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Autore: TangerGin    26/04/2014    1 recensioni
E allora questo girotondo di parole dette, che ne celano di più profonde ma troppo spaventose da pronunciare o da scrivere, loro due lo continuano, nonostante a Ralph inizi a far male la testa per tutto quel vorticare intorno al non detto, e a Martin viene quasi la nausea da quanto si sente saturo di emozioni e paura.
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Domenica.

 

I chiavistelli tengono ben ancorate le pesanti porte in legno segnato dal tempo, laccato di bianco verso l’esterno.
Il gesto meccanico ed abile con cui Ralph riesce a sganciarli, senza far alcun rumore, è stata la prima cosa che Martin ha notato di lui. Sono quelle dita lunghe ed affusolate, che non noteresti mai perché di Ralph noti prima gli occhi, contornati da folte ciglia, e quei capelli lunghi, tenuti composti dall’elastico, e quelle gambe che non finiscono mai.
Ma Martin ha notato le mani, per prima cosa.
Era il suo primo giorno là, ed era anche il suo compleanno (e ventun’anni si compiono una volta sola), aveva fumato tre sigarette prima di avere il coraggio di entrare e poi aveva la gola che bruciava e chiedeva pietà. C’era stata Angelina che di lui non voleva occuparsi – o forse non poteva, ma Martin si sente sempre di troppo – e allora c’era stato Ralph con quel sorriso che l’aveva accompagnato in giro. “Verso le otto apriamo queste porte. Poi chi sta al cancello di platea deve occuparsi dei biglietti, e tutto il resto” e Martin non aveva avuto il coraggio di chiedergli cosa fosse tutto il resto ed era stato zitto, e dondolava la testa in su e in giù, come un cagnolino ammaestrato. E forse è stato da quel dondolare che è nato tutto, ma né Martin né Ralph ancora lo avevano capito. Poi c’era stato il giro per i palchi, in galleria, e al guardaroba e alla fine Martin aveva le idee talmente confuse che una quarta sigaretta se la sarebbe voluta fumare molto volentieri.
 
Ralph cammina veloce, e forse per questo è molto bravo in quello che fa. Ti spara sorrisi che sembrano sinceri, ti accompagna in modo educato al posto e “Buona serata” e allora tutte le vecchiette della domenica pomeriggio sembrano impazzire per lui, ed in fondo a Ralph fa anche piacere. Perché Ralph ama piacere alle persone che non lo conoscono, gli piace quel lucchichio negli occhi della gente che gli fa capire che sì, lui è una brava persona. Nonostante tutto, nonostante suo padre, sua madre, quel cognome che gli sta troppo stretto e quegli sguardi che spesso lo giudicano per quello che è e per come appare.
Martin, invece, non riesce a stargli dietro. Non che Martin sia basso, anzi, ma lui ha i suoi tempi e le sue gambe rispettano i ritmi pacati che governano ogni suo gesto ed ogni suo pensiero, e dietro a Ralph, che trottola da una poltrona a un biglietto ad un palco no, non riesce proprio a starci. E forse è per questo che sono due settimane che è addetto al guardaroba ma gli va anche bene così. Ci mette del metodo, in quell’attaccare i cappotti, sistemare ombrelli e borsette. C’è anche il brivido della responsabilità e poi ci sono quelle mance che scappano dai signori più bonari e facoltosi.
Allora Martin cerca proprio di farselo piacere quel guardaroba, e sì, sono passate solo due settimane e quel lavoro è okay, ma il momento della giornata che preferisce è quando finisce il turno, e va col suo passo lemme verso lo spogliatoio. Probabilmente ancora non ha capito nemmeno lui che quello è il momento che preferisce, ma fatto sta che quando entra in quei tre metri quadrati di stanzino, senza finestre e con un aria ferma e stantia, l’unico odore che lui sente è quello prepotente dell’acqua di Colonia che Ralph indossa sempre con precisione: un goccio sul polso sinistro e uno dietro l’orecchio destro.
“Stasera non volevano più andarsene, dio quanto odio le scolaresche!” e quando Ralph parla ci imprime sempre quell’entusiasmo tipico di chi è cresciuto nel teatro, di chi sa che quello è il suo posto e là non vuole solo lavorarci, ma ci vuole vivere e anche morire.
Martin annuisce, forse aggiunge anche un “non dirlo a me, con tutti quei caschi nel guardaroba”, ma nel frattempo sono talmente tante le parole che non riesce a mettere in riga che allora sta zitto, mentre si infila i calzini di spugna (e che imbarazzo) e con la coda dell’occhio osserva la linea della schiena nuda, impudica e sfacciata di Ralph.
Ralph, intanto, continua a parlare.
Perché lui, a differenza di Martin, non si fa tanti problemi e le sue, di parole, magari non avranno troppo senso, ma lui le lascia fluire, perché quel Martin un po’ gli piace, con i suoi calzini di spugna, i suoi occhi bassi e quel senso di ansia costante che lo circonda. Gli piace la sua insicurezza e gli piacciono i dubbi lasciati in bilico dai suoi silenzi, e magari in tutto ciò vorrebbe anche conoscerlo meglio, ma non ha il tempo. Perché c’è il lavoro ogni sera e le lezioni di dizione ogni mattina, e allora chi ce l’ha il tempo per pensare agli occhi grandi del nuovo arrivato?
 
 
Martin non si è mai interessato a quel mondo. Si è ritrovato là, a lavorare in quel vecchio teatro, perché ormai le aveva provate tutte. Ed i soldi scarseggiano, e c’è bisogno anche di quelli, purtroppo – o per fortuna. Forse i teatri nemmeno gli piacciono così tanto, con tutta quella austerità forzata, quei rituali impeccabili da  dover seguire, quei numeri pari e dispari da ricordare, quelle minuzie che se ti sfuggono allora sei fregato.
Però adesso è passato un mese, e Martin ha cominciato anche ad ingranare: ha imparato ad accettare le stranezze degli spettatori, adesso sa che la domenica è il giorno peggiore, sa che il bagno degli uomini è dopo le scale sulla sinistra e quello delle donne vicino ai palchi di destra. Sa che deve tenere le porte aperte durante l’intervallo, ma le tende devono restare chiuse.
E poi ha iniziato anche a capire come funzionano i suoi colleghi.
Sa che Claire il venerdì ha sempre il giorno libero perché deve prendere suo figlio dall’asilo e Claire ha solo ventun’anni come lui. Sa che Adele sta per laurearsi, ed è per questo che ha sempre quel grande libro dietro, che legge durante le pause e ripete da sola, a labbra socchiuse. Sa che Joanna controlla sempre il cellulare perché ha un secondo lavoro al bed and breakfast vicino alla stazione. Poi sa che Manny ha imparato lo spagnolo perché ha vissuto per due anni a Valencia e sa anche che Brenda ha una cotta stratosferica per Manny, ma lui mica l’ha capito, o forse sì e fa finta di non capire, perché poi la abbraccia e legge gli stessi libri di Brenda; allora Martin sorride, quando li vede parlottare fuori dalla porta sul retro, mentre si smezzano una sigaretta, perché è quel parlottare tipico di chi ha troppa paura per andare avanti, ma non ha nemmeno voglia di tirarsi indietro.
Quel parlottare che poi è lo stesso che lui si ritrova ad affrontare ogni sera, quando esce e c’è già Ralph fuori che lo aspetta. Perché Ralph cammina veloce e fa velocemente anche tutto il resto.
Allora c’è Ralph che aspetta fuori e sorride con la sigaretta spenta tra le labbra, mentre Martin timbra l’uscita di fine turno, e Martin lo sa che adesso ci sarà quella paglia che oscillerà tra la bocca di Ralph e la sua, e sarà condita da parole sulla serata, che poi si uniranno a parole sulla giornata, e poi si aggiungerà una seconda sigaretta e loro si saranno già spostati a sedere sul cofano della piccola macchina gialla di Ralph, e quelle parole saranno diventate più profonde.
 
Ralph non vorrebbe ritrovarsi in quella posizione scomoda, ogni sera, perché gli sono bastate quelle due cene a panini, consumate velocemente tra il turno pomeridiano e quello serale per capire che, oltre ai calzini di spugna e oltre all’ansia, Martin è anche molto altro, forse fin troppo altro.
Martin si nasconde dietro a quell’apparente timidezza per non mostrare un terrore costante nei confronti del futuro, e Ralph ha capito che è lo stesso tipo di terrore che tiene lo sveglio ogni notte solo che, invece della timidezza, lui utilizza parole ed umorismo sferzante.
“Perché lavorare in un posto come questo, se sei così timido?” gli chiede, senza usare mezzi termini, ché a Ralph le mezze misure non piacciono. Martin tiene gli occhi bassi, scrolla le spalle e “Non sono timido” risponde, “Solo che mi piace calibrare le parole. Mi piace pensarci, a quello che devo dire, e poi spesso finisce che non lo dico affatto” e gli passa quell’ultimo tiro di quella sigaretta troppo leggera per lui.
“Beh, ragazzo mio, essere timidi vuol dire proprio questo, e non te ne sto facendo mica una colpa! È divertente. Sei divertente” e Martin si rende conto che quella è la prima volta che qualcuno lo ha mai etichettato così. Lui è sempre stato il tenebroso, il musone, quello che parla poco, il timido, l’emarginato e chi più ne ha più ne metta, ma nessuno ha mai trovato quel suo carattere divertente. E poi Martin è diffidente per natura, e allora ci pensa un po’ che magari Ralph lo sta pure prendendo in giro. A Martin non piace essere preso in giro, e glielo dice pure, chiaro e tondo.
Ralph sgrana quegli occhi troppo grandi, getta il mozzicone centrando le fessure del tombino al lato del marciapiede. “No che non ti prendo in giro. Mi diverti, mi piacciono i tuoi silenzi perché si vede che sono pensati, e allora mi diverto a indovinare cosa ci sarà mai dietro alle tue congetture e alle tue parole non dette. Sei divertente” lo riadisce una seconda volta, e Martin si sente il cuore un po’ più leggero, e anche i piedi e la testa sembrano riempirsi di elio. Ralph gli piace, ma non ha il coraggio di dirglielo, perché ci sono troppi intoppi di mezzo. C’è il contratto che tra poco finisce, c’è che Ralph sì, lo sta conoscendo, ma non così bene e allora esporsi è sempre un rischio, nonostante le dita della mano sinistra di Ralph siano sempre più vicine a quelle della sua mano destra, mentre sono appoggiati a quel cofano giallo.
 
 

È una domenica di festa, e Martin non lavora più in quel teatro da tre settimane.
 
Il suo contratto dopo due mesi e mezzo è finito, lui ha dovuto salutare Claire, Joanna, Adele, Manny e Brenda, Angelina e l’acqua di Colonia di Ralph che è intrisa nell’intonaco dello spogliatoio. Li ha salutati in una sera di primavera, una di quelle prime sere in cui puoi uscire senza cappotto ché fa abbastanza caldo da restare anche con la felpa. A Ralph le felpe di Martin piacciono, anche se le odia su tutte le altre persone, ma non ha il coraggio di dirglielo nemmeno mentre fumano quell’ultima sigaretta.
“Mi sono trovato bene” sussurra Martin contro il filtro giallo, ma Ralph è attento, e quelle parole le ha colte e sa che forse non volevano nemmeno scappare, dalla bocca di Martin e “Lo so” risponde Ralph, perché è vero, lo sa.
Lo sa che Martin è stato bene, dentro le mura di quel teatro, per quei due mesi e mezzo. Ha visto come sono cambiati i suoi occhi ed i suoi gesti, mentre i giorni passavano e lui si ambientava sempre di più. Ralph sa che Martin si è affezionato anche ai chiavistelli pesanti della porta di ingresso, e lo sa perché sono le stesse cose che ha provato lui, quando ha iniziato a lavorare là dentro. Ralph sa che quando lavori ogni giorno in un teatro come quello, alla fine finisci per innamorartene. Però mentre vede Martin allontanarsi sulla bicicletta rossa, con un sorriso piccolo, Ralph sa anche che potrà amare quel luogo fino alla morte, ma sa anche che adesso il grande lampadario in cristallo del foyer non illuminerà più come quando c’era anche Martin a dare luce all’atrio, con le sue risate improvvise e che ti spiazzano.
Ralph sa molte cose, ma ancora non ha capito che ci si innamora anche delle persone, nonostante lui non voglia, e cerchi di non farlo. Ralph vorrebbe non sentire quella scarica di spilli dritta in mezzo al petto, mentre il cigolio lontano dei raggi della bicicletta di Martin lo allontanano da lui, metro dopo metro. E l’idea di entrare a lavoro senza lui, il giorno seguente, gli fa mancare un po’ l’aria, allora prende un respiro profondo (come se potesse immagazzinarla, quell’aria che mancherà).
 
Sono passate queste tre settimane, ed è una domenica di festa.

Martin è passato a salutare i suoi ex colleghi quasi ogni sera, da quando non lavora più. “È vicino alla biblioteca dove vado a studiare” si giustifica, però tutti lo sanno che è là per un motivo, e allora se la ridono sotto i baffi, mentre Ralph esce dalla porta sul retro con la giacca della divisa già infilata ma i jeans stretti ancora addosso, per fumare quelle loro sigarette che temeva di non fumare più.
Ralph e Martin continuano a parlottare ma non avanzano. Ci sono i loro interessi comuni che tappano i buchi dei silenzi imbarazzati che si creano, talvolta, nelle loro conversazioni. Però, unita alla circostanza del momento, c’è anche un desiderio interrato di andare avanti, e forse lo stanno facendo, a piccoli passi. Perché c’è Martin che gli occhi, adesso, non li tiene più in basso ma dritti nel viso di Ralph; e c’è Ralph che ha imparato a smorzare i suoi eccessi di parole, andando incontro all’apparente calma dei gesti di Martin.
E a volte c’è Ralph che acchiappa il suo telefono, nel mezzo della notte, e manda un messaggio a Martin per dirgli che sì, forse aveva ragione lui su quell’album di Perfume Genius, è bello come aveva detto, e poi c’è Martin che non dorme quasi mai e allora risponde e stanno svegli a scriversi fino a che le rondini non iniziano ad accogliere i barlumi del mattino.
E allora questo girotondo di parole dette che ne celano di più profonde ma troppo spaventose da pronunciare o da scrivere loro due lo continuano, nonostante a Ralph inizi a far male la testa per tutto quel vorticare intorno al non detto, e a Martin viene quasi la nausea da quanto si sente saturo di emozioni e paura.
 
Ma insomma, è domenica, è festa, e Ralph si sente solo perché le feste ed i riposi sono per lui un obbligo che lo costringe a fare i conti con quella alta borghesia maligna di cui fa parte la sua famiglia. Deve indossare completi eleganti, spuntare la barba perché “così lunga sembri un senzatetto!” lo rimprovera sua madre, e lui alza gli occhi al cielo e conta i minuti che lo separano dalla fine di quella giornata.
Martin, intanto, è accucciato sulla lavatrice che tiene sul balcone, e guarda dei ragazzini giocare a calcio di sotto, nel cortile del suo condominio.
Da quando è andato a vivere da solo, in quel monolocale, ha capito che la vita in solitaria forse non fa per lui, nonostante da fuori possa apparire l’esatto contrario – con i suoi silenzi e compagnia bella. Perché ci sono le domeniche come quella, e lui vorrebbe solo stare a letto, ma da solo le lenzuola sono troppo fredde; o vorrebbe parlare, ma a farlo da solo sembrerebbe un matto, allora preferisce appollaiarsi là, sul balcone, a svampare sigarette, le sue coinquiline che non lo lasciano mai.
Osserva quei ragazzini, che avranno sì e no tredici anni, e ripensa ai suoi tredici anni: a quella contraddizione che iniziava a bussare in modo insistente, al terrore di accettare la propria essenza solo perché apparentemente diversa da ciò che gli avevano sempre insegnato come “normale”. Ma cosa è diverso, cosa è normale? E se lo domanda anche adesso, dopo otto anni. È così diverso il suo sangue che sembra ribollire quando vede in lontananza la sagoma di Ralph, e si raggela quando se ne va? E quello che c’è tra lui e Ralph come lo definiresti? È normale, o è diverso? O forse è semplicemente loro, e di nessun altro, e mentre guarda quei ragazzini che tirano calci ad un pallone sgonfio, allora capisce che non è nella normalità né nella diversità che deve cercare le risposte.
Le risposte stanno dietro alle ciglia folte di Ralph e stanno dietro alle parole che traballano, e Martin capisce che è arrivato il momento di farle smettere di traballare.
 
Il telefono nella tasca dei pantaloni di Ralph vibra contro il pacchetto di sigarette, e le sue dita lunghe ed affusolate lo cercano con distrazione: la monotonia delle chiacchiere vane di suo padre con quello che, forse, è un suo collega, lo hanno stordito a tal punto da renderlo quasi anestetizzato, addormentato.
È quando legge il nome di Martin sullo schermo ampio del cellulare che allora le sue fibre si rianimano, e i muscoli non possono far altro che accompagnare quell’impeto di ritrovata vita in un sorriso che dipinge il volto scarno di Ralph. “Scusate” sussurra a suo padre e collega, che non lo degnano di altro se non un cenno col capo, e scappa tra le persone eleganti raccolte in quella sala arredata in modo decisamente pacchiano.
 
Il punto è che adesso c’è Martin, fuori da quell’austero palazzo, e indossa i pantaloni della tuta e quel bomber marrone in velluto a coste, mentre Ralph è tremendamente bello, con quei pantaloni grigi intonati alla giacca, e la camicia abbottonata stretta e Martin sente che, anche stavolta, non riesce a mettere le parole una dietro l’altra nel modo giusto, proprio come quando si erano appena conosciuti e per lui Ralph era soltanto acqua di Colonia forte e sorrisoni di circostanza.
“Sai, hai presente come funzionano le persone? – chiede Martin, ma non si aspetta una risposta perché il suo discorso sta soltanto iniziando, e Ralph adesso ha imparato a lasciarlo parlare senza interromperlo – sì, ci facciamo tutti un po’ male a vincenda, se ci pensi. Hai mai incontrato qualcuno di cui poterti fidare, qualcuno che sì, potenzialmente lo sai che del male potrebbe fartelo, ma sai anche che non lo farà, non a te. Hai presente?” e Ralph lo sa cosa intende, anche se forse ancora non riesce a trovare il nesso che Martin sta seguendo, e allora annuisce e basta. “Sì, ecco. Alla fine è quello che ci rende umani, no? Il fatto di farci male a vicenda, magari anche senza cattiveria. Magari ci sono quelle parole di troppo che uno non pensa che possano ferire, e allora le dici lo stesso, o quei gesti che sono scomposti e alla fine fanno venire i lividi, anche se non vorresti. Ed è per questo che non parlo molto, e ci metto del tempo per, sì, per agire.”
Riprende fiato cercandolo nel fumo di quella sigaretta che sta divorando, mentre Ralph vorrebbe dirgli che lo sa già, ma ha imparato a tacere.
“Il punto è che so che tu non mi farai del male. So che le tue parole ed i tuoi gesti sono spesso eccessivi, ma so che non saranno letali, non per me. Ed è la prima volta che incontro qualcuno di così poco pericoloso, e allora non ho bisogno nemmeno di queste – e butta la cicca appena iniziata per terra – e non ho bisogno del silenzio, non con te” e a quel punto vorrebbe chiudere quella bocca che forse sta parlando troppo (o, per lo meno, sta di certo parlando più del solito), ma ci sono le labbra sorridenti e stranamente silenziose di Ralph che quella bocca non se la lasciano scappare.
E allora cosa c’è di diverso? Cosa c’è di normale? È solo una domenica di festa.


 
~
 
Alla fine una slash l'ho scritta anche io, olè.
Niente, non ho molto altro da aggiungere se non forse che ovviamente mi sono lasciata influenzare dal lavoro che ho fatto a teatro a inizio mese: i personaggi sono ispirati a persone reali, la storia è del tutto inventata.
Spero vi sia piaciuta, è una cazzatina da niente ma non ho molta ispirazione in questi giorni.
xx Gin~
   
 
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