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Autore: Clira    26/04/2014    9 recensioni
Una mattina che comincia come tante altre, anzi... peggio.
A chi non è mai capitato di svegliarsi in ritardo per andare a lavoro? Peccato che sia uno dei tuoi primi giorni da tirocinante in ospedale e arrivare in ritardo proprio all'inizio, soprattutto se sei un'allieva, non è proprio il massimo.
Poi una fitta improvvisa ti costringe a recarti al pronto soccorso... e non per lavorarci, ma come paziente.
Da quel momento, una serie di incontri casuali, cambia completamente la carte in tavola, trasformando un posto che prima ritenevi ostile, in uno che difficilmente riuscirai a dimenticare.
DAL TESTO:
"«Allora dilla la verità: non riesci a stare lontana da qui, vero?».
«Veramente ero venuta a trovare una persona... ».
«Certo! Me».
«No! Una paziente che avete qui ricoverata!».
«Così mi ferisci».
«La sua sensibilità non è un mio problema, dottore»".
Ringrazio in anticipo le fantastiche ragazze che mi hanno spinta a trasformare le "Cronache" da semplici appuntamenti su Facebook ad una vera e propria FF.
Aspetto con ansia tutti i vostri commenti!
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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CAPITOLO 2

”VITA DI REPARTO”







«No, aspetti! Perché stiamo parlando di ricovero?» chiedo tirandomi su di colpo e facendomi male da sola.
Il dottor Costa mi viene subito vicino, mi mette una mano sulla schiena e l’altra sul braccio.
«Attenta, ragazza. Ci manca solo ti faccia altri danni»
«Altri danni? Magari nel frattempo può parlarmi di quelli che avete già trovato… »
Lui ride.
«Lo sai che hai proprio un bel caratterino?»
«Sì, sa com’è. Dipende dalla giornata e questa è cominciata molto male»
Il chirurgo sorride di nuovo.
«Beh, l’ipotesi più probabile è che tu abbia un attacco di appendicite, anche se sarebbe un po’ strano»
«Perché?»
«Studi infermieristica. Dimmelo tu»
“Ma guarda questo” penso irritata. Sono qui agonizzante e lui si mette pure a giocare a “indovina la diagnosi”.
«Cos’è l’appendicite?» mi chiede, per indirizzarmi nella giusta via.
«Beh, tutto ciò che finisce per “ite”, è un’infiammazione»
«Esatto. E quali sono segni e sintomi di un’infiammazione?»
«Dolore, gonfiore, calore. Ho avuto un attacco di appendicite anni fa, ricordo di aver vomitato sette volte in tipo… dieci minuti».
«Le hai anche contate? Poetico… » commenta con il chiaro intento di prendermi in giro.
Gli lancio un’occhiata assassina e “Il Dottor-Segni-E-Sintomi” ridacchia, aiutandomi poi a sistemarmi nuovamente sulla sedia a rotelle.
«Ti rimandiamo giù in pronto soccorso, ok? Appena si libera unletto, torni qui»
«Va bene»
«A più tardi, allora»
Così, aiutata dall’operatrice, esco dall’ambulatorio. Le chiedo se posso avere un telefono per avvertire la tutor, dato che Daniele non mi ha fatto sapere nulla e, quando compare poco dopo, dice di non averla trovata nel suo studio, al sesto piano.
«Va bene, Dan, grazie lo stesso»
«Di nulla, Gin. Sei stata visitata da Costa? Che cosa ha detto?»
«Probabilmente si tratta di appendicite. Anche se ha detto che è strano perché non ho febbre e ho avuto solo un po’ di nausea»
«Cavolo… ma quindi ti operano?»
«Non lo so. Mi ricoverano oggi appena si libera un letto e poi mi faranno altri esami per capire se si tratta davvero d’appendicite»
«Che sfiga, però. Proprio durante il tirocinio»
«Tesoro… noi ci siamo incontrati solo a ottobre, ma, se ci conoscessimo da più tempo, sapresti che io e la sfiga andiamo a braccetto. Ormai mi sono messa il cuore in pace»
Daniele si mette a ridere, poi mi abbraccia piano.
«Mi raccomando, eh»
«Certo»
Non appena Daniele mi lascia sola, provo a chiamare la tutor, ma il telefono squilla a vuoto e quando provo a chiamare il centralino mi mettono in contatto con la tutor del secondo anno.
Che palle.
Alla fine ci rinuncio: restituisco il telefono all’operatrice e vengo portata al primo piano da un’ausiliaria.
Ed eccomi di nuovo in pronto soccorso.
Consegno il referto scritto dal chirurgo carino al medico che mi aveva vista quella mattina e lui dice ad un’infermiera di portarmi in astanteria, una stanza in cui solitamente sistemano i pazienti in attesa di essere trasferiti nei vari reparti, finché non sarò ricoverata.
Lì trovo ancora Giovanni: il tirocinante del terzo anno conosciuto questa mattina.
«Ehi, allora! Che ti hanno detto in chirurgia? Se sei qui ti ricovereranno, immagino»
«Sì»
Il mio tono è tetro.
«Mi dispiace. Va beh dai, in chirurgia sono bravi»
“E fighi”, aggiungo mentalmente.
«Grazie per il supporto morale»
«È il nostro lavoro, no?»
Sospiro in segno di assenso.
«Hai bisogno di qualcosa? Come va il dolore? Ti faccio un altro Perfalgan?»
«Sì, credo sia meglio» dice l’infermiera che mi ha portata lì.
Giovanni apre l’armadio dei farmaci iniettabili, prende un comune flacone di soluzione fisiologica da 500cc e un flaconcino più piccolo con l’antidolorifico. La fisiologica è usata praticamente per ogni cosa, consiste semplicemente in acqua purificata con all’interno cloruro di sodio. In altre parole… sale. Dopodiché collega il tubicino della flebo (deflussore), all’accesso venoso che mi hanno preso quella mattina. Prima mi mette in circolo il farmaco e, quando quello finisce, la fisiologica.
Telefono di nuovo, ma mi mettono un’altra volta in contatto con la tutor del secondo anno.
A questo punto, dato che non riesco a contattare la mia, suppongo sia in giro per i vari reparti, racconto a lei che cosa è successo e le chiedo di riferirlo a Maria non appena possibile.
Intanto ho un altro problema: il mio cellulare. dato che non posso continuare a usare quello del pronto soccorso, devo trovare un modo per riaverlo.
Allora, c’è da premettere che, durante il periodo di tirocinio, alloggio da un’infermiera e so per certo che adesso è a casa. La fregatura? Ha smontato notte, quindi spero solo di non svegliarla.
Come previsto infatti, risponde la madre ottantenne, che abita nell’appartamento sotto di noi. Le spiego con calma la situazione, chiedendole se può dire a sua figlia di portarmi il telefono non appena si sarà svegliata. Per fortuna in macchina ci si impiega appena un minuto per arrivare all’ospedale.
“E anche questa è fatta”.
A questo punto non mi resta che attendere e vedere come andranno le cose.
Le ore passano lentamente. Non ho un libro da leggere, non ho il cellulare e non ho nemmeno il lettore mp3. Potrei quasi mettermi a contare tutte le gocce che cadono dal flacone della fisiologica nel deflussore.
Grazie al cielo, a un certo punto la porta della stanzetta in cui mi hanno sistemato si apre ed entra Maria: la mia tutor.
Come sempre quando è in ospedale, indossa un camice bianco, uguale a quello dei medici.
«Ginevra! Ma che cosa mi combini?»
«Eh, lo vorrei sapere anch’io»
Si avvicina al letto e mi accarezza la testa.
E pensare che quel giorno sarei dovuta tornare a casa. Abito ad un’ora di strada dall’ospedale dove svolgo il tirocinio e, nel fine settimana, torno a casa. Oggi è giovedì e sarei dovuta partire. E invece mi ricoverano, che meraviglia.
Non oso immaginare cosa diranno mia madre e il mio ragazzo quando li avvertirò.
«Hai bisogno di qualcosa?»
«No, grazie. Ho già tutto quello che mi serve e ho chiamato l’infermiera da cui sono in affitto chiedendole se può portarmi il telefono. Cioè… mi ha risposto sua madre, quindi me lo porterà quando Antonella si sveglia».
«Tu stai qui vicino, giusto?».
«Sì, dopo il ponte. Entrambe le figlie vivono all’estero, quindi mi ha affittato una delle stanze durante il periodo del tirocinio»
«Ho capito. E sei da sola?»
«Adesso sì. Le prime tre settimane abitavo con Miriam, poi però nel secondo periodo di tirocinio si è trasferita. A inizio giugno però, dovrebbe arrivare Beatrice»
«Ah, ho capito. Allora… raccontami che cosa è successo oggi» Mi trovo a spiegare nuovamente tutti i fatti di quella mattina. «Oh, caspita… allora dai, vediamo cosa ti dicono»
Il tono di Maria è sempre pacato. Secondo me è più una mamma che una vera professoressa. Ma d’altra parte ha prestato servizio per vent’anni in pediatria quindi, da una parte, capisco il perché.
«Senti, io devo andare a parlare con una caposala, ma più tardi torno, va bene?»
«D’accordo, grazie»
E così sono di nuovo sola. E il tempo passa in modo snervosamente lento. Si fa l’una, e io comincio ad avvertire la fame dato che non ho nemmeno fatto colazione perché ero in ritardo.
Quando ormai sono mortalmente annoiata e vicina alla disperazione, la porta si apre ed entra Antonella.
«Ma Ginevra! Che cos’è successo?»
E avanti con la solita nenia.
Le racconto tutto, poi mi porge il mio cellulare.
Finalmente. Ormai cominciavo seriamente a perdere le speranze. Adesso potrò chiamare mia madre.
Antonella mi tiene compagnia per un po’, finché non entra in stanza una mia compagna di corso e io mi chiedo quanto accidenti corrano velocemente le notizie in quell’ospedale.
Tuttavia le sorrido. È una di quelle con cui ho stretto un legame più forte e sono contenta che ora sia qui.
«Ciao Angie… »
Saluto Angela e allungo una mano in modo che lei possa prendere la mia.
«Io vado un po’ fuori, ripasso dopo» mi dice Antonella.
Così, mi posa un bacio sulla fronte ed esce dalla stanza.
Angela e io cominciamo a parlare di tutto ciò che è accaduto, poi lei cambia argomento e io le sono estremamente grata.
«Maria mi ha detto che eri qui e di passare a trovarti»
«Maria? Davvero?»
Proprio in quel momento si apre la porta ed entra la tutor.
«Ginevra, lo so che c’è il segreto professionale di cui vi abbiamo tanto parlato, ma ho informato Angela perché ho visto che andate molto d’accordo e insomma… per non lasciarti sola»
«Ha fatto bene, prof. Grazie»
Lei sorride.
«Ti hanno detto qualcos’altro?»
«Mmm, no. Non ho più saputo nulla»
«E i tuoi genitori? Li hai avvertiti?»
«Non ancora. Antonella mi ha portato il cellulare giusto adesso, quindi appena posso telefono a mia mamma»
«Ah, allora noi usciamo un momento, così puoi chiamarla»
Detto questo, le due escono, lasciando invece entrare un gruppo di infermieri che trasportano su una barella una signora sui quarant’anni.
Ha avuto un incidente stradale dopo un malore, ma non mi sembra particolarmente ferita, anzi, non ha neanche un graffio. Pare che le debbano fare qualche esame al cuore.
A ogni modo non mi interesso molto; apro la rubrica e cerco il numero di mia madre, anche se potrei digitarlo a memoria.
«Pronto?» la sua voce familiare, mi risponde al terzo squillo.
«Ciao mamma… »
Non so come cavolo dirglielo.
«Ginni, che è successo? Hai una voce… »
«Sono in ospedale»
«Sì, lo so»
«No, mamma… non hai capito. Sono in ospedale, ricoverata»
Momento di silenzio generale.
«CHE COSA?!»
Ecco, appunto.
Faccio un breve riassunto anche a lei e, al termine del mio racconto, lei sembra avere un tono abbastanza tranquillo.
«Ma adesso come stai? Papà è al lavoro, lo chiamo io quando è in pausa e ora guardo con tua sorella gli orari dei treni per venire lì in ospedale»
«Mamma, non c’è bisogno. Davvero»
«Non c’è bisogno?! Io credo di sì. Cosa hanno detto i medici?»
«Appendicite, probabilmente. Oggi pomeriggio mi ricoverano»
«Non puoi farti trasferire qui vicino casa?»
«Non lo so chiederò al chirurgo gnocco quando lo rivedo»
«Ah, hai anche già inquadrato il chirurgo gnocco?»
«Certo! Altrimenti il tempo come lo passo?»
«Sei senza speranze»
«Grazie mammina, ti voglio tanto bene anch’io»
«Certo. D’accordo, dai, ora guardo gli orari dei treni con Paola e poi ti faccio sapere».
«Va bene, salutami mia sorella»
«Sì, a più tardi»
A casa abbiamo due macchine: una di mamma e una di papà. Ovviamente, papà usa la sua per lavoro. Oggi, fortunatamente, lavora a dieci minuti di macchina da qui, perciò stasera, quando finisce, forse passerà a trovarmi.
Mamma invece è casalinga, perciò mi presta la sua macchina. Ѐ vero che con un mezzo di trasporto ci si impiega massimo due minuti a percorrere il percorso casa-ospedale, ma a piedi si metterebbe venti minuti. E farsi venti minuti a piedi di strada alle cinque di mattina o alle dieci di sera non è esattamente il massimo.
Dopo un po’ rientra Antonella e parliamo ancora per qualche minuto: mi dice di dover andare deve sbrigare delle commissioni varie e poi tra due giorni partirà per la Sardegna. Ha una settimana di ferie e la sfrutterà per andare a trovare suo cugino.
«Mi dispiace che sia successo proprio adesso che non ci sono»
«Tranquilla, non ti preoccupare. Immagino sarò occupata, in questi giorni»
Lei sorride e mi abbraccia piano.
«Comunque ripasso a trovarti, oggi pomeriggio»
«Grazie mille. A dopo, allora»
Quando se ne va, rientrano Angela e Maria.
«Allora… com’è andata con tua mamma?»
«Era un po’ stralunata»
«Eh, posso immaginare»
«Comunque arriva con il treno, anche se non so bene a che ora. Doveva ancora controllare gli orari dei treni»
Maria sorride.
«Va bene, ragazze. Allora io vado. Ginevra, se hai bisogno di qualcosa… non esitare a farmelo sapere»
«Grazie»
Detto questo, la tutor lascia la stanza.
Con Angela parliamo di tutto e di niente, poi mi chiede come stia andando il dolore.
«Diciamo che rompe. Ormai l’effetto dell’antidolorifico è finito, quindi adesso si sente di più»
Angie mi accarezza una mano e sorride. Anche lei è una persona molto dolce e altruista. Forse perché ha due fratelli molto più piccoli di lei.
Continuiamo a chiacchierare, finché la porta non si apre un’altra volta ed entra il chirurgo carino.
«Ciao!» mi saluta lui allegramente.
«Salve… » il mio tono è leggermente diverso dal suo.
«Allora, il letto si è liberato, ma devi firmare le carte del ricovero» dice porgendomi un paio di documenti.
«Non posso proprio essere trasferita nell’ospedale vicino casa mia?»
Per un momento, il dottore si fa pensieroso.
«Beh, tecnicamente potresti, ma dovresti rifare tutta la trafila burocratica e poi non è detto che lì abbiano un letto disponibile. Io ormai resterei qui, se fossi in te».
Sospiro, mi sa che devo rassegnarmi.
«D’accordo, allora firmo»
Lui mi porge i documenti e io scarabocchio il mio nome nello spazio apposito.
Possibile che, quando devo fare una firma seria, mi vengano fuori solo sgorbi incomprensibili?
Va beh, amen. Il medico resta per qualche altro minuto e poi esce (nuovamente).
«Dai, Gin. Hai fatto bene a restare qui, così tutti noi possiamo passare a trovarti. Penso avrai una folla di tirocinanti che faranno su e giù per la tua stanza. Ho incrociato Daniele, prima di venire da te: era tutto preoccupato».
«Sì, lui si preoccupa sempre. Poi, prima di venire a fare il tirocinio qui in ospedale, eravamo nella stessa casa di riposo, quindi abbiamo legato tanto»
«Eh, infatti lo vedevo un po’ agitato»
«Angie dai, adesso vai a casa. Se hai fatto la mattina ormai sarai stanca morta, tanto da chirurgia non scapperò molto facilmente»
Lei ride, mi dà un bacio sulla guancia e poi esce dalla stanza, salutandomi.
Nel frattempo è arrivato il marito della donna dell’incidente stradale che hanno sistemato sul letto accanto al mio. Parlano e io ho il tempo di chiudere gli occhi e rilassarmi un po’.
Passa un’altra ora prima che la porta si apra nuovamente ed entrino mia madre e mia sorella che mi guardano rassegnate.
«Sei un caso disperato. Com’è che, ovunque tu vada, se non finisci in ospedale non sei contenta?»
«Wow… e io che credevo vi sareste buttate disperate al mio capezzale… »
Loro ridacchiano e io le guardo male. Racconto anche a loro che cosa è successo poi arriva un’infermiera che dice [ci comunica] che possiamo finalmente andare in chirurgia.
Rifacciamo la stessa strada di quella mattina, ma questa volta, la donna volta a destra, verso il reparto.
Non c’è nessuna traccia di Daniele: è comprensibile. Ormai sono le tre passate, quindi il suo turno è finito più di un’ora fa.
Mi portano in una stanzetta con fuori una targa con i numeri 309-310, ed io mi siedo sul letto contrassegnato 310.
Mia mamma sistema le mie poche cose in un armadietto con lo stesso numero e poi mi chiede se ho bisogno di qualcosa.
«Sì, mi servono spazzolino e dentifricio. Non so se Antonella sia a casa, al massimo qui di fronte c’è il supermercato, forse puoi provare anche al bar»
Mamma annuisce, poi parliamo per un altro po’.
«Ma allora… questo chirurgo carino?» dice mia sorella ad un certo punto.
«Sì che figo, altroché! Adesso aspetta, magari arriva».
Proprio in quel momento si apre la porta, ma… non è lui, sfortunatamente.
Comunque, è un medico piuttosto giovane, che non ho mai visto. Forse è perfino più giovane del mio fantomatico dottore.
Ha un’espressione gentile e mi saluta subito, non appena mi vede.
«Ciao! Sei Ginevra, vero?»
«Sì»
«Allora… come ti senti?»
«Insomma… sono stata meglio»
In realtà il dolore è fortissimo, ma non voglio darlo troppo a vedere.
«Mmm… parlando con il collega che ti ha visitata stamattina, dall’esame obiettivo, direi che è un’appendicite, ma adesso dovrebbe venire a vederti il primario»
Sospiro. Dopo una giornata buttata tra il pronto soccorso e i vari reparti in cui mi hanno mandata a fare i consulti, sono davvero stanca.
«Se hai bisogno di qualcosa, quello è il campanello. Non esitare a chiamare»
Gli sorrido, lui è gentile.
«Grazie, dottore»
Poco dopo, l’uomo lascia la stanza.
Si fanno le sette di sera. Mamma e Paola sono ancora con me, il primario è passato e ha detto che nei prossimi giorni faranno una serie di esami per capire di cosa si tratta e, finalmente, arriva anche mio padre.
Racconto per l’ennesima volta cos’è successo e lui, più o meno, ha la stessa reazione di mia mamma e mia sorella.
Poco dopo, mia sorella e i miei genitori tornano a casa ed io rimango a osservarmi intorno. Sono in stanza con un’anziana signora dall’aria arcigna che non sembra molto in vena di chiacchiere.
A un tratto, nella stanza entra un infermiere che ho già visto prima: si chiama Alessandro e all’università ha tenuto un laboratorio riguardo l’esecuzione delle iniezioni intramuscolari e sottocutanee.
Resta fermo un momento e mi osserva.
«Aspetta… ma noi ci siamo già visti?»
«Eh sì. Sono Ginevra, ci siamo visti in università. Laboratorio delle iniezioni. Faccio parte del gruppo 8»
L’infermiere sgrana gli occhi.
«Cazzo ti è successo?»
Mi metto a ridere per la sua buffa espressione, poi racconto anche a lui cosa è accaduto quella mattina.
«Oh, madre santa… » dice alzando gli occhi al cielo e facendo finta di pregare.
«Finisci alle dieci?»
«Sì, esatto. Hai bisogno di qualcosa?»
«No, grazie»
«D’accordo. Se hai bisogno chiama, comunque più tardi torno a salutarti. Ciao, Bionda!»
E detto questo se ne va.
Allora… partendo dal presupposto che io non sono assolutamente bionda… devo ammettere che quel tizio è un po’ strano.
Le ore passano piuttosto lentamente, la mia compagna di stanza non è loquace e, a parte il telefono, non ho nulla che possa distrarmi.
Un infermiere di nome Giacomo, che somiglia fastidiosamente a un mio ex ragazzo, mi porta una scodella di thé con due fette biscottate: la prima cosa che mangio quel giorno. E sono sette passate di sera.
Ovviamente ho ancora fame quando finisco, ma pare che non avrò nient’altro fino al giorno dopo.
L’infermiere mi attacca una flebo con dell’antidolorifico e allora sto un po’ meglio, ma solo un po’.
Alle nove e mezza la mia compagna di stanza sta già dormendo e anch’io provo ad addormentarmi, ma non ci riesco.
Continuo così fino a mezzanotte passata quando, dolorante e innervosita, mi alzo dal letto per andare in bagno. In chirurgia ci sono i bagni comuni, devo uscire dalla camera.
Dopo due minuti sto lentamente tornando nella mia stanza, quando a un tratto sento una voce alle mie spalle che quasi non mi fa collassare.
«E tu che ci fai in giro a quest’ora?»
Mi volto con il cuore che ancora batte forte per lo spavento.
Splendido.
È il chirurgo figo.


Note dell’Autrice:

Ecco a voi il secondo capitolo delle Cronache! Spero tanto che vi sia piaciuto e… beh, cosa dire? Le vostre recensioni nel primo capitolo mi hanno fatto tanto tanto piacere, spero di ricevere qualche giudizio anche per il secondo. Come avrete visto, questo è stato abbastanza introduttivo, ci sono stati tanti personaggi anche se Doc si è visto pochino, ma… il terzo capitolo inizierà con lui! XD
Ringrazio come sempre Bertu, la mia beta che mi dà veramente dei consigli preziosi e mi aiuta tantissimo! Buona serata a tutti!
  
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