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Autore: Malvagiuo    28/04/2014    5 recensioni
Ogni foresta ha segreti, ma la foresta di Biancospino ha molto più di questo: è guidata da una volontà propria, una forza ancestrale che esercita un'oscura forma di giustizia su coloro che osano sfidarla.
Ad apprendere questa dura realtà sarà il conte Fersen, spavaldo cacciatore appartenente a un'illustre casata, che scoprirà quanto facilmente un predatore possa trasformarsi in preda.
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il conte Fersen amava la caccia. Secondo l’opinione comune, non esisteva bestia più nobile da cacciare del lupo di fuoco. Era una creatura possente e molto rara: ucciderla era motivo di vanto per ogni cacciatore.
La sorte aveva favorito Fersen: essendo nato conte di Chamborl, appartenente alla prestigiosa famiglia dei Vilya, gli era stato conferito l’onore di cacciare nei boschi di Biancospino, uno dei pochi luoghi rimasti dove trovare il meraviglioso lupo.
“Ne saranno rimasti meno di cento” pensò Fersen, con amarezza. “Mi auguro di avere la fortuna di impallinare l’ultimo.”
Erano a cavallo dalle cinque del mattino, verso le sette avevano raggiunto le prime fronde del bosco e i cani erano stati sguinzagliati. La caccia aveva avuto inizio nel migliore dei modi: i fidi segugi avevano trovato subito una traccia. In capo a un’ora, inseguivano un grosso esemplare maschio. Fu allora che Fersen fu colto da un atroce dubbio, che l’avrebbe perseguitato fino al raggiungimento della preda: da un lupo di fuoco sarebbe stato più consono ricavare un tappeto o un busto impagliato? Era da dettagli come quelli che i nobili giudicavano la raffinatezza di un gentiluomo. Mentre le trombe squillavano e i cani abbaiavano, Fersen rimuginava. Alla fine, decise per il busto. Nessuno aveva il diritto di calpestare un animale tanto sontuoso.
In tarda mattinata, una pista particolarmente nitida spinse Fersen a farsi strada da solo nel cuore della foresta. Gli zoccoli di Guerriero producevano un soffice scricchiolio nel comprimere la neve fresca, mentre tra gli alberi spogli spirava una brezza gelida che trasportava un odore inconfondibile. Il lupo era vicino.
Il bianco e il grigio delle rocce lo circondavano, sovrastati da una volta celeste plumbea. Fersen spronò il cavallo ad avanzare al passo lungo i percorsi sdrucciolevoli in mezzo alla boscaglia. Quando lo vide, trattenne il respiro.
Di fronte a sé si ergeva un grande sperone di roccia, ricoperto da muschio verdastro, tra le cui fenditure scorrevano rivoletti d’acqua cristallina. Il flebile scroscio dell’acqua era l’unico suono udibile nei dintorni. Perfino i cani non si udivano più. Sembrava di essere penetrati in una sfera separata dal resto del mondo, dove tutto ciò che vi era contenuto osservava un mistico, timoroso silenzio. Perché i cani non lo avevano anticipato?
Oltre le nuvolette del proprio respiro congelato, Fersen vide il lupo del fuoco sopra il masso gigantesco. Anche da quella distanza, due occhi fiammeggianti parevano fissarlo, due braci che davano l’impressione di spuntare dalla folta pelliccia rossastra. La creatura lo aveva visto, Fersen non aveva dubbi. Eppure, non emise un ringhio o un ululato per richiamare il branco. Forse non aveva un branco. Forse era l’ultimo rimasto nel bosco di Biancospino.
Il conte Fersen si riscosse dall’iniziale meraviglia e fece scivolare dalla spalla il fucile. Lo imbracciò e premette il calcio contro l’incavo della spalla destra. La visuale era nitida, la traiettoria sgombra. Fersen era un ottimo tiratore. Non avrebbe mancato il bersaglio. Perché esitava, dunque?
La bestia rimase immobile. Non cessò per un solo istante di osservare Fersen dall’alto della roccia. Uno sguardo indecifrabile, che poteva essere di paura come di ammonimento.
Un boato echeggiò nella radura.
D’un tratto, la foresta parve risvegliarsi dal sonno silente in cui era precipitata. Uccelli che stridevano, il vento che tornava a sibilare, l’acqua che ora pareva scorrere con un fragore assordante, sassolini che cadevano dallo sperone provocando un rimbombo paragonabile a quello di una frana.
Il lupo del fuoco era caduto dalla sommità della roccia. Un piccolo lago di sangue si allargava dal suo collo.
 
I servitori e gli amici di Fersen si complimentarono entusiasti, quando il conte li ebbe raggiunti all’accampamento recando sulla groppa di Guerriero il corpo del lupo in bella mostra.
«La tua solita fortuna, Fersen!»
«Noi non abbiamo trovato nulla per tutto il tempo.»
«Sei benedetto dall’istinto di cacciatore dei Vilya.»
Fersen si lasciò inondare dalla marea di affetto. Pacche sulle spalle e frasi amichevoli non erano novità per lui, ma ricevere quegli omaggi era ogni volta un piacere al quale non sapeva rinunciare.
Si era ristorato con un pranzo abbondante quando un servitore, dall’espressione compiaciuta, gli si avvicinò, con le mani imbrattate di sangue. Evidentemente si trattava dell’uomo a cui era stato affidato il compito di scuoiare il lupo.
«Mio signore, la vostra battuta è più memorabile di quanto crediate.»
«Che intendi dire?»
«La belva che avete ucciso era una femmina, in attesa di un’intera cucciolata. Avete colpito cinque lupi con un solo pallino.»
La scoperta lasciò Fersen interdetto. Quella sarebbe diventata davvero una partita di caccia memorabile, qualcosa di cui avrebbe potuto vantarsi fino all’ultimo dei suoi giorni. Eppure, non era l’orgoglio il sentimento che dominava in quel momento il cuore di Fersen. A riempirgli il petto, era qualcosa di completamente diverso, che non sapeva definire. Non era triste, naturalmente. Ma da quel momento non poté più definirsi felice.
 
Avrebbero trascorso la notte intorno al fuoco del campo, l’indomani sarebbero tornati al castello. Quella sera Fersen si coricò presto, lasciando malvolentieri il resto del gruppo a ridere e scherzare intorno al falò. Non riusciva a stare in mezzo a loro quella sera, benché ne avesse voglia. Qualcosa nel profondo di sé lo spingeva a isolarsi, forse lo stesso qualcosa che gli provocava quella strana pesantezza al cuore, che non era un dolore fisico ma lo tormentava ugualmente.
Entrò nella propria tenda e si avvolse nelle calde coperte di pelliccia. Immerso nel buio e nel tepore, il sonno non tardò a raggiungerlo.
Vide il manto rosso fuoco del lupo che aveva ucciso quel giorno. Vide gli occhi fiammeggianti. Avevano un’espressione, ora. Fersen poteva interpretarla senza ombra di dubbio. Ebbe paura di ciò che vide in quegli occhi. Si agitò infinite volte nel sonno, quella notte, mentre il suo corpo cambiava.
 
L’alba successiva, l’uomo che era stato Fersen Vilya IV, diciottesimo conte di Chamborl, uscì dalla sua tenda a quattro zampe, ricoperto da una folta pelliccia nera e consapevole di non essere più quello di prima. L’emozione dominante nel suo cuore non era la paura o lo sgomento, ma la tristezza.
Tutti dormivano ancora quando Fersen si aggirò per la prima volta attorno al campo con le sue nuove fattezze. Era silenzioso, elegante, affamato. Si avvicinò all’albero dove Guerriero era stato legato per la notte, accanto alle braci del fuoco. Il cavallo si imbizzarrì furioso, nitrendo disperato, sollevandosi in una minacciosa impennata che tese la briglia al punto da rischiare di strapparla.
Il rumore risvegliò il campo. Fersen non si voltò a guardare. Corse verso la foresta, la sua unica possibilità di salvezza.
Fersen arrancò per tutto il giorno attraverso la foresta, facendosi strada a fatica tra i cumuli di neve. Quando raggiunse una radura al di là di un grande crinale a occidente era fradicio e copiosi rivoli d’acqua scorrevano filiformi lungo il folto pelo nero bagnato. Il suo olfatto era diventato molto potente: captava odori e sensazioni che da uomo gli erano state del tutto ignote. Annusando l’aria seppe con certezza, senza voltarsi, che alle sue spalle un cardellino maschio era poggiato su un ramoscello spoglio di una grande betulla. Si trovava ad almeno venti spanne di altezza, ma Fersen lo percepiva come se l’uccellino gli si fosse trovato dinanzi al muso.
Un abbaiare rabbioso lo distolse dalla meraviglia delle nuove sensazioni che era in grado di provare e lo riportò bruscamente in mezzo alla neve gelida. La muta di cani che fino a poche ore prima gli apparteneva si preparava a stanarlo. Fersen ricordava abbastanza della sua vita passata da sapere che non avrebbe potuto sfuggire a lungo. Non li avrebbe affrontati: era un lupo grande e grosso, ma i cani erano numerosi e addestrati a combattere contro bestie di taglia superiore alla propria. Si era premurato di persona che fossero sottoposti a una simile disciplina.
Fersen cominciò a correre. Raggiunse un ruscello che serpeggiava in mezzo alle rocce coperte di bianco, ne seguì il percorso verso ovest, ignorando il gelo che si faceva strada dalle sue zampe fino in profondità nelle ossa. Correva più veloce che poteva, evitando di perdere l’equilibrio su qualche sperone roccioso sul letto del fiumiciattolo. Ben presto la sua lingua fuoriuscì penzoloni dalle fauci. Non osava immergersi nell’acqua bassa: forse sarebbe riuscito a nascondere per un po’ di tempo il proprio odore, ma avrebbe rischiato l’assideramento. La sua intelligenza di cacciatore imprigionata nel corpo scattante di una preda gli procurava una strana sensazione. Si sentiva prigioniero e libero al tempo stesso.
 
Il sole stava scomparendo dietro la cornice frastagliata delle montagne quando lo trovarono. Nonostante gli sforzi per cancellare la pista seguita, cinque cani della muta lo avrebbero circondato entro breve. Fersen era esperto a sufficienza da rendersi conto che non c’era via di scampo. La luce si affievoliva a ogni istante, mentre i cani abbaiavano sempre più forte, sempre più vicini.
Fersen era immobile in mezzo alla neve, nero sulla superficie lattea ai piedi degli alberi grigi.
I primi due cani apparvero alla sua destra, abbaiando e facendosi strada verso di lui, smuovendo neve e rami secchi. Fersen fece appena in tempo a voltarsi quando il primo dei due gli balzò contro, determinato ad azzannargli il collo. L’istinto di lupo di cui era in possesso gli permise di anticipare la mossa e scattare più rapidamente del cane, inserendo il muso nello spazio tra la testa e la poderosa spalla dell’animale. Fersen spalancò le fauci e dilaniò le carni di quello che una volta era uno dei suoi animali preferiti, Zanna. Il secondo cane era Olst, di taglia più piccola, ma non per questo meno temibile. Fersen ricordò di averlo chiamato così in onore di un suo antenato, Maglav Olsten Vilya, noto per l’abitudine di mozzare le teste dei nemici e sostituirle con quelle di cani.
Olst fu un avversario più tenace. Si scambiarono morsi e unghiate, Fersen ebbe la meglio, ma lo scontro lo provò duramente. Uccise a malincuore Olst, stringendogli il cranio nella morsa delle proprie fauci. Fersen si allontanò zoppicando, la zampa anteriore destra che gli doleva in modo insostenibile, mentre l’aria tersa intorno a sé gli portava nitido il verso dei cani che abbaiavano furiosi.
Fersen sapeva benissimo che guidavano i suoi compagni, pronti a ucciderlo senza pietà, non sapendo nulla del maleficio di cui era stato vittima. Arrancando nella neve, la sua mente – più umana che animalesca – si sforzava di elaborare una strategia che gli permettesse di sopravvivere. In un angolo remoto dentro di sé, la più grande angoscia che affliggeva Fersen era la consapevolezza che non sarebbe mai tornato indietro. I suoi giorni di uomo erano finiti. Era una certezza priva di basi logiche, una verità che non richiedeva prove, qualcosa di talmente sicuro che era ridicolo anche solo pensare di confutarne la realtà.
Dolorante alla zampa e al fianco sinistro, Fersen individuò un’unica soluzione.
Inspirò profondamente l’aria, sollevando il muso.
Non impiegò molto tempo per trovare la traccia.
 
Era notte fonda quando raggiunse la tana.
I cani erano ancora vicini, ma non abbaiavano più. Sentivano ancora il suo odore, ne era certo, ma erano consapevoli di trovarsi in un territorio pericoloso. Erano andati molto lontani, Fersen era riuscito a fuggire fino alle falde dei monti, dove la foresta si infittiva e ciò che non era profondamente selvaggio non poteva sopravvivere. Non avrebbero osato cacciarlo fin dentro la tana. I cani percepivano quello che gli uomini non potevano avvertire: una coltre di nebbia invisibile, un oscuro mantello di feroce forza primordiale, il retaggio atavico di un’era dimenticata ma non scomparsa. Avrebbero finto di aver perduto le tracce, piuttosto che condurre gli uomini – e quindi sé stessi – dentro quel luogo. Capiva ora perché il giorno prima lo avessero abbandonato al cospetto del lupo.
Anche Fersen avvertiva la minaccia che emanava da quella terra.
Era una sensazione indescrivibile con parole e concetti umani. Avrebbe dovuto conoscere il linguaggio delle belve per potersi esprimere, ma un simile linguaggio non era contemplato dalla mente dell’uomo. Ciò che vedeva e sentiva tra quegli alberi, tra quelle rocce e in quegli animali nascosti – che non vedeva ma di cui individuava chiaramente la presenza – lo terrorizzava, scuoteva a fondo le fibre stesse del suo essere. Ma non aveva altra scelta.
Rasha si è perduto a causa tua.
Il pensiero non gli apparteneva. Si era fatto strada dall’esterno dentro di lui.
Fersen si accasciò nella neve. Era sfinito. Non sarebbe sopravvissuto a quella notte, con tutto il sangue che aveva perso. Le sue palpebre stavano per cedere, consegnandolo alla notte eterna dell’oblio, quando un ululato lo ridestò di colpo.
Erano sette lupi di fuoco, i manti lucenti nella notte senza luna. Tizzoni ardenti come occhi, sguardi fissi e accusatori che lo inchiodavano al terreno. Fersen si domandò che cosa vedessero in lui. Un lupo estraneo al branco… o un uomo nel corpo di un lupo?
I loro volti, indistinguibili nella coltre buia della notte, riuscivano ugualmente a comunicare le loro espressioni. Nessuno di loro era curioso. Nessuno di loro era impietosito. Nessuno di loro era ignaro. Sapevano, tutti e sette.
Rasha era perduto. Rasha ora è ritrovato.

 

La mattina dopo, Fersen era ancora vivo. Le membra gli dolevano, ma le ferite erano cicatrizzate. Nessuna benda o altro segno dell’intervento umano si trovava sul suo corpo.
Era solo, circondato da un fitto recinto di abeti secolari, che delineavano in alto un cerchio di cielo bianco. Come dita filiformi, le punte degli abeti si protendevano in su, verso le nuvole, parevano perfino sfiorarle, immense e irraggiungibili. Fersen si sentì piccolo come mai in vita gli era capitato di provare.
Dalle fronde più basse dei tronchi che gli erano di fronte, si fece strada un gigantesco lupo rosso. Mai un cacciatore avrebbe creduto all’esistenza di un esemplare di simili dimensioni, e se vi avesse creduto avrebbe rinunciato per sempre all’idea di cacciare lupi della sua specie, per timore di essere a sua volta braccato, per vendetta, da una simile belva.
Gli occhi del grande lupo erano di fuoco come la sua pelliccia, fiammeggianti come braci nella notte. Fersen non osò sfidarlo. Ogni residuo di orgoglio umano era svanito dal suo animo. Si sentì inerme, come un infante abbandonato in mezzo a una strada sotto la pioggia.
Nessun pensiero estraneo invase la sua mente, questa volta. Il lupo del fuoco rimase immobile, perfettamente in equilibrio sulla superficie soffice della neve, nonostante la mole. In attesa.
Che cosa vuoi da me?, osò pensare Fersen, cercando di comunicare con lui.
Il lupo non rispose. Continuò a fissarlo, sprofondando Fersen nel disagio.
Fu l’istinto ad accorrere in suo aiuto. L’istinto che aveva guadagnato lo spinse ad accovacciarsi sulle zampe tremanti, avvicinandone una a quelle poderose del grande lupo. Avvicinò la zampa sinistra lentamente, quasi supplicando di non essere attaccato, in un patetico gesto di umiltà. Infine, protese il proprio collo facendolo strisciare lungo la neve, offrendolo in tutta la sua lunghezza. Uggiolò, credendo di chiedere pietà. Una parte di lui ancora non si rendeva conto che la sua era una supplica di perdono.
Il tuo nome adesso è Rasha. Un Rasha è caduto per mano tua, un Rasha sorge ora da te. Rasha è ritrovato.
Fersen si sollevò. Anche alzato, appariva ancora minuscolo in confronto al maestoso capobranco dei lupi di fuoco della foresta di Biancospino. Non sarebbe più tornato umano, ma era una consapevolezza che già si era impadronita di lui tempo addietro. Avrebbe corso nella neve e nell’acqua gelida assieme ai lupi di fuoco, condividendone lo spirito e il destino, fino alla fine dei suoi giorni.
Rasha era ritrovato. 
   
 
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