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Autore: Stars Trail    27/04/2014    7 recensioni
Avrei cucinato per te per sempre.
Ti odio perché mi hai confuso. No. Non è vero. Sei stata l’unica certezza della mia vita, e io ti ho lasciato andare.
Vorrei sentire il mio nome pronunciato dalle tue labbra.
Se tornassi adesso, ti troverei?

Kagami decide di tornare a Los angeles dopo il liceo senza essersi mai confessato. Kuroko dopo due anni si fa trovare davanti a casa sua con un valigione e una marea di cose da dirgli.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Taiga Kagami, Tetsuya Kuroko
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Salve, sono Troy Mc- no scusate. Non mi chiamo Troy. Il mio nome è Nari e sono qui per portarvi il sacro verbo.
No, non è vero nemmeno questo. Sono una squinternata. Ho un prompt askblog o qualcosa del genere dove persone insane quanto me mi promptano quello che voglio. E io lo scrivo. Tutto. Non sono solita postare su EFP, ma questo prompt mi soddisfaceva, quindi spero soddisfi anche voi. Il KagaKuro è così aw e baw e muoio.
Vabbeh. Vi lascio leggere. Se volete promptare non fatevi troppi problemi. NANODAYOLOOOOO.

Due anni

Per quanto ami sporcarsi la lingua con quelle parole, in realtà Kagami le odia dal più profondo del cuore. La prima volta che ne ha sentito il sapore amaro è stato per colpa di Tatsuya - colpa, poi, alla fine la colpa era stata solo di un rapporto che non avrebbe funzionato a prescindere - ma lui ci aveva creduto fino alla fine, che sarebbe stato per sempre.
E adesso il suo cuore batte in gola così forte che vorrebbe morire.
Kuroko è la sua luce; eppure, il per sempre non è destinato a durare nemmeno adesso, nemmeno se si sforza di chiudere gli occhi ed esprimere un desiderio a una stella cadente precipitata in chissà quale pianeta, perché il suo futuro è chiuso in una manciata di bit e una mail di conferma di un volo diretto per Los Angeles, sola andata, tra nemmeno due settimane.
Per sempre.
Il per sempre non esiste. Deve smetterla di creare illusioni. A lui, e agli altri.

“Come?!”
Il silenzio che cade sulla palestra è inaspettato. La testa di Kagami cade sul petto, storce le labbra e cerca di trovare delle parole che non suonino troppo tristi. Lui non vuole partire.
“Mio padre vuole che io continui gli studi in America. Le opportunità sono migliori, a Los Angeles, e in ogni caso avrei il lavoro pronto appena presa la laurea e…”
La verità è che non può dire di no. La verità è che suo padre gli taglierebbe in ogni caso l’affitto, e lui non ha il becco di un quattrino su cui reggersi, per cui è obbligato a tornare, a lasciare Tokyo, a perdere ogni possibilità di-
“Parto nel fine settimana dopo la cerimonia di diploma. Posso sperare di avere una degna cerimonia di addio?” Ride, e dentro si sente a pezzi. Cerca Kuroko con lo sguardo. Era sicuro di aver visto una ciocca di capelli chiari dietro le spalle dei ragazzi del primo anno, ma quando si rende conto che non c’è, immagina di esserselo sognato.
Deve credere che Kuroko non sia mai stato in palestra, quella mattina, o non riuscirà ad arrivare vivo nemmeno alla fine della giornata, figuriamoci alla fine dell’anno scolastico.
Marzo sta arrivando troppo in fretta, e lui non è affatto pronto.

*

“Kagami-kun.”
Ha dietro solo un trolley con dentro le cose essenziali, un cappello della NBA calato sugli occhi e il cuore che batte all’impazzata quando la voce di Kuroko scivola nelle sue orecchie come quelle di un fantasma.
“Kuroko, Cristo, mi hai-” Si interrompe quando incrocia lo sguardo dell’altro, la lingua che si secca e la voce che decide di dargli forfait fino al respiro successivo. Gli è stata data la possibilità di ricominciare, non la butterà di certo alle ortiche. “... non mi aspettavo di trovarti qui.”
L’aeroporto di Narita è così pieno che si sente soffocare, poco importa che dovrebbe essere abituato: lui non lo è per niente. Kuroko abbassa lo sguardo e fa un passo in avanti per far passare una famiglia chiassosa alle sue spalle, prima di poter dire qualunque cosa.
“Odio gli aeroporti,” dice a mezza voce, “ma avrei odiato di più l’idea di non averti salutato a dovere.”
Non dovrebbe portare una mano alla sua testa e scompigliargli i capelli; non hanno più quindici anni, nessuno dei due è più un bambino, ormai. Ma il gesto è così familiare, così automatico che Kagami non riesce a tenere la mano ferma, e quando sente le sue dita accarezzare i capelli morbidi di Kuroko se ne pente subito.
Un altro pezzo di cuore che cade sul fondo dello stomaco.
“Grazie.”
Kuroko gli sorride, e Kagami riesce a leggerci sopra un filo di disperazione che non avrebbe mai pensato di vedere sulle sue labbra. “Non smetterai di giocare, vero?”
“Non potrei. Non puoi nemmeno tu, vero?” Ritrae la mano, infilandola in tasca. Il biglietto per Los Angeles punge contro il suo dorso, e gli ricorda che sta tornando a casa.
Fanculo, quella non è casa sua.
“Nemmeno io.”
Quella che ha davanti è casa sua.
“Sappi solo che non troverai più qualcuno alla mia altezza,” dice, e cerca di ghignare, di mostrare un po’ di positività, ma non ha davvero idea di dove trovarla. Non sa da dove tirarla fuori. “la tua luce sono io.”
Kuroko annuisce, mentre stringe la cinghia della tracolla. “Non essere presuntuoso, Kagami-kun. Troverò qualcuno che sia alla tua altezza, e lo farò diventare il giocatore più forte del Giappone. Come lo eri tu.”
“Lo sono ancora.”
“Lo so,” e alza lo sguardo, gli occhi che scattano alla ricerca di qualcosa nel tabellone delle partenze. “Almeno per le prossime due ore, almeno.”
Lo sguardo di entrambi scivola sul pavimento. Kuroko indossa ancora le scarpe comprate durante la Winter Cup del primo anno, così consunte che Kagami si chiede se non rischino di aprirsi da un momento all’altro.
Sospira. “Devo andare, mi accompagni fino ai controlli?”
Non sa se sia una richiesta più crudele nei confronti di se stesso o di quelli di Kuroko, ma l’altro annuisce, per cui almeno è una sofferenza condivisa. L’idea dovrebbe tirarlo su, ma non ci riesce particolarmente.
Si sente strano, nell’avvertire con così tanta forza la presenza di Kuroko alle sue spalle nonostante la gente che si ritrova attorno. Forse ha imparato a prestare più attenzione a quello che gli succede attorno
Forse non riesce a farne a meno perché gli piace.
Quando Kagami si ritrova davanti al lungo serpente umano che lo porterà ai metal detector, si volta per rendersi conto che Kuroko non c’è più. Si guarda attorno, sentendo il cuore battergli nel collo - di nuovo - ma poi il telefono vibra, una mail che non è certo di voler leggere.
Odio gli addii.
Ha un nodo in gola pronto a sciogliersi.
Anche io.
Non fa in tempo a reinfilare il telefono in tasca che vibra di nuovo.
Ti ringrazio. Per questi tre anni, per essere stata la mia luce. Per favore, non dimenticarmi. Buona fortuna.
L’unica cosa che riesce a scrivergli è Idiota, senza nessun punto, senza emoticon stupide che possano spezzare la tensione. Caccia il cellulare in tasca e si dirige verso i controlli, sentendo lo sguardo di Kuroko pizzicare sul collo, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime.
Chissà come sono i suoi.
Non ha avuto nemmeno il tempo di dirgli cosa prova per lui.
Ci mette due ore e venti, a scrivergli un’altra mail.
Non puoi davvero credere che possa dimenticarti. Non lo farò. Tu non dimenticare me. Sono contento di averti conosciuto, Kuroko. Grazie.
Si sente così sentimentale che potrebbe vomitare. Pigia sul pulsante di accensione e spegne il telefono, rilassandosi contro la poltrona e pregando che il viaggio duri meno di quel che ricorda.
Si sente vuoto da fare schifo.

*
Los Angeles è calda. Troppo. L’umidità gli entra nelle narici e fa l’aria irrespirabile. Non era così a Tokyo - non era così quando c’era Kuroko.
Quando non è in facoltà si isola nel campo di basket a tre isolati da casa sua; nel giro di quattro mesi ha consumato sei palle che non ha avuto il coraggio di buttare. Quando si trova di fronte al canestro perde la cognizione del tempo; è sempre suo padre a riportarlo alla realtà chiamandolo almeno tre volte, prima che lui abbia la forza mentale di rispondergli.
Non gli ha ancora perdonato di averlo trascinato lì.
Si sbatte la palla sulla testa e stringe i denti. Non ce la fa.

*
La verità è che mi sei sempre piaciuto. Non riuscire a sentire il tuo odore, non riuscire a capire che razza di persona fossi quando ti ho incontrato la prima volta ha mandato in tilt il mio cervello. Avrei voluto dirti in un modo migliore quanto fossi - quanto tu sia ancora importante per me.
La verità è che mi manchi. Penso a quello che avremmo potuto essere se fossi rimasto con te, continuamente, e ogni giorno mi alzo sperando di star vivendo in un sogno troppo lungo, sperando di ritrovarmi nel mio appartamento a Tokyo, possibilmente con te affianco. Non succede mai. Non hai idea di quanto sia frustrante. Non sai cosa darei per poter tornare indietro e mandare al diavolo mio padre, dirgli che il mio posto non è con lui in America.
È con te in Giappone.
Avrei voluto avere il coraggio di dirtelo in faccia. Se non fossi sparito, forse te lo avrei detto. O forse no. Ma avrei comunque voluto dirti che i sentimenti che provo per te sono cosa nuova, e vanno oltre il rapporto che era durante i nostri giorni dalla Seirin. Mi dispiace non essere stato coraggioso.
Mi dispiace non aver fatto essere i miei per sempre reali.
Ti amo.

Sospira. Abbandona il telefono lungo la coscia e guarda il soffitto, ignorando il display che si spegne e salva in automatico la mail nelle bozze. Ha perso il conto di quante gliene abbia scritto, da quando è tornato in America, perché ci prova ogni notte, a mettere per iscritto quello che prova per Kuroko, e ogni volta finisce così.
Avrei cucinato per te per sempre.
Ti odio perché mi hai confuso. No. Non è vero. Sei stata l’unica certezza della mia vita, e io ti ho lasciato andare.
Vorrei sentire il mio nome pronunciato dalle tue labbra.
Se tornassi adesso, ti troverei?

Se tornasse, troverebbe Kuroko ad aspettarlo?
Riprende in mano il telefono, e digita l’unica cosa che riesce a scrivergli ogni sera prima di andare a letto.
Buonanotte.
Kuroko non risponde quasi mai.
Buonanotte, Kagami-kun.
Quando lo fa, però, il suo cuore si stringe così tanto che spera si stia per svegliare. In Giappone. Affianco a lui.
Non succede mai.

*
A volte riceve delle lettere, soprattutto da Kiyoshi, a volte da Izuki.
Se le infila in borsa e le tiene vicine fino alla fine delle lezioni, e quando va in campo la palla resta lì ad aspettare che lui le abbia rilette almeno tre volte. È felice di essere ricordato.
Sono lettere piene di nostalgia, quelle che gli arrivano. Parlano di partite fatte tra i petali di ciliegio, di picnic pieni di cibo - pieni di uova bollite che cercano di essere meno noiose presentandosi a forma di stella, di cuore, di qualunque formina Kuroko si ritrovi nella dispensa - parlano di come vivrebbe lui se fosse ancora lì.
Le ama. Le odia. Non lo sa nemmeno lui. L’unica cosa di cui è certo è che lì dentro c’è Kuroko, anche se è una presenza flebile, anche se è solo una presenza che si riesce a notare soltanto con un po’ di lavoro mentale. Le uova, le palle fuori campo, le citazioni da libri che Kagami è sicuro solo lui possa leggere, tra i membri della sua vecchia squadra.
Ogni tanto Kiyoshi lascia cadere delle foto, insieme alla lettera. Foto di gruppo, principalmente. E poi, primi piani.
Tutti suoi, tutti di quel viso pallido e sudato contratto in concentrazione. Ogni volta, Kagami gira la foto e trova due parole scritte in una grafia pulita che ogni volta gli si infilano nella testa e rimbombano con violenza nella sua mente.
Dovresti dirglielo.
Vorrebbe fosse così facile.

*
È solo quando torna a casa che si rende conto di che giorno è.
Ha ingenuamente creduto che sarebbe stato facile mettere da parte i sentimenti una volta messa una distanza infinita tra loro, ma l’America ha soltanto alimentato l’amore che prova che Kuroko, e a due anni dalla sua partenza la situazione non sembra essere migliorata. Anzi, può affermare con assoluta certezza che siano persino cresciuti, i suoi sentimenti nei confronti della sua ombra. Non pensava fosse possibile, e adesso sente la bocca dello stomaco chiudersi e la testa urlare il suo nome.
Si lascia cadere sul letto, sfilando il telefono dalla tasca. Vorrebbe chiamarlo, ma probabilmente lui sta già dormendo. Non vuole essere un disturbo.
Ha provato ad allontanare i suoi pensieri ricordandosi mille volte che Kuroko non gli ha mai scritto di sua spontanea volontà, che non ha mai chiamato, che non si è mai interessato a quello che fa e non fa; poi si ricorda che, in fondo, Kuroko non è mai stata una creatura espansiva, e che la sua riservatezza è data probabilmente dal suo farsi troppi scrupoli.
Vorrebbe lo disturbasse.
Vorrebbe innamorarsi di qualcuno che non sia lui, e non ci riesce mai. Si lascia cadere sul letto, gli occhi fissi al soffitto e gli occhi che pizzicano appena per la stanchezza. Non c’è nessuno, a casa. Suo padre è partito per Hong Kong da tre giorni, e si chiede perché stavolta non lo abbia portato con sé. Da lì al Giappone sarebbe stato soltanto un misero passo…
I suoi pensieri vengono interrotti di colpo dal suonare del campanello. Pensa che non ha voglia di alzarsi, che non ha voglia di vedere nessuno, ma poi il campanello suona di nuovo e l’insistenza lo obbliga a mettersi in piedi, inforcare le ciabatte e camminare verso l’ingresso.
“Arrivo, arrivo. Chi diavolo è a quest’o-”
Sta dormendo.
Per forza.
“Kagami-kun.”
Rimane imbambolato sulla porta. Scorre la figura davanti ai suoi occhi diverse volte, e solo quando comincia a vedere doppio si rende conto che non sta sbattendo le palpebre, che non sta respirando. Kuroko ha una valigia più grande di lui, davanti a sé. Deve aver faticato per arrivare fino al suo piano - l’ascensore è rotto, e dopo le otto non c’è più nessuno in portineria a cui chiedere aiuto.
“Non ti aspettavo,” dice soltanto, e mentre si sforza di sorridere il suo cuore vorrebbe esplodere.
Sarebbe una bella morte.
“Non volevo mi aspettassi. Non sarebbe stata una sorpresa, altrimenti. Posso entrare? Ho l’albergo a due isolati da qui, ma volevo passare a-”
Kagami lo interrompe piegandosi sulla valigia e portandogliela dentro. “Non vai proprio da nessuna parte. Entra.”

*
Improvvisamente la sua casa sembra troppo piena.
Kuroko è seduto sul divano, si guarda attorno come un gattino che viene introdotto in una nuova famiglia. A guardarlo sembra più asciutto, spaventosamente più magro. Si morde il labbro e decide che c’è tempo, per chiedere.
C’è tempo, per parlare.
Non è ancora sicuro che non sia un sogno. Il caffè che sta preparando dovrebbe aiutarlo a capire se quella non è un’allucinazione, ma se è impazzito, probabilmente continuerà a vederlo anche dopo due litri di caffeina in circolo.
“Hai mangiato?” chiede dalla cucina, mentre apre il frigo.
“Ho bevuto uno shake in aeroporto.”
Ride, scuotendo la testa. “Quello non è mangiare. Ti preparo qualcosa,” replica, rendendosi conto che in due anni non è cambiato davvero niente - o comunque, questo è ciò che la sua testa vuole fargli credere.
“Grazie.”
Non sa cosa dirgli. La sua testa è così piena di pensieri che non sa da dove cominciare. Se rimane in silenzio, Kuroko si preoccuperà - o si pentirà di essersi palesato lì, che sia in forma reale o solo un’allucinazione non importa, il disappunto è proprio del mondo terreno e di quello spirituale nelle stesse dosi. Sospira, tirando fuori dal frigo due fette di pollo. Il poco tempo perso a cucinare non lo aiuta a capire cosa fare.
Non apparecchia; non obbliga Kuroko ad alzarsi dal divano, non dopo aver visto il suo viso così stanco. “Tieni,” esclama porgendogli il piatto e sedendoglisi affianco. “Sei arrivato in tempo per la cena, ero appena tornato a casa.”
“Un tempismo perfetto.”
“Non avevo dubbi.”
Mangiano in silenzio. Il rumore delle loro bocche che masticano impedisce alla sua testa di formulare pensieri che siano diversi da Kuroko è qui, e io non l’ho nemmeno salutato a dovere. Kuroko è qui. Qui. Non sembra un’allucinazione. È qui davvero.
La prima parola dopo la cena scivola dalla bocca di Kuroko, che poggia il piatto sul tavolino davanti a lui e si volta a guardarlo, sorridendo. “Era delizioso. Ti ringrazio.”
“Non ti farò morire di fame finché sarai in questa casa, non sperare di campare bevendo milkshake.”
“Sei un rovinapiani, Kagami-kun. Spezzare così i miei sogni.”
Ridono entrambi, e Kagami vorrebbe soltanto prenderlo e stringerselo addosso. Non vuole buttare la sua occasione per dirgli finalmente che in due anni l’unico pensiero fisso è stato lui, eppure sente la bocca seccarsi, il cuore accelerare, la mente svuotarsi.
“Spero di non essere ospite indesiderato.”
“Non lo saresti mai.”
Risponde così in fretta che quando Kuroko lo guarda negli occhi si sente spiazzato dalla sua stessa reazione. Kuroko sorride, e lui si scioglie. “Non sei cambiato per niente.”
“Tu invece sembri un mucchio d’ossa,” risponde, e il suo braccio si muove da solo, la mano che lo sfiora dove sporgono gli zigomi. Si ferma quando si rende conto del gesto, ma Kuruko non si ritrae.
Kuroko lo abbraccia.
Sono morto.
“Sei agitato,” bisbiglia la sua ombra. È ridicolo, detto da lui, perché chiaramente riesce a sentire il battito del suo cuore contro le sue dita, quando finalmente riesce a ricambiare il gesto.
“Sei una sorpresa inaspettata.”
“Vivo per esserlo.” La sua risposta è accompagnata dalle mani che si stringono attorno alla sua maglietta. Non è sicuro, ma gli pare che la sua voce tremi.
Dovresti dirglielo.
Kiyoshi stava cercando di dirgli qualcosa di diverso da sei un idiota? Stava cercando di dirgli che gli idioti erano due?
Lo lascia andare dopo quello che gli sembra essere troppo poco tempo. La pelle di Kuroko è macchiata di una sfumatura di rosa sulle guance.
Vorrebbe mangiarle.
“Avrei voluto avvisarti, Kagami-kun. Ma poi ho pensato che sarebbe stato meglio venire senza dire nulla. Ho avuto il tuo indirizzo da Kiyoshi-san. In verità me lo ha dato quasi due anni fa, e mi ha detto di scriverti, ma non ce l’ho mai fatta perché mi sembrava ipocrita farlo quando non sono nemmeno riuscito a salutarti quando sei andato via.”
Kuroko stringe i pugni sulle sue gambe. Non sa come faccia a resistere all’impulso di prenderli tra le sue mani e stringerseli al petto. Deve aspettare.
“Ho lavorato, oltre che studiare, in questi due anni. Ho speso fino all’ultimo yen per riuscire a venire da te. Non riuscivo a scriverti, non riuscivo a chiamarti, non riuscivo a fare niente. Gli altri venivano a prendermi a casa la domenica sapendo che altrimenti non sarei uscito di casa. Ho fatto di tutto. Ho lavorato persino da Maji Burger. Hanno tentato di corrompermi per avere dei vanilla shake in busta paga anziché i soldi, ma ho rifiutato perché per quanto buoni possano essere, l’unica cosa che volevo era vedere te. Avrei voluto scriverti. Ma mi sentivo in colpa ogni volta che prendevo il telefono in mano.”
China la testa, Kuroko. Lo sente deglutire a fatica e, Dio, se è così doloroso non può davvero essere un’allucinazione. Gli passa una mano sulla testa, come faceva quando ancora erano a scuola insieme, un gesto che per lui aveva significato mille cose diverse.
Forse non solo per lui.
Kuroko lo guarda di nuovo, e i suoi occhi brillano così tanto che lui sente il respiro mozzarsi.
“Ho la cartella delle bozze piene di mail che non ti ho mai mandato.”
“Anche io.”
“Un giorno ne ho mandato una, e prima che riuscisse a inviarla, il telefono si è spento. L’ho interpretato come un segno del destino, e ho lasciato perdere. Non avrei dovuto. Sarei dovuto venire prima, ma non… non ci sono riuscito, e nel frattempo ho vissuto con la paura che alla fine ti saresti dimenticato di me.”
“Che idiota. Non sei davvero cambiato di una virgola.”
Silenzio. Sente il ticchettare della sveglia sul muro. È fastidioso.
“... hai trovato una nuova ombra, Kagami-kun?”
“No.”
“Io non ho trovato una nuova luce. Non esiste.”
Non ce la fa più. Lo prende per il viso e lo obbliga a guardarlo, obbliga se stesso a resistere all’impulso di baciarlo e metterlo a tacere.
“Sei un idiota. Non avrei mai potuto dimenticarti, né sostituirti. Non ci ho nemmeno provato, perché per me ci sei sempre stato solo tu. Ho vissuto due anni con la paura di perderti e la convinzione che non sarebbe mai successo nonostante il tempo, nonostante il silenzio. E adesso sei qua e non mi importa più niente di cosa sia successo, di come mi sia sentito io o come ti sia sentito tu. Sei qui, sei qui e-”
Le labbra di Kuroko sono screpolate, secche, sottili. Eppure sono sicure, mentre schioccano e succhiano sulle sue. Non avrebbe mai pensato di ritrovarsi sul divano con lui tra le sue braccia, né oggi, né in futuro. È così buono che potrebbe continuare a baciarlo per sempre.
“Io voglio sapere tutto invece, Kagami-kun. Voglio sapere cosa fai, con chi parli, dove vai a giocare la sera. Voglio essere con te, non voglio scappare.”
“Non scapperesti nemmeno se lo volessi, perché sei qui e non esiste che io ti faccia andare via di nuovo.”
Sorride, quando Kuroko piega la testa sulla sua spalla. Gli bacia la testa quando lo sente bagnargl la pelle, scorre la mano sulla schiena per placare i singhiozzi deboli che scappano dalla sua bocca.
“Non farmi andare via.”
“Nemmeno per sogno.”
Accetterebbe di buon grado di essere morto, se quella fosse davvero un’allucinazione. Ma non c’è modo di credere che lo sia, non quando Kuroko è così caldo tra le sue braccia, non dopo aver sentito finalmente il sapore delle sue labbra, non dopo aver sentito parole che lui stesso ha pensato per troppo tempo.
“Mi dispiace non averti detto prima che-”
“Ti amo.”
Kuroko alza lo sguardo. È così perso da far tenerezza.
“Ti amo, ed è stato così da sempre. Non sei l’unico ad essere scappato, per cui non preoccuparti. Resta qui, però. Resta con me.”
Kuroko non risponde. Probabilmente ha detto qualcosa di troppo, è sempre stato un suo problema.
Ma non importa. Kuroko ha le labbra larghe in un sorriso che vale più di qualunque cosa. È una risposta più che sufficiente, e la ricompensa migliore per un’attesa che è arrivata agli sgoccioli.
Finalmente.

   
 
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