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Autore: Whatadaph    30/04/2014    6 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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13. Divinazione e foglie di tè

 

 

 

 

Il giardino di casa Dumbledore era sprofondato nel buio.

 

Le figure contorte degli alberi e delle siepi malcurate incombevano nell'ombra, oscure sagome dai bordi indefiniti. Il silenzio era compatto e denso, rotto solamente dal bubbolio di qualche gufo e dal lontano frinire dei grilli. Il vento frusciava sulle cime degli alberi.

 

Il sospiro di Gellert risuonò pesantemente, mentre si guardava attorno, in attesa. Non dovette attendere molto: dopo appena una manciata di secondi, le sue orecchie furono raggiunte dal lieve scatto della porta d'ingresso e dai passi felpati di Albus nel prato incolto.

 

Quando finalmente la figura dell'amico si delineò tra le ombre, Gellert fu piacevolmente stupito nel vedere che i suoi capelli rossicci – bronzo vecchio alla luce della luna – erano liberi dal solito legaccio; ricadevano disordinati a sfiorare le spalle, come se avesse appena sollevato il capo dal guanciale.

 

Le labbra di Gellert si incurvarono spontaneamente in un sorriso, mentre subiva una sorta di sussulto interiore. Da quel pomeriggio – dall'istante esatto in cui suoi occhi avevano letto il nome di Ignotus Peverell inciso su quella lapide – si sentiva addosso una sorta di frenesia. Esaltato e pieno di speranza, non si era mai sentito così vicino al proprio destino come adesso. L'adrenalina non aveva cessato in tutte quelle ore di scorrere nelle sue vene e l'euforia gli faceva ribollire la pelle. Era certo che da quel momento in poi sarebbe stato un crescendo di successi – un'onda dal montare inarrestabile.

 

Gellert Grindelwald e Albus Dumbledore avrebbero viaggiato sulla cresta di quell'onda, come vincitori affamati di giustizia e di potere.

 

Guardando Albus, immobile e silenzioso nell'aria fresca della notte, sentì come il bisogno di avvicinarsi a lui: abituato com'era a dare retta ai propri istinti, allungò il braccio e gli strinse il gomito, percependo con estrema precisione la sua corporeità, il volume in cui viveva nello spazio.

 

Cercando di afferrare la sua anima, in qualche modo.

 

L'altro continuò a tacere, guardandolo in volto con una curiosa espressione. Gellert si sentì improvvisamente meno saldo sulle gambe. Infastidito dalla sensazione che qualcosa stesse sfuggendo al suo controllo, si decise a parlare.

 

“Non dovevamo vederci per proseguire il nostro discorso faccia a faccia?” scherzò a mezza voce.

 

Albus sorrise, serafico. “Così si era detto.”

 

Si accorse di star ancora stringendo il suo braccio: lo lasciò andare, sentendosi subito dopo preda di uno strano senso di vuoto.

 

C'era qualcosa di diverso nell'aria, quella notte. Qualcosa che sembrava lambirlo a tratti e quasi lo infastidiva – non sarebbe dovuto essere così, non adesso che era ad un passo dall'iniziare la ricerca dei Doni e Albus, se non dichiaratamente, era palesemente dalla sua.

 

Naturalmente, l'altro non mancò di rendersi conto del suo malessere. “C'è qualcosa che non va, Gellert?” domandò, posandogli una mano sulla spalla.

 

Come quel contatto – quella connessione tra di loro – si fu ristabilito, si sentì sollevato, come al primo respiro dopo aver lungamente trattenuto il fiato.

 

Sorrise, osservando il volto di Albus, disegnato dalle ombre notturne. “Sto bene,” disse, avvicinandosi all'altro di un passo. “Sono felice.”

 

Io ho bisogno di te e tu di me.

 

Erano parole che lui stesso aveva tracciato, nella sua grafia striminzita e frettolosa: una delle numerose, calcolate frasi che aveva prodotto al solo scopo di tirare Albus dalla sua parte. Ma era del tutto così? O forse c'era un fondo di verità in quelle parole?

 

Dopotutto – si disse – Albus era l'unica persona al mondo che gli avesse mai dato l'impressione di essere adatta a lui.

 

Quel bisogno di fisicità che adesso percepiva ne era la prova: prima di quel momento, Gellert aveva vissuto solo di cervello. La sua mente era ingorda e sempre affamata: qualsiasi cosa vi prescindesse, anche bisogni primari del corpo come bere o mangiare, era necessariamente in secondo piano.

 

Le cose stavano cambiando, evidentemente.

 

“Stavi dicendo,” esordì in tono tranquillo, “che ci sono cose che dobbiamo essere disposti a fare per raggiungere il nostro obiettivo.” Fece una pausa, soppesandolo con lo sguardo. “E tu, Albus? Cosa saresti disposto a fare?”

 

Lui strinse la presa sulla sua spalla. “Per te, Gellert?” Sospirò. “Qualunque cosa.”

 

Si ritrovò a sorridere, sollevando la mano per posarla su quella dell'altro. “L'hai detto tu stesso,” rilevò. “Non sempre la strada più giusta è quella più facile.”

 

“Quasi mai, oserei dire,” convenne Albus. “Dobbiamo essere pronti ad affrontare qualunque difficoltà.”

 

Nelle parole di Albus c'era molto di non detto. Egli sapeva bene che probabilmente si sarebbe trovato ad agire contrariamente a quanto il suo codice morale gli avrebbe imposto, ma si tratteneva dal pensarci perché la cosa lo disturbava. A Gellert, invece, non importava più di tanto di quante orribili cose avrebbe dovuto compiere, perché era tutto per una buona causa.

 

Per il Bene Superiore.

 

“Noi lo faremo, Albus,” mormorò. “Noi due e i Doni della Morte... Pensaci. Chi potrebbe mai fermarci?”

 

 

 

****

 

 

 

“Non eri a casa, questa notte.”

 

Dall'altro capo del tavolo, Aberforth aveva sollevato la testa dai suoi compiti di Pozioni, scrutando il fratello maggiore con gli occhi assottigliati.

 

“Perché dici così?” replicò Albus pacatamente, osservando Abe da sopra l'ultimo libro che Gellert gli aveva prestato.

 

Il minore scrollò le spalle, insolitamente tranquillo. “Ti ho sentito rientrare poco prima dell'alba. Non mi avevi detto che avresti dormito fuori.”
 

“Non ho dormito fuori, infatti,” sottolineò lui, chiudendo il libro. “Ero in giardino e il tempo è passato prima che me ne rendessi conto.”
 

“Da solo?” domandò Aberforth con falso candore.

 

Albus comprese improvvisamente perché il fratello apparisse tanto calmo: probabilmente stava solo cercando altro materiale da covare assieme al suo rancore. Doveva essere davvero molto stanco per non averlo capito subito.

 

“Tu avresti dovuto dormire, a quell'ora,” rimproverò Abe per non dover rispondere alla sua domanda. Per qualche motivo, era certo che la sua espressione nell'udire che era con Gellert – come se non lo immaginasse benissimo! – non gli sarebbe piaciuta affatto, e quella mattina non era in vena di intavolare discussioni.

 

Abe ingoiò il rimprovero e tornò a dedicarsi ai compiti con aria rassegnata. Da qualche parte dentro di sé, Albus si sentì in colpa.

 

 

 

 

Alcune ore più tardi – verso le cinque del pomeriggio – affidò Ariana al fratello e si apprestò a uscire. Il sole splendeva ancora di traverso sui tetti: doveva passare da Gellert e poi proseguire con lui verso il campo di grano, come avevano stabilito di comune accordo la sera precedente.

 

Da parecchio non tornavano al luogo che aveva fatto da cornice alla loro prima conversazione significativa; adesso che erano giunti ad una fase tanto cruciale dei loro piani, avevano sentito il bisogno di tornarvi.

 

Personalmente, all'idea si sentiva in qualche modo trepidante. Era certo che anche Gellert si fosse reso conto che il rapporto in qualche modo stava iniziando a mutare, chissà in quale direzione. Aveva l'impressione che tra lui e il tedesco si fosse sviluppata una comunione di natura profonda, che andava decisamente oltre un sentimento di fraterna amicizia.

 

Per la prima volta in tutta la sua vita, si trovava ad avere paura. Aveva avuto paura il giorno precedente, al cimitero, quando il corpo di Gellert era stretto al suo. La stessa paura che aveva formicolato sotto la sua pelle nella notte appena trascorsa, quando l'espressione dell'altro si era tinta di una sorta di fastidio.

 

Sto bene. Sono felice.”

 

Di certo non poteva permettere ai sentimenti che provava di mettere a rischio la sua amicizia con Gellert. Il loro legame era fondamentale per il futuro dell'intero Mondo Magico.

 

Se davvero fossero riusciti nel loro intento, avrebbero dato l'avvio ad una nuova era. L'utopia si sarebbe fatta realtà: lui e Gellert sarebbero stati fondatori e bilanceri di un mondo perfetto. Forse, grazie ai Doni della Morte, lo sarebbero stati per l'eternità.

 

Era certo che nessuno, oltre a loro, potesse mai essere adatto a quel ruolo.

 

L'arrivo di Gellert lo riscosse dai suoi pensieri. Quasi senza rendersene conto, aveva percorso il breve tragitto che separava la sua abitazione da quella di Bathilda e lì si era fermato, la schiena poggiata contro il muretto a secco.

 

Si beò per alcuni istanti dell'immagine dell'altro, colpito in pieno dai raggi obliqui del sole pomeridiano, che si infrangevano contro i suoi abiti blu scuro e la testa coronata di ricci dorati. Sentì il bisogno di stringerlo e si chiese se era questo che provava Elphias ogni volta che vedeva lui: vuoto allo stomaco, felicità straziante, desiderio inespresso.

 

“Perso nei tuoi pensieri, Albus?” Gellert sembrava sottilmente divertito e per nulla stupito. Notò che aveva l'aria sfinita ma reattiva: il suo volto recava tracce evidenti di stanchezza, ma nei suoi occhi ardeva uno scintillio febbrile.

 

Riconosceva quell'espressione: corrispondeva perfettamente a quanto lui stesso aveva provato in quei momenti in cui il corpo quasi raggiungeva il limite, ma la mente – infaticabile – non voleva saperne di mettersi a riposo.

 

Ebbe la conferma di qualcosa che spesso aveva sospettato: Gellert viveva quella che considerava la sua missione di vita con anima e corpo, lasciandosi coinvolgere completamente in un moto irrefrenabile e appassionato, ai limiti della follia. Ed era allora che, assorbito da quello sfrenato vortice, il suo genio risplendeva in tutta la sua grandezza.

 

“Hai l'aria sfinita,” osservò, senza premurarsi di rispondere alla sua domanda.

 

Gellert scrollò le spalle. “Solo il mio corpo è stanco, Albus, come ben sai.” Sporse il busto, allungandosi verso di lui per stringergli il gomito, come la sera precedente.

 

Qualcosa sembrava essersi sbloccato dall'abbraccio che si erano scambiati il pomeriggio precedente davanti alla lapide di Ignotus Peverell: prima di quel momento, Gellert aveva cercato il contatto fisico con lui assai sporadicamente. Adesso, invece, sembrava che egli stesso ne avesse bisogno.

 

Dopo una breve stretta, Gellert parve in qualche modo più dritto sulle spalle e sicuro nei passi, mentre si voltava e iniziava a precederlo lungo la strada che conduceva al campo di grano. Albus si affrettò a seguirlo, il cuore in gola e un curioso senso di aspettativa che premeva all'altezza dello stomaco.

 

Non si scambiarono molte parole, camminando l'uno di fianco all'altro nel labirinto di viottoli tortuosi che Gellert – Albus lo sapeva – già conosceva a menadito la seconda volta che li avevano percorsi assieme. Aveva capito immediatamente che Gellert aveva solo finto di aver bisogno della sua guida per stabilire una connessione tra di loro. A che pro, allora non avrebbe saputo dirlo; adesso – gettando occhiate furtive alla figura sottile che gli camminava a fianco, appena accarezzata dai raggi del sole, pensò che non aveva molta importanza.

 

L'unica cosa che contava era essere insieme a lui in quel preciso luogo e preciso istante. Oltre ovviamente al Bene Superiore.

 

Insieme, lui e Gellert avrebbero fatto grandi cose: si sentì improvvisamente attraversato da un sentimento di gratitudine profonda. Gellert gli aveva donato quel futuro glorioso a cui credeva di aver dovuto rinunciare per sempre. Gli aveva restituito la vita e la speranza, condividendo con lui il proposito di dare l'input ad un mondo migliore.

 

Albus non aveva mai creduto nel fato: riteneva che il destino non fosse scritto e considerava la Divinazione e le foglie di tè alla stregua di trucchetti da prestigiatore. Coloro che possedevano la Vista erano assai rari, e comunque le loro visioni del futuro dipendevano in gran parte dall'interpretazione che si dava loro.

 

Tuttavia, Gellert era riuscito in qualche modo a convincerlo che quanto si prospettava fosse destinato solo ed esclusivamente a loro; persino a rigor di logica, Albus non poteva dargli torto. Il fatto che si fossero incontrati proprio a Godric's Hollow – luogo d'origine dei fratelli Peverell – non poteva essere solo un caso, una fortuita coincidenza.

 

“Oggi sei pensieroso,” osservò Gellert, intercettando il suo sguardo mentre come sempre l'osservava di sottecchi.

 

“Perché, di solito non lo sono?” Scherzò. “Potrei offendermi, Gellert.”

 

L'altro rise, cristallino. “Non fingere di non aver capito quello che intendevo, ti prego. Non è da te.”

 

Albus incurvò le labbra in un sorriso. “Non lo farò,” promise. “Ad ogni modo, le nostre ultime scoperte mi hanno dato di che riflettere.”

 

“Immagino che sarai giunto ad una conclusione, allora.” Gellert piegò la testa da un lato, il volto illuminato a tratti dal sole che scompariva e si riaffacciava tra gli arbusti. “E che probabilmente sarà quella giusta.”

 

“Lo spero,” Albus chinò il capo per schivare i rami più bassi di un melo, mentre Gellert vi passò sotto senza problemi. Avevano superato il limitare del villaggio, addentrandosi in piena campagna. “Stavo pensando che eravamo in qualche modo destinati a incontrarci qui.”

 

Gli occhi di Gellert furono attraversati da un bagliore improvviso, quasi sinistro. “Non è da te parlare di destino, Albus. Sbaglio o di solito ti ritieni al di sopra di certe sciocchezze?”

 

Le sue parole erano rilassate e giocose, al punto che Albus dimenticò l'oscura scintilla che solo pochi istanti prima aveva balenato negli occhi dell'altro. O forse, scelse deliberatamente di dimenticarla.

 

“Devo ammettere che mi stai facendo ricredere, Gellert, e su molte cose,” mormorò di rimando. “Come hai detto tu, nessun altro può capirci. Come noi, siamo solo in due.”

 

Erano giunti ormai nei pressi della siepe che dovevano superare per raggiungere il loro luogo prediletto. Gellert passò per primo e Albus lo seguì dopo pochi istanti, trovandolo con lo sguardo puntato in lontananza e i ricci dorati baluginanti al sole, smossi da una lieve brezza.

 

Il grano era stato mietuto, ma i monconi delle spighe tagliate erano ancora punteggiati d'oro.

 

Affiancò Gellert, che si voltò di scatto verso di lui, aprendo il volto in uno di quei suoi meravigliosi e inaspettati sorrisi che sembravano ogni volta coinvolgere la sua intera figura.

 

“Sono felice di averti incontrato, Albus.”

 

 

****

 

 

“Dovremmo cominciare con la Bacchetta di Sambuco,” fece Gellert, seduto a gambe incrociate sulla comoda sedia che Albus aveva Evocato per lui. “Tra gli altri, è il più semplice da rintracciare... Una scia di morte e distruzione che va avanti per secoli.”

 

Albus si raddrizzò gli occhiali sul naso, il gomito poggiato sul piano in legno della scrivania. Il sole era quasi del tutto calato oltre l'orizzonte, ma alcuni raggi aranciati si infiltravano ancora tra le tende della finestra, disegnando striscie luminose sui mobili e sui loro corpi. “Non sono d'accordo,” ribatté, studiando le reazioni dell'altro. “La Pietra potrebbe esserci altrettanto d'aiuto.”

 

Gellert sollevò un sopracciglio. “La Pietra è il meno utile dei Doni.”

 

Qualcosa stridette nelle orecchie di Albus, come un campanello d'allarme. Lo ignorò. “Non sono d'accordo,” ripeté. “Richiamare i morti potrebbe essere utile anche per avere informazioni in più.” Rilasciò lentamente il fiato tra le labbra. “Potremmo ricostruire i percorsi che hanno fatto il Mantello e la Bacchetta nei secoli anche in questo modo.”

 

Non disse a Gellert che sperava di richiamare Kendra perché si occupasse di Ariana: era abbastanza certo che non avrebbe gradito.

 

“Solo con l'unione di tutti i Doni si può essere Padroni della Morte,” gli ricordò Gellert. “Con la sola Pietra i morti non possono tornare in vita... Quello che vedresti di tua madre sarebbe solo un'immagine fuligginosa e inesistente. Di certo non in grado di badare ad Ariana.”

 

Si irrigidì a quelle parole: Gellert non gli si era mai rivolto tanto duramente prima di quel momento.

 

Qualcosa gli doleva nel petto. Non disse nulla.

 

L'altro parve accorgersi del proprio errore, perché gli rivolse uno sguardo di pallide scuse. “Perdonami, Albus. Sono molto stanco.”

 

Era abbastanza certo che ci fosse molto di sottointeso nelle parole di Gellert, ma preferì soprassedere. “Forse hai ragione,” cedette infine, perché non desiderava entrare in conflitto con lui. “La Bacchetta potrebbe rivelarsi la più semplice da trovare.”

 

Alla fine, un Dono valeva l'altro. Non aveva importanza l'ordine in cui si sarebbero dedicati alla ricerca di ciascuno di essi, e inoltre il volto di Gellert si era appena aperto in uno dei suoi luminosi sorrisi.

 

Lo osservò alzarsi dalla sedia e iniziare a camminare su e giù per la stanza, tracciando milioni di percorsi sulle mattonelle del pavimento. Torturò con le dita una ciocca di capelli rossicci – aveva deciso di lasciarli sciolti, quel giorno – nel tentativo di sopire l'improvviso istinto di raggiungere Gellert e stringerlo a sé. Dunque si limitò a osservare il modo in cui la luce e l'ombra si alternavano rapide sulla sua figura, a seconda se si trovasse o meno in un punto in cui i raggi del sole riuscivano a trasparire dalle tende.

 

Ebbe l'impressione che qualcuno stesse stringendo il suo petto in una morsa; quella presa somigliava a Gellert, in qualche modo.

 

Cercando d'incanalare da qualche parte la propria tensione, scelse infine di alzarsi e porsi in piedi davanti alla finestra, la schiena poggiata al davanzale; la sua ombra si stendeva oblunga sulla stanza.

 

Fu in quel momento che Gellert improvvisamente si fermò, proprio mentre passava di fronte ad Albus. “La leggenda narra,” disse a mezza bocca, rivolgendosi quasi più a se stesso che a lui, “che Antioch perse la bacchetta dopo essersene vantato pubblicamente. Fu ucciso nel sonno e il suo assassino si impadronì della Bacchetta di Sambuco. Ma questo, Albus, lo sai forse anche meglio di me.”

 

Il giovane annuì. “Per questa ragione la chiamano la Stecca della Morte,” asserì. “Dovremmo fare in modo di visitare l'Archivio Magico Britannico... Sicuramente troveremo qualcosa.”

 

Gellert scosse la testa. “Vecchie pergamene ammuffite... No. Quella parte del lavoro l'ho in parte portata avanti a Durmstrang. Sono riuscito a ricostruire la storia della Bacchetta con relativa sicurezza fino alla metà del Settecento. È praticamente certo che si trovasse in Danimarca fino all'epoca della rivoluzione Illuminista. Sembra sia stata riportata in Inghilterra alcuni anni prima dello scoppio, da un funzionario della delegazione britannica della regina Caroline Mathilde...”

 

Ma Albus aveva smesso di ascoltarlo ormai da qualche secondo. O meglio, aveva distolto l'attenzione dalle parole che Gellert stava pronunciando per concentrarsi invece su di lui, sul suo modo di animarsi nella sua elucubrazione, sulla decisa espressività del suo volto, sul suo energico gesticolare.

 

Fu in quel momento che realizzò con sgomento che i suoi sentimenti potevano effettivamente costituire un problema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'Autrice

So di non aggiornare da più di un anno e me ne vergogno parecchio, ma la Real Life ha avuto bisogno dello spazio che prima non le avevo concesso.

Ad ogni modo, sono qui per finire quello che ho iniziato, ed è quello che farò!

Spero che il capitolo non sia troppo sconclusionato: è in corso da diversi mesi, l'ho scritto a pezzi e ogni pezzo a una certa distanza dal precedente.

Un bacione,

Daph

   
 
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