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Autore: Soqquadro04    26/04/2014    1 recensioni
[What if? colossale | Vampire!Mrs.Salvatore | Absolutely nonsense | Possibilissimo OOC | Metà S4 (forse)]
[...] gli sembra di vederla ancora con un corpetto dipinto addosso, tanto stretto da impedirle di respirare (ricorda che quando qualcuno – non sa più chi, adesso – gli aveva spiegato – in una notte di temporale, alla luce fragile di una candela che si rifletteva danzante nelle sue iridi lucide – che sua madre era morta tossendo sangue, aveva dato la colpa alle sue serve e ai suoi corsetti soffocanti, a quelle gabbie che le avevano rubato il fiato e non gliel'avevano più restituito).
Ha i capelli raccolti in una crocchia disordinata, sfatta – qualche boccolo sfuggito all'elastico le sfiora le guance, esattamente come le succedeva con la retina per lo chignon, sotto cappelli e nastri azzurri, nei giorni d'estate.
Sono vecchi dettagli, neppure abbastanza definiti da essere ricordi – riaffiorano dall'inconscio e gli invadono la mente con un senso di nostalgia crudele che gli fa male quasi fisicamente. [...]

Un mattino d'aprile, un volto dimenticato (o quasi) - ricordi, odore di rose, rimpianti.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Damon Salvatore, Elena Gilbert
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Autore: Soqquadro04
Fandom: The Vampire Diaries
Disclaimer: no, ovviamente non sono miei, certo che no.
Generi: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale, Triste
Avvertimenti: possibilissimo OOC, What if?, timeline imprecisata (sicuramente pre!S5, forse metà S4)
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:
Sì, sto pubblicando alle quattro e mezza del mattino perché sono insonne e siccome tanto non riuscirò a vedere la puntata prima di domani tanto vale utilizzare le ore per fare qualcosa.
Nella fattispecie, allenarmi ad andare OOC con personaggi il cui carattere ho creato praticamente io – sì, Liz è un po' fuori dalla traccia che le ho dato normalmente parlando di lei (e no, non so come abbia fatto a fare 'sto casino).

Tutto ciò è nato da questa cosa bellissima, ci tengo a precisare che il prompt non è assolutamente farina del mio sacco e che l'ho trovato per puro caso – come anche gli altri che ho prenotato per un futuro molto lontano...
Boh, è un bel po' strana e piuttosto nonsense. E mi ha fatto impazzire per trovare un titolo (che fra l'altro non c'azzecca niente con la storia, ma mi piaceva).

A presto,
la vostra Soqquadro

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Roses (in the dust)

[…] Losing what was found, a world so hollow suspended in a compromise.
The silence of this sound is soon to follow somehow sundown.

And finding answers is forgetting all of the questions we call home,
passing the graves of the unknown.

[...]
All this time spent in vain, wasted years, wasted gain.
All is lost, hope remains, and this war's not over.

Trading yesterday - Shattered

 

Elizabeth Salvatore è morta sotto il primo sole di maggio, sepolta in un cimitero dove già fiorivano i boccioli delle rose, nella terra appena tiepida, fra lo sbocciare timido dell'erba – lui aveva sei anni e non capiva, sei anni e l'equilibrio della sua vita era stato irrimediabilmente spazzato via e da allora era stato importante solamente rimanere accanto a Stefan, sempre, per sempre, perché era l'unica cosa che gli era rimasta e nessuno sembrava rendersi conto di quanto fosse perso, quanto si sentisse così tremendamente solo e confuso, e così tanto triste (la mamma era andata via – perché non aveva portato anche loro?), senza più le sue mani e i suoi occhi (occhi che non giudicavano, occhi che ridevano ed erano così belli, ricorda) e il suo odore che era così dolce e così suo.

Poi era cresciuto – era cresciuto e non era stato più così piccolo e così indifeso, aveva capito, aveva imparato ad andare avanti e a superare cose che gli erano sembrate molto peggiori della morte –, era cresciuto e, come sempre accade quando si cresce, qualcosa era stato accantonato e qualcosa no, e il dolore si era fatto lontano e si era dilatato attraverso il tempo – erano passati quasi due secoli, e due secoli sono abbastanza per dimenticare, magari non tutto, ma sono decenni e poi anni, e giorni e ore, così tanti – e arrivato ad adesso che ci sono così tanti problemi e così tanti altri pensieri, così tanti ricordi, non pensa quasi più a sua madre, non pensa al prima in generale e va bene così, non c'è più nessuno da ricordare, è rimasta soltanto la polvere.

Il giorno in cui apre la porta di casa allo scocciatore di turno (sarà meglio che sia qualcosa d'importante perché ha del bourbon da finire e delle fotografie da bruciare) e il mondo gli crolla addosso è un mattino argentato di fine aprile che non ha assolutamente niente di differente da tutti i mattini di fine aprile di centosettant'anni d'esistenza – quando spalanca sbuffando il portone ha già una frecciata pronta a scivolargli dalle labbra, poi vede e non dice nulla di tutto quello che aveva pensato, non dice nulla e basta perché è un maledetto mattino d'aprile che è completamente diverso da tutti gli altri e una delle sue poche certezze è appena collassata su se stessa, così, tutto d'un colpo (per un attimo gli sembra di non riuscire nemmeno a respirare – figurarsi parlare, agire, pensare –, ma poi l'aria esce di botto dai polmoni e non sa se quel verso strozzato è un nome o qualcosa di meno specifico – una parola semplice, una sola parola).

Il bicchiere gli cade di mano senza che quasi se ne renda conto – non fa nessuno di quei gesti che ci si potrebbe aspettare, non balbetta, non piange, non si lancia come un pazzo nel suo abbraccio né prova a toccarla; non pensa di essere morto o che qualcuno si stia divertendo a giocare con tutti i possibili aldilà.

Quando muove un impercettibile passo in avanti sente il vetro scricchiolare sotto la suola delle scarpe e quella quiete agitata, quel loro studiarsi da vicino, sembra ancora più pesante (ma del resto cosa potrebbero dirsi? Cosa dovrebbe fare? Riesce a malapena ad elaborare il fatto che lei sia lì, che ci sia davvero – eppure il suo odore è reale e anche se tutto questo fa a pugni con lei come la conosceva, come credeva di conoscerla, e con tutto quello che ha creduto dal milleottocentoquarantotto a questa parte, è così e dev'esserci una spiegazione) - e allora pare tornare in sé e ignora i cocci trasparenti sul pavimento, e la prima cosa che le dice dopo centosessantasei anni non è “mamma” né “madre” (non l'ha mai chiamata così, nemmeno da bambino, perché lei l'aveva sempre odiato), e neppure “ti voglio bene” o “non sei morta” (non è nessuna di quelle cose che potrebbero essere considerate parte di una reazione normale – per quanto la situazione in sé possa essere definita normale, perché non è come ritrovare una madre naturale o incontrarsi per la prima volta dopo vent'anni, o fare pace dopo tanto tempo di silenzio; è imbattersi in un volto quasi dimenticato sulla porta di casa dopo un secolo e mezzo, il volto di qualcuno che doveva essere umano e che ha mentito e che forse sarebbe stato perdonato se ci fosse stato prima, quando avrebbe potuto, quando avrebbe dovuto parlare perché chi doveva era ormai in grado di capire e chi non ne aveva bisogno era morto).

«E così sei una bugiarda.»

 

Elizabeth Salvatore, ora, rimane ferma sulla soglia, il mento orgogliosamente sollevato e la postura rigida – gli sembra di vederla ancora con un corpetto dipinto addosso, tanto stretto da impedirle di respirare (ricorda che quando qualcuno – non sa più chi, adesso – gli aveva spiegato – in una notte di temporale, alla luce fragile di una candela che si rifletteva danzante nelle sue iridi lucide – che sua madre era morta tossendo sangue, aveva dato la colpa alle sue serve e ai suoi corsetti soffocanti, a quelle gabbie che le avevano rubato il fiato e non gliel'avevano più restituito).

Ha i capelli raccolti in una crocchia disordinata, sfatta – qualche boccolo sfuggito all'elastico le sfiora le guance, esattamente come le succedeva con la retina per lo chignon, sotto cappelli e nastri azzurri, nei giorni d'estate.
Sono vecchi dettagli, neppure abbastanza definiti da essere ricordi – riaffiorano dall'inconscio e gli invadono la mente con un senso di nostalgia crudele che gli fa male quasi fisicamente.

Piega la testa, ma non smette di guardarlo, come se volesse imprimersi i suoi lineamenti nella memoria – quando parla e la sua voce riporta indietro istanti nascosti e risate antiche può quasi sentire quel suo cuore fermo, quel cuore inutile, cominciare a sanguinare.

«Ci sono... tante cose da spiegare. Troppe. Non posso farlo sulla porta.» si schiarisce la voce e chiude gli occhi – occhi tanto simili ai suoi che gli pare di osservarsi allo specchio –, in attesa di una risposta, di un cenno, di qualsiasi particolare che possa, solo momentaneamente, assolverla.

Una parte di lui vuole credere che si tratti solamente di un sogno sottilmente ingannevole, di una fantasia sfuggente – vuole chiudere quella porta e sapere che lei non è mai stata lì, lei è morta quel giorno di maggio come nella sua realtà è sempre stato.
Un'altra vuole lasciarla entrare, farla sedere, ascoltare – vuole comprendere e forse anche far sì che rimanga, o forse no (perché, in fondo, sotto lo stupore e la sofferenza improvvisa, già avverte la rabbia marchiargli le vene – perché non è venuta da lui prima di adesso? Perché ora? In centosessantasei anni non ha mai avuto il tempo di informarsi sulle vite dei suoi figli, di raggiungerli, di spiegare?).

L'ultima, invece, vuole abbracciarla e dimenticare, anche se non è mai stato bravo a perdonare, mai del tutto – anche se non è qualcosa che potrebbe sopportare a lungo, quella parte di lui vorrebbe un'illusione.

Esita.

Poi si scosta, lei alza lo sguardo e sembra volergli dire qualcosa – non lo fa, infine.
Si limita a fare un passo ed entrare nella breve anticamera, guardandosi intorno – Damon richiude il portone e rimane qualche secondo fermo così, ad ascoltare l'eco quasi inudibile dello sgretolarsi dei frammenti di vetro.

Lei si è già seduta, quando la raggiunge – mantiene le distanze, istintivamente, e si accomoda sull'altro divano, il camino che li osserva e la cenere che odora di passato.

 

Elizabeth attende, tentenna – cerca un inizio, una fine.
Incrina le labbra in un'imitazione di sorriso, suo figlio, il suo angelo – il suo piccolo Damon è cresciuto, e lei non c'è stata.

È un uomo fatto, quello che la scruta a braccia conserte, in tensione, come a proteggersi, così vicino eppure così lontano – un uomo meraviglioso.

Spera che sia felice – spera che entrambi, lui e suo fratello (Stefan nemmeno la rammenta – aveva un anno quando se n'è andata, e aveva appena cominciato a camminare, gli occhi verdi così limpidi e così tremendamente sinceri), siano felici, ma nella piega della sua bocca legge amarezza e nella linea delle sue spalle sfinimento, e ha l'impressione che non tutto derivi da lei; sono sensazioni che hanno scavato solchi sulla sua pelle, profondi, persistenti.

Inspira, e quando infine si decide a parlare il suo tono è un mormorare attento, misurato.

«Questo – tutto questo – non è stato per un capriccio.» si tortura le mani, le dita lunghe che si torcono nervosamente, e in questo momento non ha più paura di guardarlo in viso – ci sono troppe condizioni da dettare, troppi fili da ricucire «Ero malata. Tisi, dicevano. Sarei morta di lì a poco, dicevano – avrei lasciato due figli così piccoli. Dispiaceva loro così tanto, questa crudeltà, dicevano.» lo dicevano i medici, i parenti, gli amici di famiglia – le domestiche, sottovoce, credendo che non le udisse.

Damon è ancora immobile, duro, una muraglia impenetrabile di imperturbabilità – eppure avverte, in qualche modo, che non è tranquillo come vuole darle a vedere.
Continua, sempre sussurrando, sempre lasciandogli la possibilità di interromperla, di andarsene – cacciarla, se vorrà.

«Non so chi fu a farlo – ero costretta a letto, nelle ultime fasi della malattia, quasi sempre incosciente. Giuseppe...» un'incertezza, un tremore nel suo timbro, le parole che non escono quando vede la mascella di lui indurirsi in una reazione quasi involontaria «... sai quanto odiava i vampiri. Lo scoprì solo dopo, quando mi vide – aveva organizzato tutto Anaïs. La ricordi, Anaïs*?» lui scuote il capo, le labbra strette in una linea fredda – e una volta di più le fa male, ma continua perché deve spiegare. Lo deve a loro, a lui «Era la tua nannie, l'unica famiglia che mi era stato concesso portare con me, dalla Francia.» Elizabeth sorride appena, di un sorriso familiare che eppure è solo un'ombra di quello che è stato.

Lui non rammenta quasi più nulla della malattia – se volesse davvero, probabilmente gli sovverrebbe qualche vaga reminiscenza di ore passate seduto davanti alla sua porta, il corridoio che si riempiva di ombre mentre calava la sera.

Lei getta il capo all'indietro, sciogliendo i capelli in un gesto infinitamente stanco, le ciocche che le ricadono ondulate lungo la schiena. Tiene le palpebre serrate, respirando piano – la vede deglutire, lentamente, faticosamente.
Ingoia la voglia di stringerlo a sé, il bisogno di baciargli la fronte – di accarezzargli il viso e di farsi raccontare, a sua volta, quel che non è riuscita a scoprire.

«Anaïs credeva da sempre alle leggende di Mystic Falls – non mi rivelò mai come aveva fatto a trovare qualcuno disposto a trasformarmi, né come l'aveva convinto o dove avesse scovato la strega che fece l'incantesimo per il ciondolo diurno. E Giuseppe – Giuseppe non ebbe il coraggio di uccidermi, dopo.» l'aveva sposato quando aveva diciassette anni – una bambina, direbbero oggi. Quasi una zitella, avevano detto allora. Lui era più grande, non di molto – cinque anni e qualche mese, poteva andarle molto peggio.

Era stato un padre severo – ingiusto, la maggior parte delle volte. Ma l'aveva amata e anche adesso non può dimenticare il suo sguardo quando l'aveva lasciata libera, nonostante stesse stringendo un paletto fra le dita e lei fosse ormai l'incarnazione di tutto quel che aveva giurato di distruggere, le labbra ancora macchiate di rosso.

Le aveva fatto promettere di non tornare, mai più – di allontanarsi da quella che era diventata casa e andare via, il più lontano possibile dai suoi figli e da lui (lui che era poi stato egoisticamente infuriato con lei, tanto da farlo quasi impazzire, tanto che probabilmente era morto convinto che lei fosse spirata quel giorno di maggio – che la bara sotto la sua lapide fosse piena).

E lei aveva accettato – era uscita dal cancello di Villa Veritas in una notte calda e senza nuvole, la gola scorticata dalla sete, l'odore delle rose nelle narici e il terrore a straziarle il petto con gli artigli di un rapace.

Era scappata – scappata per tornare, quando sarebbero stati abbastanza grandi da comprendere, abbastanza adulti da realizzare cosa volesse dire amare qualcuno tanto da rassegnarsi a osservarlo da lontano pur di non perdere il lieve contatto che rimaneva nei ricordi.

Un giorno – si ripeteva, avvolta in un mantello scuro, mentre trottava verso Richmond cercando di contenere l'arsura e, al contempo, di calmare il cavallo, agitato all'averla in groppa, così estranea e pericolosa –, un giorno li avrebbe rivisti entrambi e non avrebbe preteso che capissero. Ma almeno avrebbe tentato.
Poi li avrebbe lasciati a vivere le loro vite – vite felicemente umane, vite piene – e lei, in qualche modo, sarebbe morta, esattamente come avrebbe dovuto essere.

Solo che tutto era precipitato – era arrivata Katherine Pierce, mentre lei ancora era lontana, come una codarda (si morde le labbra quasi fino a farle sanguinare, l'improvviso disgusto per quell'intima paura di un rifiuto che le aveva impedito di essere lì – una rabbia verso il suo stesso essere che l'aveva assalita più volte di quante potesse contare, durante i decenni, e che ancora adesso le rivolta lo stomaco e sa di non meritare nemmeno il tempo che lui sta concedendole, sa di essere stata egoista a palesarsi solamente ora, ma almeno una volta, solo una volta, desiderava vedere l'uomo che suo figlio è diventato; e ne è orgogliosa, così profondamente, dolorosamente orgogliosa), e loro erano morti ed erano tornati, e lei era arrivata un giorno a casa e aveva trovato la villa in mano a sconosciuti e tre incisioni recenti nella cripta dei Salvatore.

Quanti anni aveva impiegato a scoprire che loro erano vivi, quanti a trovarli, quanti a cercare di ricostruire.
Riapre gli occhi e adesso Damon ha la fronte aggrottata e qualcosa, in fondo alle iridi, che non sa cogliere fino in fondo – potrebbe essere qualunque momento, qualsiasi fugace pensiero.

«Non avrei mai voluto lasciarvi – lasciarti, Damon. È stato quanto di più difficile io abbia mai fatto – ma non potevo rimanere, non potevo

 

Non riesce più nemmeno a catalogare le sue emozioni – ha rinunciato a tentare di dare un senso al flusso scostante di informazioni che gli attraversa le vene, e l'unico dettaglio che importa è mantenere una facciata (eppure c'è ancora qualcosa che riconosce – forse perché ha imparato a conviverci da così tanti anni, forse perché l'ha provato e l'ha fatto provare in ugual modo, ma il tradimento brucia come cera bollente).

Dai recessi della memoria sono ricomparse altre immagini, sempre più sfocate – non sa più quali sono reali (fotogrammi non a fuoco di un'altra vita, una camicia bianca macchiata di lamponi, la corsa elegante di una gatta candida – il volto di lei illuminato dalla fiamma di una candela, incorniciato da un cappuccio scuro e la sua pelle che era così fredda mentre gli sfiorava le guance).

Sputa parole velenose – parole di cui forse si sarebbe pentito, di cui forse si pentirà.
E fa male la consapevolezza di non valere nemmeno un saluto, se non dopo un secolo e mezzo, per chissà quale motivo – oops, giusto, a Mystic Falls ho due figli.

Il pensiero che potesse non sapere non lo sfiora nemmeno – non quando sa che Katherine la inseguiva Klaus in persona, non quando la notizia della sua permanenza in città e delle conseguenze era circolata, prima o poi, in tutto il mondo dei vampiri.

«Avresti potuto lasciarti morire – sarebbe stato più facile. Non avresti dovuto mentire, ti saresti anche risparmiata la fatica di un viaggio fin qui, dopo centosessantasei anni.» sostiene il suo sguardo con finta sicurezza, e la osserva ritrarsi come se l'avesse colpita, piegare il viso in una smorfia sofferente – come se in quella storia fosse lui ad avere torto, a dovere quanto meno delle scuse.

Anche fasulle, gli suggerisce un angolo di sé molto ben nascosto e altrettanto ben ignorato, andrebbe bene anche solo una recita per placare quello stupido, stupido senso d'abbandono.
Scuote la testa per scacciare l'idea, prepotentemente insinuatasi nel disastroso disordine della sua mente – Elizabeth si rannicchia su se stessa come per mantenere insieme i pezzi, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani fra i capelli.

Si chiede se stia piangendo – poi ripensa a quello che ricorda di lei (lei che era così forte, così viva – lei che era così tremendamente provocatoria nei suoi piccoli screzi con il resto dei borghesi, lei che rideva a voce troppo alta e lei a cui non importava poi troppo se la sua gonna si sporcava d'erba o se i nastri le si scioglievano dalle trecce elaborate) e nonostante i secoli e il rancore e la rabbia, sa che nessuno dei due verserà lacrime, quel giorno.

Eppure la voce le trema, nonostante tutto – come non aveva tremato la sua.

«Non mi aspetto che tu mi perdoni – non sono venuta qui per questo. Non lo merito, né te lo domando.» il respiro si spezza appena, tanto leggero che per un momento crede d'averlo immaginato – l'espressione di lei sfocia in un incrinarsi delicato di labbra, un qualcosa che non è un sorriso né nient'altro di definibile «Eppure avevo bisogno di vederti per come sei ora. Non sei più il mio ometto, non sei il bambino che giocava alla lotta in giardino e si rincorreva con i cani, che si aggrappava all'orlo dei miei abiti per non perdersi in città. Sei cresciuto – sei un uomo, un uomo stupendo, e so che in fondo il mio angelo è ancora lì.» lui la guarda con quegli occhi così uguali ai suoi e per un attimo potrebbe persino illudersi d'avere visto una luce brillare per lei.

Ma è solo un attimo.

Si alza in piedi e, per quanto cauta, gli si avvicina, piano – quando si china a baciargli la fronte, indugiando, e passando le dita in una carezza veloce fra i suoi capelli, lui rimane fermo, rigido, una statua.
Mormora sulla sua pelle, reprimendo l'istintivo impulso ad abbracciarlo – non glielo permetterebbe, lo sa.

«Sei, e sarai, troppo buono, Damon. Lo sei sempre stato. Ma non cambiare mai, qualsiasi sia la tua situazione – hai già sofferto e soffrirai ancora, e ancora, ma perderai solo quando permetterai che ti cambino dentro.» non lo afferma senza cognizione di causa – nonostante ogni altra cosa, è sua madre e sa, vede, comprende.

E lui non saprà degli anni che ha passato a cercare – a proteggere, per quel che poteva, e a nascondersi dietro gli alberi per osservarli crescere.

L'ultimo regalo che può fargli è quello di una manciata di parole e un paio di respiri che lui odierà quanto li ha odiati lei in passato, così miseramente inutili e così umanamente veri, che forse non avranno senso alle sue orecchie, troppo rapidi mentre in un secondo si chiude la porta alle spalle.

«Ti voglio bene

 

Damon Salvatore rimane perfettamente immobile, fissando un punto indefinito del salotto senza vedere realmente – la situazione è così assurdamente irreale che pensa di essersi appena svegliato da un sogno da ubriaco, o magari di stare ancora dormendo.

Non sa cosa provare – cosa sentire.

È diviso fra la sensazione lacerante di averla lasciata scivolare via di nuovo e il sentore di avere fatto la cosa giusta – eppure non ha anche lui mentito per il bene di chi amava (di chi ama)?

Non è stato l'uomo che lei sembrava credere che fosse – non è migliore di lei, né più né meno.

Avrebbe dovuto dirglielo – avrebbe dovuto raccontarle cose e parlarle di ricordi, e forse sarebbe andata in modo diverso da quella giostra troppo veloce di sensi di colpa e pugni stretti sulla stoffa.
Ma anche questo è passato, ormai – sa che non la rivedrà più, stavolta davvero, davvero per sempre.

Forse si terrà semplicemente lontana, forse si lascerà morire, in fondo – l'amarezza gli solletica il fondo della gola col sapore delle lacrime, ed è solo un altro rimpianto, troppo fresco per non essere doloroso.

Il rumore della porta che si apre lo strappa improvvisamente dal vortice confuso di ricordi e frammenti di presente – Elena lo chiama e non riesce a fare meno male.
«Damon? Ho visto una donna uscire di corsa da qui – una vampira. Chi era – sempre se posso chiedere?» il tono stizzito lo fa quasi – quasi – sorridere. Non lo fa – le risponde, ma non sa nemmeno se l'ha udito.

«Nessuno... non era nessuno.» solo il passato.


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* tributo alla cara, cara, cara meiousetsuna e a quella meraviglia che è “Farewell and adieu”. E se non l'avete fatto, correte a leggerla. Perché sì, vi farà piangere come delle disperate ma è una OS dannatamente spettacolare.
E poi sì, va beh, ho sempre adorato questo nome. Lo trovo dolcissimo e molto musicale :)

   
 
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