stato un Corvonero.
 
In quell’istante le venne in mente una scatola che, molti anni prima, aveva trovato nascosta nella biblioteca di casa sua. In quella scatola aveva trovato una foto che ritraeva un gruppo di studenti di Hogwarts: in un angolo c’era un giovane signor Bowen, con i ricci molto più scuri e lunghi e un sorriso sprezzante, mentre al centro c’era un Tassorosso grassoccio che ora riconosceva come un Nedenus Gloch senza baffi. Nella scatola c’erano anche alcuni libricini che non era riuscita a leggere perché erano chiusi ermeticamente.
Capì che avrebbe potuto trovare lì la soluzione del caso, l’identità della persona misteriosa, dentro quei libricini. Le serviva un modo per aprirli e quale posto migliore di Hogwarts le avrebbe potuto insegnare a farlo?
 
In quel momento, in una villa sperduta tra i boschi nel distretto di Epping Forest, nei dintorni del paesino di Chipping Ongar, Hector Bowen osservava in silenzio il suo salotto vuoto.
Era seduto sulla sua poltrona preferita, dallo schienale alto, dorata, una delle tante sparse per il salone, tutte di forma, grandezza e colore differente. Accanto a lui c’era un tavolino di legno, ricoperto di bottiglie di liquori; poco distante, su un lungo tavolo di cristallo, aveva appoggiato una scatola impolverata. Con una mano reggeva un bicchiere ormai quasi vuoto, con l’altra una vecchia foto in bianco e nero.
Aveva a malapena degnato di uno sguardo la sua figura, quella di Gloch, quella di tutti gli altri ragazzi, perché i suoi occhi erano fissi nell’angolo diametralmente opposto al proprio, concentrati sull’immagine di un’unica persona. Lui.






NDA: Partecipa al contest a turni "Un anno speciale ad Hogwarts". I personaggi principali e le loro caratteristiche sono tratti dal libro Il Circo della Notte, l'ambientazione e i personaggi secondari sono tratti dalla saga di Harry Potter. I luoghi citati sono realmente esistenti (quindi anche Hogwarts).
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