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Autore: Rety    26/04/2014    1 recensioni
Racconto in prima persona. Ed è praticamente la versione in prosa di questa breve poesia:
Un giorno
Ci ritroveremo
Seduti al tavolino di un bar
Vuoto,
Soli noi due,
A parlarci di noi:
Spero, in quel momento,
Di scoprire un sacco di cose nuove
O di non aver più nulla da scoprire.
Genere: Fluff, Poesia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Un giorno
Ci ritroveremo
Seduti al tavolino di un bar
Vuoto,
Soli noi due,
A parlarci di noi:
Spero, in quel momento,
Di scoprire un sacco di cose nuove
O di non aver più nulla da scoprire.
 
E’ notte fonda ad Arles, è una fresca e timida notte di primavera. L’oscurità tinge con pennellate dense e omogenee il cielo terso, si estende dagli ultimi piani dei palazzi fino a terra lasciando intravedere soltanto alcuni pallidi bagliori provenienti da stanze da letto ancora sveglie. Alcune stelle e alcuni lampioni antichi splendono timidamente, evocando altri tempi, altre stagioni e solo adesso mi rendo conto, nel silenzio più buio, rotto controvoglia dai miei passi calmi, d’essere davanti a la terrazza del caffè di sera di Van Gogh, sono solo però, ed è tutto meno luminoso, tutto più nero, e non mi dispiace nemmeno; i tavolini fuori sono ancora gli stessi, ma non ci sono sedie. E’ notte fonda qui ad Arles, e il bar è ancora aperto, entro.
Soffuse note di piano si librano come ballerine a lezione nell’aria calda del locale, il lucido legno scuro che ricopre le pareti profuma d’arte, ci sono piccoli lumi ad ogni tavolo, ma sono tutti spenti, non c’è nessuno, solo i titolari, parecchie sedie sono sottosopra e tutto sembra per essere in procinto di andare a dormire, eppure vengo accolto da sorrisi gentili, occhietti vispi e qualche parola in un francese elegante e modesto allo stesso tempo.
Gioco con la barba sotto il mento che mi son fatto crescere, per evitare di toccarmi i capelli, per evitare di diventare calvo prima del tempo, aspetto di venir servito, ma non c’è fretta, non so neanche cosa ho ordinato di preciso, forse un caffè, o un tè, oppure una camomilla o qualcosa di alcolico, ma non c’è fretta.
Per fortuna il futuro mi è andato meglio di quanto prospettavo da ragazzo, quando volevo suicidarmi perché non sapevo cosa farmene della vita che, come un tappeto rosso, vedevo stendersi dinanzi a me, senza fotografi, né fans spiaccicati nelle transenne.
Il pianoforte suona ancora, chissà da dove, i ragazzi del bar sanno che posso aspettarli qua anche per tutta la notte, e continuano quindi a sistemare, lavare bicchieri, passare stracci e scope, eccetera, sapendo bene che a me non danno fastidio, anzi, credo di non voler mai vederli portarmi da bere.
Mocassini e giacca di velluto in tinta, la camicia sportiva, i capelli sbarazzini e il pizzetto: mi vedo riflesso nel vetro che dà sulla strada nera e mi stupisco perché sono finalmente come vorrei e dove, ed è notte e sono libero da ogni limite. Va tutto bene.
Disinvolto continuando a scrutarmi nel riflesso della vetrata intravedo camminare, un po’ ingobbita e frettolosa una sagoma snella, minuta e sinuosa, sta, in effetti, piovendo, non me ne ero nemmeno accorto, e adesso tu entri nel bar, ti sfili il cappuccio dell’impermeabile, ti sistemi i capelli, e, imbarazzata, senza neanche sederti, chiedi gentilmente un tè caldo, col latte.
Ancora con l’affanno, hai appeso l’impermeabile all’attaccapanni, hai appeso anche la giacca e sei rimasta con una camicia di lino color panna, che ti va pure un po’ larga, a cui adesso stai tirando pure su le maniche. Ancora non mi hai riconosciuto, non ti biasimo, anche perché anche io starei alla larga da un tizio seduto da solo in un bar alle tre del mattino che indossa gli occhiali da sole e si accarezza la faccia.
Quanto ti sei fatta bella. Di sicuro ti sei fatta anche una vita bella, oltre a un bell’aspetto, giacca di velluto e viaggi primaverili. Di sicuro sei diventata una persona importante, a scuola prendevi sempre i voti più alti, e te li meritavi sempre, perché studiavi, studiavi, studiavi e studiavi fino alla nausea, fino a non mangiare. Hai nel viso la stessa essenza, e che lo dico a fare, sei solo cresciuta un po’.  Hai ancora, negli occhi, lo stesso mare incontaminato, le stesse cristalline e limpide acque da barriera corallina, nel tuo iride, non sono state inquinate dal denso e viscoso petrolio mortifero della vita. Chissà dove hai imparato il francese. Chissà quanto tempo ancora potrò starmene qui a far scorrere pellicole su pellicole di amari e dolci ricordi prima che tu vada, dopo aver bevuto quel tè, via, senza ch’io abbia proferito parola, senza ch’io abbia nemmeno tentato.
Cosa faccio, cosa devo fare? Mi alzo? La chiamo? Facendo il suo nome o no? Cosa devo fare, cosa faccio, cosa faccio!”. La mia mente è presa d’assalto da punti interrogativi come dardi infuocati scoccati dagli archi in legno scuro e profumato e le pareti di questo diavolo di posto, così accogliente, mi fissano e bisbigliano e io non capisco più niente. Non posso lasciarla andare via, o meglio, non posso non farla restare.
Ma che? Che, che diavolo? ma che diavolo fa?” Tu accenni un sorriso genuino e ti sporgi leggermente in avanti con la testa, praticamente stai vedendo se sto sveglio, dormendo, pazzo o che cosa e lentamente ti avvicini e più ti avvicini e più sorridi e più sorridi e più sorrido, dentro però. “Non muoverò un muscolo finché non si sarà seduta di sua spontanea volontà”, mi dico. Pazzesco, non ci credo, hai sempre quel sorriso timido e curioso stampato in faccia e prendi una sedia dal tavolo vicino, con un veloce movimento di rotazione la poni nel giusto modo e con leggiadria e leggerezza ti siedi, come se nulla fosse. Stai per aprire bocca, tiri su il fiato e... arriva il ragazzo, dopo aver finito di ridersela col suo amico, con un vassoio, e dice:  
« Thè au lait? »
« A lei » rispondo subito. Poi prendi quasi con violenza la parola:
« Adesso stiamocene qui, e parliamo tutta la notte, poi ci tocchiamo le mani e tipo sorridiamo e poi guardiamo un po’ fuori, iniziamo a dire “che dici, ce ne andiamo?” solo perché non sappiamo più cosa dirci, o forse no. Sei pronto? »
« Sono pronto. »
Il sorriso più ispirato ch’io abbia mai vissuto e intessuto sul mio viso adesso è sul mio viso, e sono totalmente fuori di testa, a metà strada tra “che cazzo sta succedendo?” e “diavolo, sì!”.
« Come stai? »
Ma come “come stai?”, sto una favola, che domande sono? Cosa mai potrei risponderti? Non posso limitarmi a dire “bene,tu”. Facciamo il mio gioco adesso.
« Ma che occhi hai? Sul serio, che occhi hai? »
« Secondo te? Che occhi ho? »
« Io non so niente, lo sai. Io non ho mai saputo niente. »
« Sempre coerente tu, eh? Bravo. Alla fine che hai deciso? »
« Sempre coerente. Non ho deciso nulla. Sono partito. Ho fatto di tutto, o meglio, mi sono trovato a fare di tutto, e menomale, ti ricordi? Ti dissi che se fossi stato io a dover decidere che farne di me, mi sarei autodistrutto. Ho deciso di andarmene. Ho deciso di andarmene. E tu? Tu che hai fatto invece? »
« Non ti interessa. »
« Hai ragione. Mi conosci ancora, vedo. »
« Sì, anzi ti riconosco. » sorridi.
« Che ci fai qui? »
« E tu? » sorridi.
« Non lo so... »
« Ecco. »
« Sì, però tu... »
« Io cosa? » sorridi.
« Tu sai sempre tutto. Tu hai sempre saputo tutto. Tu puoi fare quel che vuoi... »
Abbassi lo sguardo: « io non so un cazzo. »
« Siamo in due. Siamo in due? »
« Sì, siamo due, siamo noi due, stasera » allunghi quella tua manina sottile destra verso di me, che giocherello col cucchiaino, lascio il cucchiaino, ti porgo due, tre dita, dolcemente, le afferri, strette, e intenerisci la voce:
« Hai le mani fredde? »
Alzo gli occhi, malinconico: « Ho il cuore piccolo »
Come li ho alzati così li abbasso, li pianto, come la bandiera degli Stati Uniti sulla Luna, di nuovo nei tuoi: sorrido, ingenuo, nonostante ora abbia la barba.
« Comunque lavoro con i libri. Le scrivi ancora le poesie? »
« Le poesie? Oh le poesie, sì. Te le scrivo ancora. E l’aurora non l’ho ancora vista, sai? »
« Un giorno ci andiamo, insieme, okay? »
« Me lo prometti? »
« Sì. »
« Che ore sono? »
« E’ ora, punto.»
« Bello. Meraviglioso. L’amore, l’amore. »
« Ti ricordi? Quella sera, parlammo dell’amore, della vita, del futuro. Ti ricordi? »
« Sì che mi ricordo, non dimentico niente. E tu? Tu te lo ricordi quello sguardo? Subito dopo L’infinito? Ti ricordi quando ci siamo seduti vicini e tu mi hai sfiorato il braccio e io, lentamente, quel braccio, lo avvicinavo? Ricordi Amsterdam nel tram? Tu mi dormivi addosso. E il treno di ritorno da Roma? Anche lì mi dormivi addosso. E a casa di Gianna, c’era la partita, ma era già finita, guardavamo Bar Sport, ti eri addormentata addosso a me, pure quella volta. Bello. Ricordi? Ricordi quella volta sul motorino? Tenevi la sinistra perché c’era il sole, stavamo per morire. Ricordi Firenze, sulla cupola, e in discoteca? E quella foto bellissima che ci siamo fatti al mio compleanno, te la ricordi? E il tè con il latte, quando me l’hai voluto fare assaggiare, e non m’è piaciuto? Eravamo a casa tua, in camera tua. E sul tuo letto, il film su Keats, te lo ricordi? Mi stavo addormentando io quella volta, però non dalla noia, dalla gioia. Galileo, Cicerone, Foscolo, Cervantes, Ariosto, Boccaccio, Dante, quelli te li ricordi, sicuro, e me li ricordo pur’io, li abbiamo studiati insieme. Ricordi?»
Imbarazzata, ti chiudi nelle tue spallucce, arrossisci pallida, ma in realtà te la stai godendo, dici che non sai che dire. Figurati che ne so io.
Silenzio.
Prendo solo adesso, per la prima volta, questo bicchiere. Era limonata. Buona, però acida, non potrei berla, comunque... sto bevendo di gusto e tu:
« E pensi ancora a me? »
« E penso sempre a te. »
« E che pensi? »
« E che ne so. »
« E che palle, non sai mai niente. »
« Non so mai niente. Che ne so, devo dirla? Mi fai stare bene, mi hai sempre fatto stare bene. E sono anni e anni e anni e ancora devo capire cos’altro, e ancora devo capire cosa sia. E penso sempre a te, e sono anni e anni che penso sempre a te e a te, te, te e ancora e sempre, capito? Eppure non ho desideri, pulsioni, non ho che bene, per te. Questo vogliono dire, tutti i miei “non lo so”, praticamente presenti in ogni mia risposta, ci sei tu nascosta. Penso sempre a te, eppure non ho motivo di farlo. Tutto qua. Credo. Tu a me ci pensi mai? »
« Non lo so. »
Silenzio.
Silenzio.
Silenzio.
« Non lo sai. »
« Non lo so. »
« Non lo sai. »
« Non lo... »
« Guarda che per me possiamo anche continuare in eterno. »
« Non è vero. »
« Hai ragione. »
Intanto il pianoforte, che suonava ancora, inizia a produrre note familiari, Ludovico Einaudi, Una Mattina, e io mi giro verso il suono, che proviene dalle mie spalle, e m’incanto, e poi mi giro, ti guardo con lo stesso sorriso del bambino che vede lo zucchero rosa filare. Probabilmente tu hai capito che è per la musica, e ricambi il sorriso: è lo stesso sorriso della mamma che tiene per mano il bambino e si fa convincere a comprarne un po’, nonostante le inesorabili mani e guance appiccicaticce che ne verranno fuori, e nonostante i capricci a pranzo. Un gesto di incondizionato amore.
« C’era un tizio, a Lubecca: ogni sera, verso le sette, entrava nella libreria, e suonava il pianoforte. Era probabilmente un barbone, aveva una sciarpa del colore che ti viene in mente se dico palude, una camicia a quadri, sui toni del blu, e un jeans colorato come l’asfalto, nato blu. Suonava, senza sedersi, in piedi, non era bravo, aveva mani rozze, tozze... »
« Il contrario delle tue. »
« ...e le iniziava sempre piano, come se dovesse capire quali tasti producessero determinati suoni, come se non avesse mai visto un piano, e suonava ogni giorno. Appena prendeva la mano, iniziava la magia, già te l’ho detto, non era preciso, era puro sentimento. Era come se la passione affluisse tutta a quelle dita, la passione per la vita, generando i suoni. Si muoveva, in una specie di peristalsi inversa esteriore, diventava onde, diventava vento, deserto, fango, pioggia, zampettava, annuiva, e non distoglieva mai gli occhi da quella tastiera, come se il mondo, la società, il resto, in quel momento, non importasse. Quando suonava, lo fissavo da lontano, immobile, cessando ogni mia attività, ogni giorno lasciava briciole metafisiche di sé, nell’aria di quella libreria, e in me. »
Lo so che non hai finito, prendo il bicchiere, quasi vuoto, e sorseggio, come per dire: “continua, ti ascolto.” Allora tu, tentennando, più lenta, quasi sussurrando, riprendi a parlare:
« Ecco, ti ho visto sai? »
« Quando? »
« Spesso. Ti ho visto, a scuola, in classe, in giro, quando capitava. Anche adesso, anche appena sono entrata qui dentro, ti vedo, ti ho visto, e solo ora ho capito: tu ti senti come mi sentivo io. »
« Ogni volta. »
« Assorto. »
« Completamente. »
« Completamente? »
« Solo quando ti legavi i capelli. »
Imbarazzata domandi: « E perché? »
Ancora più imbarazzato rispondo: « Vorrei vivere sulla tua nuca. »
« Tenero. »
« Già. »
Con l’altra mano, la sinistra, cominci a carezzare il dorso della stessa mano cui prima avevi afferrato le dita, dita che ancora stringevi. La mia mano destra invece mi regge il capo, il gomito poggiato quasi al centro del tavolino prepotentemente mi permette di starti più vicino mentre parli: così, la tua faccia occupa più spazio nel mio campo visivo. Evito di distrarmi. Evito di guardarmi attorno, che tanto è tutto fermo, e invece tu, dopo tutto questo tempo, potresti anche alzarti e andare via, anche adesso. E’ un continuo saltellar di pupille mie tra le pupille tue lucide e le tue labbra frenetiche, e poi le tue guance lisce, e i tuoi capelli fini, sempre puliti, sempre profumati, e tu, sempre profumata, e io, che “ti prego, ti prego, fai quella mossa per levarti i capelli dalla faccia che fanno tutte le donne tipo 'swish' che poi sposti uno tsunami d’aria e quindi mari di profumo e i miei sensi ridotti in macerie e assuefatti ed estromessi dal mondo, esiliati, esilarati, estasiati, eccetera, da te.”  Ma tu quella mossa non la fai mai. Sei incorruttibile. Una forza della natura.
« Che dici, ce ne andiamo? » ridi.
Rido anch’io, poi gelido: « No, mai. »
Mi volto per un istante: i camerieri, quei due  rimasti, sono visibilmente stanchi, non se la spassano più, hanno lavato anche bicchieri puliti e il loro francese è diventato fin troppo elegante, brutto segno.
« Va beh, ho cambiato idea, andiamocene, ci facciamo un giro. »
« Okay. » sorridi, sincera, felice. Felici.
   
 
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