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Autore: Malvagiuo    01/05/2014    5 recensioni
L'ultimo erede della Casa di Drair è morto. Il ducato è rimasto senza un signore che possa governarlo e presto diverrà preda dei rapaci re stranieri che premono ai suoi confini.
Ma Draimora, bella e coraggiosa madre dell'ultimo duca, non si rassegna a questo fato umiliante e decide di intraprendere la via che potrebbe far risorgere dalle ceneri il suo antico casato, in modo che possa regnare di nuovo.
Qual è tuttavia il prezzo che si può essere disposti a pagare per un simile favore?
Genere: Avventura, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I
 
Nella grande camera da letto, quindici anni prima, Draimora aveva dato alla luce il suo unico figlio. Quel giorno, in quella stessa stanza, lo osservava morire.
Drairos non emetteva più alcun suono, i suoi gemiti strozzati erano cessati da circa un’ora. Non sudava nemmeno più: il suo corpo diventava sempre più freddo, la pelle era cinerea e gli occhi non accennavano a riaprirsi. Draimora lo scrutava immobile, in piedi oltre il fondo del letto a baldacchino, immersa nella penombra della camera. La fioca luce che penetrava dalle finestre semichiuse delineava, intorno al capezzale del figlio, le sagome di altre dieci persone. Nessuna delle quali che fosse utile a qualcosa.
Aveva vegliato su Drairos per dodici ore, senza mai muoversi, stoica come le statue degli eroi nembriani che sorgevano nei cortili del castello. Non ascoltava nessuno, vedeva solo Drairos che moriva. In tutto quel lasso di tempo, non aveva versato una lacrima. Non perché non volesse farlo: un torrente di dolore le scorreva dentro con tale violenza da consumarle il cuore. Era la mente a impedirle di piangere. Pur accecata dalla sofferenza, era decisa a non permettere che questa offuscasse la sua ragione. Conservava la propria freddezza ripetendosi di continuo chi fosse e quale fosse il proprio dovere.
Draimora era l’unica figlia di Drairen il Falco, caduto nella difesa di Valaspra dieci anni prima, ed era stata la moglie di Drairon III, nono signore della Roccia di Nembria. Da lui aveva avuto Drairos, che alla morte del padre, avvenuta nella primavera dello scorso anno, gli era succeduto come decimo signore di Nembria.
L’ardore in battaglia della Casa di Drair, nei secoli, le aveva procurato un nome temuto, onore, terre e ricchezze. Quello stesso ardore, tuttavia, aveva spinto molti Drair a lanciarsi in imprese sempre più temerarie, inebriati dal mito della loro stessa invincibilità. I Drair non muoiono vecchi, si diceva a Nembria. Negli ultimi vent’anni, ben dodici Drair erano caduti in battaglia, quasi tutti senza lasciare eredi.
Draimora aveva sempre compreso bene quale fosse il proprio ruolo. Era costume presso i Drair che la sposa dell’erede del casato fosse una dama appartenente a un ramo cadetto della famiglia. Nel caso di Drairon, la scelta era stata obbligata: Draimora era la sua unica cugina, l’unica scelta possibile in fatto di consorte, dal momento che i Drair non accettavano che estranei, per quanto nobili, inquinassero il sangue del casato. Dalla loro unione era nato solo Drairos, la cui morte avrebbe segnato l’estinzione della linea maschile del casato.
Un impercettibile sussurro distolse Draimora dai suoi pensieri. Niente avrebbe potuto distrarla dalla veglia, ma conosceva molto bene quel tipo di rumore. Per quanto flebile, era sempre stato assordante per le sue orecchie. Al suo fianco destro, Malzar di Elberia manteneva una postura eretta e un’espressione grave, poggiando la mano sinistra alla cintola, in prossimità del fodero della spada. Quello era l’atteggiamento che assumeva ogni volta che si accingeva a dare consigli che sperava non venissero ignorati.
«Non passerà la notte, mia signora» mormorò.
Draimora tacque. Ciò non dissuase Malzar.
«È necessario sistemare molte faccende e il tempo a disposizione è sempre più scarso» disse Malzar. «Siete ancora giovane, e Nembria ha bisogno di un sovrano.»
Draimora avrebbe voluto decretare seduta stante la sua condanna a morte. Una donna più volubile l’avrebbe fatto, ma non lei.
«Quando mio figlio accosterà il proprio scudo a quello dei suoi padri, sarò io a governare Nembria.»
«Certamente, mia signora» concesse Malzar, a bassa voce. «Tuttavia sapete bene che la vostra guida, per quanto illuminata, sarà instabile finché non avrete di nuovo un marito accanto.»
«E voi sapete bene che ormai sono l’ultimo membro della mia famiglia.»
Malzar sospirò. Draimora conosceva perfettamente ciò che il cavaliere stava per dire.
«I tempi e le circostanze impongono di abbandonare la tradizione. È inevitabile che il nuovo sovrano di Nembria non sarà un Drair. Non potete regnare da sola.»
«Questo è un argomento che al momento non intendo affrontare.»
 
Poco dopo il tramonto, Draimora impose a tutti di uscire dalla camera. Rimase sola con Drairos, decisa a vegliarlo fino all’ultimo respiro. Suo figlio era immobile da molto, ma sapeva che la vita, per quanto debole, non l’aveva ancora abbandonato. Aveva tutta la notte per riflettere.
Drairos non era mai stato forte come il padre. A sei anni, quando tutti i Drair impugnavano una lama e indossavano un’armatura per la prima volta, Drairos aveva pianto a dirotto supplicando di non essere costretto a giostrare. Non amava le armi, la presenza dei suoi stessi cavalieri lo intimoriva. Preferiva rifugiarsi nelle ali vuote del castello, dove nessuno lo avrebbe costretto a confrontarsi con qualcun altro. Quasi sempre era Draimora stessa a cercarlo, per evitare che i servitori lo vedessero nello stato in cui finiva per trovarlo ogni volta: in un angolo buio, sdraiato sul pavimento, in posizione fetale, addormentato ma non sereno. I servi parlavano, e c’erano cose che non dovevano essere dette. Altre volte, Drairos fuggiva nei giardini entro le mura, osservando gli alberi e i fiori. Ne adorava uno, in particolar modo: il soffione. Il piccolo adorava soffiare via i semi, affidandoli al vento che li trascinava via, lontano, dopo averli cullati nella brezza.
“Mamma, come si chiama questo?”
“Soffione” aveva risposto lei, sorridendo. “Molti lo considerano il simbolo della vita dopo la morte.”
“Perché?”
“Osserva.”
Draimora aveva preso il fiore e soffiato via i delicati semi biancastri, che erano stati subito trascinati via dalla brezza, in migliaia di direzioni. Dopo pochi minuti, nessuno era più visibile.
“I semi del soffione sono le nostre vite. Vengono spazzati via facilmente e portati via, lontano. Nessuno sa cosa ci aspetta dopo la morte, così come nessuno sa dove va a finire un seme di soffione soffiato via dal vento. C’è una cosa che sappiamo, però: ovunque cada quel seme, lì nascerà un fiore di soffione.”
Draimora aveva fissato Drairos negli occhi.
“Ovunque andremo a finire dopo la morte, là ci aspetta un nuovo inizio.”
 
Suo padre Drairon non tollerava questi atteggiamenti, ma non sopportava di doverlo punire. Assieme a Draimora aveva tentato di generare un altro erede, ma era morto prima potessero riuscirvi.
È colpa mia. Se solo mi fossi attenuta con più costanza ai miei doveri, forse adesso...
Draimora si sedette sul seggio accanto al capezzale. Non poteva cambiare nulla, ormai. Non c’era rimedio a quel disastro. Sentiva il fardello della colpa curvarle la schiena.
 
Quando dalla torre campanaria echeggiarono i rintocchi che annunciavano la mezzanotte, Drairos era appena morto.
Draimora non ebbe bisogno di poggiare un dito sulle sue labbra per constatarne il respiro assente, o di percepire il freddo della sua fronte. Capì che era morto, per istinto. Fu una percezione inspiegabile, come se un invisibile sospiro di vento gelido le avesse improvvisamente congelato il cuore.
Senza guardare il corpo avvolto dalle coperte, uscì dalla camera e chiamò il cerusico. Quando l’attempato chirurgo e il suo stuolo di assistenti ebbero percorso di fretta il corridoio, Draimora si scostò dalla soglia per consentire loro l’accesso e si allontanò. Non c’era bisogno che assistesse anche a quello.
La notte era fresca, ma Draimora ne percepì il gelo con innaturale intensità. Sapeva che d’ora in avanti sarebbe stato difficile provare ancora calore, sensazione che già in quel momento le appariva estranea, come qualcosa di appartenente a un’era passata. I piedi la condussero sull’orlo della balaustra dell’ala nord del castello. Si affacciò, osservando il paesaggio montagnoso che circondava la valle di Nembria: una sconfinata massa di rocce frastagliate contornate dal blu della notte, assediate dalla foschia. Lo strapiombo sotto di lei era insondabile: Draimora non aveva mai saputo quanto fosse profondo, con esattezza. C’era un fiume che scorreva alle pendici del monte, ma se fosse precipitata da lassù niente al mondo avrebbe attutito una caduta.
Quella constatazione portò a una domanda che non aveva mai osato porsi: che senso aveva la sua vita?
Non aveva più un marito e nemmeno un figlio. Non poteva assicurare la prosecuzione della stirpe dei Drair, il compito che le era stato affidato. Che cosa le restava da fare? Sposare un grande signore delle Valli e renderlo sovrano di Nembria? Generargli un erede e consegnare quella terra – la terra che i Drair avevano conquistato e dominato nei secoli – a una dinastia straniera? L’idea era rivoltante.
Eppure, quali alternative rimanevano?
D’un tratto, capì. Ad angosciarla non era il fatto che la sua famiglia fosse estinta, ma la consapevolezza di esserne in parte responsabile. Una responsabilità che la opprimeva, senza lasciarle via d’uscita.
Ma una via d’uscita, in verità, c’era.
Draimora fissò di nuovo lo strapiombo e il fiume che scorreva lì sotto. Il buio e la colpa potevano aiutarla a prendere quella decisione. Forse non sarebbe stato nemmeno doloroso...
Improvvisamente, sentì un morbido tessuto lambirle il collo. Il suo scialle preferito le era stato appena poggiato sulle spalle.
«Prenderete freddo, mia signora. In un momento come questo, la tutela della vostra salute è più importante di qualunque altra faccenda.»
Draimora increspò le labbra in un sorriso, che scomparve l’istante successivo.
«Ti ringrazio, Galir.»
Il vecchio bibliotecario era avvolto in una spessa pelliccia di orso, anche se il freddo non era tale da richiederla. Il folto manto ricopriva l’intero corpo dell’esile vecchietto, lasciandogli scoperta solamente la testa e i fini capelli bianchi raccolti in una coda. Il volto grinzoso esprimeva un cordoglio sincero. Draimora non ricordava un altro aspetto di Galir: da quando era bambina, Galir era sempre stato nel castello ed era sempre stato vecchio. Oltre ad averle insegnato buona parte di ciò che conosceva, era stato per lei un buon amico e un abile consigliere. Fu per questo che condivise con lui la propria inquietudine.
«Non so che cosa devo fare, vecchio amico» bisbigliò. «Mio figlio è morto e presto sarò costretta a risposarmi. Attraverso me, un estraneo erediterà Nembria. Se solo ci fosse un modo per evitarlo... se solo esistesse una speranza di mantenere vivo il sangue di Drair...»
Galir rimase in silenzio a lungo. Di solito, il vecchio aveva sempre pronta una buona risposta o un buon consiglio da elargire. Non quella volta, a quanto sembrava. D’altronde, non poteva averne colpa: quello di Draimora era un problema irrisolvibile.
«Nutrite dubbi sulla mia fedeltà, mia signora?» domandò Galir, d’un tratto.
Draimora si voltò per la prima volta verso di lui. Quelle parole la sorpresero.
«Certamente no, Galir. Avete servito la mia casa con devozione per tutti i vostri lunghi anni. Ne sono piena testimone.»
«Nutrite dubbi sulla mia capacità di ragionare?»
Draimora non capiva il senso di quelle domande. Ma decise di andare fino in fondo, e di stare al suo gioco. Sapeva che tutto ciò che Galir faceva era guidato da precise ragioni.
«No. A ottant’anni, mantenete una lucidità di cui difettano molti uomini della corte.»
«La vostra stima mi onora. Dovevo sapere che opinione avevate di me per rivelarvi quanto sto per dirvi. Non è cosa che si possa rivelare a un orecchio ostile.»
Draimora sbatté le palpebre. Non era raro che il suo più fidato consigliere si esprimesse con tanta cautela, anche se il loro antico rapporto di fiducia avrebbe giustificato un tono più informale. Vi erano occasioni, tuttavia, in cui quel tono così incerto e timoroso era necessario a Galir per introdurre un argomento particolarmente delicato. Questa, capì Draimora, era una di quelle occasioni.
«Parla pure liberamente.»
Galir si schiarì la gola.
«Voi sapete bene con quanta premura mi dedico alla preservazione dei codici della biblioteca. In quel luogo, che è uno dei motivi per i quali la Casa di Drair gode di tanta ammirazione in tutto il mondo civilizzato, sono custoditi libri antichi e meravigliosi, che nascondono segreti strani e incredibili. In questi lunghi anni di studio, sono venuto a conoscenza di un segreto che, forse, vostra signoria potrebbe ritenere interessante conoscere.»
«Ti ascolto. Ma sii più diretto, ti prego.»
«Esiste un modo per richiamare l’anima di un defunto nel corpo che gli era appartenuto.»
Draimora tenne chiusi gli occhi a lungo, distogliendo lo sguardo. Una folata di vento le agitò sul viso una ciocca di capelli sfuggita alla morsa della severa acconciatura da lutto. Non disse nulla per molto tempo.
«Mi rendo conto di quanto ciò possa turbarvi. Ciò di cui parlo è qualcosa di immondo e sacrilego. Il libro da cui ho ricavato il segreto è una riproduzione fedele di un antico codice sulle arti necromantiche. Dopo molte ricerche, posso affermare per certo che il testo non è spurio: è un vero resoconto delle pratiche di necromanzia di Yoriga.»
Yoriga. Molti sarebbero rabbrividiti nell’udire quel nome. Quando un brivido le risalì lungo la schiena, Draimora non riuscì a capire se fosse dovuto al nome del famigerato tempio dei Divoratori di Anime o al freddo incalzante della notte. A dire il vero, la notte pareva esser diventata più fredda subito dopo aver pronunciato il nome di Yoriga.
«Non sapevo custodissimo manoscritti di Yoriga.»
Galir parve rimpicciolire ancora di più, come a voler scomparire all’interno della pelliccia.
«Ho agito con egoismo, mia signora. Temevo che, se voi o vostro marito ne foste venuti a conoscenza, ne avreste ordinato immediatamente la distruzione.»
Galir non aveva torto. Custodire un qualsiasi manufatto proveniente da Yoriga era estremamente pericoloso, non tanto per il potere occulto legato all’oggetto, ma per la pessima fama che accompagnava ognuno di essi: sarebbe stato sufficiente un bisbiglio all’orecchio del più umile cappellano perché un Custode della Luce ne venisse di lì a poco informato. E nessuno, re o imperatore, avrebbe affrontato con leggerezza un processo presieduto da un Custode della Luce.
«Ciò che suggerisci, Galir, è terribile. Mi stai consigliando di celebrare un rito necromantico qui, nel mio castello, sul mio stesso figlio?»
«Non proprio, signora. Non oserei mai nemmeno pensare una cosa simile.»
«E allora cosa consigliavi, esattamente?»
«Di celebrarlo in un luogo sicuro, lontano da chiunque.»
Draimora rimase interdetta. Non poteva credere che quella discussione stesse davvero avendo luogo. Eppure, spinta da una volontà inconscia, proseguì a domandare:
«E chi eseguirebbe il rito?»
«Lo farei io stesso. Ho avuto modo di studiare i manoscritti a lungo, e ne ho carpita l’essenza.»
Draimora si voltò a fissarlo. Gli occhi del vecchio non osarono incrociare il suo sguardo.
«Forse sono stata troppo precipitosa nell’elogiare la tua lucidità, vecchio.»
 
II
 
Quella notte non poteva essere dedicata al sonno, come Draimora ben sapeva. Troppi dubbi assediavano la sua mente provata.
La soluzione proposta da Galir, sotto molti aspetti, appariva peggiore del problema stesso. Draimora sapeva poco o nulla dei necromanti: le loro arti erano abominevoli, i Custodi della Luce li avevano combattuti in una lunga guerra durata centinaia di anni e ora erano scomparsi. Le era stato insegnato che qualunque cosa che avesse a che fare con i Signori della Morte non poteva che essere malvagia e doveva essere distrutta a ogni costo. Non aveva mai riflettuto sulla natura o gli scopi di tali pratiche, non ne aveva mai avuto motivo.
Ora cominciava a vederla in modo diverso.
Quelle arti erano davvero tanto empie? Perché riportare in vita un morto era sbagliato? Se a una madre fosse stato restituito il figlio, che male poteva esserci in questo?
Poche ore prima, aveva accarezzato l’idea di gettarsi nel vuoto. Fuggire da ogni colpa, da ogni responsabilità. Fuggire, non pensare più a nulla per sempre. Draimora non voleva morire, ma non voleva nemmeno vivere tormentata dal peso del rimorso. Se esisteva davvero una possibilità di ravvivare la fiamma morente della Casa di Drair, non valeva la pena prenderla in considerazione? Non avrebbe dovuto tentare ogni via, per quanto folle?
Draimora capì che quella notte avrebbe dovuto scegliere quale strada percorrere: seppellire per sempre la Casa di Drair, o farla risorgere?
Che cosa era più giusto?
 
Galir fu svegliato appena prima dell’alba, convocato con urgenza da sua signoria.
La sala delle udienze era silenziosa e sgombra. Una decina di candele illuminava lo scranno vuoto del signore e, a fianco, la più bassa seggiola della madre reggente, dov’era seduta in quel momento Draimora. L’araldo che l’aveva chiamato non entrò nella stanza. All’interno, non c’erano servitori. Solo loro due, faccia a faccia.
«Ho preso la mia decisione, Galir» disse Draimora con un mormorio che echeggiò nell’ampio salone come un rimbombo. «E sono pronta ad accettarne le conseguenze. Preparati a svolgere il tuo compito, partiremo oggi stesso. Non abbiamo più tempo.»
Galir deglutì, ma non rispose. Si limitò a inchinarsi e a prendere congedo. Quando fu uscito dal salone, Draimora richiamò l’araldo.
«Svegliate anche il cerusico. Ditegli che il corpo di mio figlio non sarà cremato. Desidero che venga conservato e trattato affinché rimanga incorrotto per il maggior tempo possibile.»
 
Nubi di pioggia si addensavano all’orizzonte quando la carovana partì. Il convoglio era molto esiguo, ben lontano dalle processioni sfarzose di cui la Casa di Drair aveva fatto sfoggio nei secoli passati. Draimora era a cavallo e indossava un semplice mantello nero pesante, il cui cappuccio le copriva la testa per intero. Anche se nessuno avrebbe osato fermarla lungo la strada e non corresse in realtà un vero pericolo, preferiva non essere riconosciuta. Galir la seguiva, assieme ai dieci cavalieri più fidati della guarnigione del castello, tra i quali Malzar di Elberia. Una coppia di palafreni tirava un carro, che trasportava – oltre ai viveri – una botte sigillata al centro della piattaforma, assicurata da cunei e funi fissate ai bordi del mezzo di trasporto. La botte era ricoperta da una spessa coperta, e solamente Draimora e Galir sapevano cosa contenesse. Ai cavalieri era stato ordinato di proteggere il carro a costo della vita, anche di quella della stessa signora di Nembria.
«Sei sicuro di essere in grado di portare a termine quest’impresa?»
Galir affiancò la propria cavalcatura a quella di Draimora.
«Sono sicuro di ciò che ho appreso, benché non l’abbia mai potuto sperimentare.»
«Un modo come un altro per dire che non sei sicuro.»
Galir tentò di replicare, ma Draimora lo interruppe.
«Quanti altri segreti mi hai celato fino ad oggi, Galir?»
«Solo questo, mia signora. Un saggio sa che esistono cose che è meglio non divulgare, non perché siano pericolose, ma perché il mondo non è ancora pronto per accettarle. Ho serbato il mio segreto nella speranza che un giorno potesse servire il casato. Se non lo avessi fatto, non ci sarebbe stata concessa questa unica opportunità per far risorgere il sangue dei signori di Nembria.»
«E quale sarà il prezzo di questa opportunità?»
Il vecchio si voltò a osservare il carro alle loro spalle. O almeno così credette Draimora. In realtà, Galir osservava i servitori e i cavalieri che li accompagnavano. Il bibliotecario sapeva quanto il rituale fosse rischioso, sapeva che dei sacrifici sarebbero stati indispensabili. Che cosa avrebbe dovuto rispondere alla signora? Galir comprendeva quanto poco fosse convinta, in realtà. Era in bilico tra il desiderio di evitare a ogni costo la scomparsa della Casa di Drair e il terrore delle conseguenze dell’atto che stavano per compiere. Se le avesse detto tutto ciò che sapeva, era quasi certo che lei avrebbe rifiutato.
Galir fu pervaso da un sentimento confuso: provava frustrazione, rabbia, angoscia e speranza mischiate assieme. Era disposto a tutto pur di portare a compimento la propria opera. Non poteva permettere che i suoi disegni venissero distrutti a un passo dalla vittoria. Era tardi per tornare indietro, ormai: sapeva che non avrebbe avuto un’altra occasione per ridestare l’antico sapere di Yoriga. Come tutti, si era avvicinato alla scienza della necromanzia con sospetto e timore; a mano a mano che ne aveva dipanato i misteri, tuttavia, la meraviglia si era accresciuta. Interi mondi gli erano stati mostrati, prospettive impensabili per qualunque uomo, poteri che una mente ignorante non avrebbe mai potuto concepire. In possesso di una tale conoscenza, Galir era stato sopraffatto dall’irresistibile impulso di toccare con mano il potere dei segreti di Yoriga. Ma come?
Galir era vecchio e debole. Gli sarebbe stato impossibile uccidere qualcuno con le proprie mani. Non poteva contare su complici: nessuno al castello l’avrebbe mai aiutato in un simile proposito, né con la minaccia né con la corruzione. Inoltre, avrebbe attirato troppa attenzione su di sé. Ma un giorno gli si era presentata, allettante e imprevista come un’amante, la soluzione al dilemma: poche gocce di veleno nel calice del signore di Nembria, ultimo della sua casata.
Galir vi aveva riflettuto a lungo. Conosceva bene la tradizione dei Drair: solo al puro sangue di Drair spetta regnare su Nembria. Ma con la scomparsa dell’ultimo erede, che ne sarebbe stato della signoria? Che cosa sarebbe stata disposta a fare Draimora, ultima dei Drair, pur di mantenere in vita la sua stirpe? Fin dove si sarebbe spinta una madre per riavere il figlio? Galir aveva deciso di scoprire la risposta a quelle domande.
Ma ora Draimora era incerta.
Galir voleva rassicurarla, ma non sapeva come. Ma fu lei a toglierlo da quella situazione spinosa.
«Non importa. Preferisco non saperlo.»
 
Il forte di Collerto si stagliava sulla sommità di una collina lambita a est da un ampio corso d’acqua. Per raggiungere il sentiero che conduceva alle mura era necessario attraversare il guado ai piedi del colle, via percorribile solo prima della stagione delle piogge. Benché ancora solido e collocato in un’ottima posizione strategica, il forte era abbandonato da molti anni: le campagne belliche di Drairon III avevano richiesto molti più uomini del previsto, e ogni soldato di Nembria era stato richiamato sotto le armi, compresa la guarnigione di Collerto. Il piccolo maniero era isolato, sicuro e irraggiungibile per ogni visitatore indesiderato.
Uno dei servi, Tarl, aiutò Draimora a smontare da cavallo.
Occorse tutta la mattinata per varcare i cancelli e occupare il castello, a causa del carro che doveva essere sospinto lungo il sentiero in salita. Dopo una breve sosta e un ancor più breve pasto – che Draimora saltò – Galir cominciò a prepararsi per svolgere il proprio compito.
Esplorando il maniero, Galir aveva individuato una camera adatta allo scopo. Si trattava di un’ampia sala circolare, circondata da pareti di pietra e priva di finestre. Doveva essere stato un magazzino, probabilmente svuotato all’epoca dell’abbandono. Il bibliotecario richiese l’aiuto di Tarl per allestire tutto l’occorrente. Assieme, prelevarono tre delle casse trasportate sul carro, dal contenuto ignoto. Draimora sapeva che in una di esse dovevano celarsi i manoscritti di Yoriga.
Erano trascorse due ore da quando il vecchio aveva dato inizio ai preparativi. Per tutto quel tempo, era rimasto chiuso all’interno della sala, mentre all’esterno giungevano solo pochi, indistinguibili rumori prodotti dalla sua attività. Mentre Draimora attendeva seduta nella sala grande del forte, immobile e silenziosa, rigida come se fosse in posa per uno scultore, Malzar le si era avvicinata.
«Mia signora, ho bisogno di parlarvi.»
«Non ora, Malzar.»
«Temo di dover insistere, vostra signoria.»
Draimora lo scrutò. Gli altri cavalieri erano nel cortile, a sorvegliare l’ingresso. I servitori probabilmente riposavano accanto al carro. Erano rimasti loro due soli nella sala grande.
«La tua fedeltà vacilla, Malzar?» insinuò Draimora, guardandolo negli occhi.
Malzar socchiuse gli occhi. Il suo volto era una maschera indecifrabile. Sapeva che Draimora avrebbe individuato subito il nocciolo della questione.
«Non oserei mai mettere in dubbio il vostro volere, vostra signoria. La mia spada è legata al servizio della Casa di Drair finché esisterà un solo membro di questa casata.»
«Ossia finché avrò vita, date le circostanze.»
«Ciò non è detto, mia signora. Sapete come la penso. Potreste ancora generare un erede da un nuovo matrimonio, un erede che avrebbe nelle vene il sangue vostro e dei vostri padri.»
«Più un bastardo che un vero Drair, vuoi dire.»
Malzar si inginocchiò davanti a Draimora, che rimase sorpresa da quell’azione imprevista.
«Io vi sono più fedele di chiunque altro, a Nembria. Ho ucciso e combattuto per vostro marito e per vostro figlio, nel corso del suo breve regno. Combatterei per voi fino alla morte. Vi sono sempre stato vicino, per difendervi e proteggervi da ogni minaccia. Ho anche viaggiato molto nel mondo, prima di servire la Casa di Drair. In un’epoca ormai lontana, sono stato un Custode della Luce.»
Draimora rimase scioccata. All’improvviso si sentì nuda di fronte al cavaliere, incapace di nascondergli qualcosa. Sapeva che i Custodi della Luce non avevano nome, poiché le loro identità rimanevano segrete per evitare che le arti necromantiche potessero colpirli.
«Ho abbandonato quella vocazione anni fa, ma non ho dimenticato chi erano i miei nemici. Né come riconoscerli.»
L’espressione di Malzar era strana: triste, e al tempo stesso decisa.
«So cosa avete intenzione di fare, ma non vi biasimo per questo. Vi parlo come servo fedele, al solo scopo di proteggervi, come ho sempre fatto.»
Draimora sussultò. Malzar non era un guerriero come tutti gli altri. La sua spada era veloce e il scudo possente, ma le sue armi più potenti erano sempre state una mente arguta e un intuito eccezionale. Draimora comprendeva solo ora di aver commesso un errore a sottovalutare la sua perspicacia.
«Vi scongiuro, mia signora. Non fatelo. Questa... blasfemia è un atto mostruoso. Nessun mortale può interferire nell’opera della morte senza pagare un prezzo tremendo. Io non so cosa vi abbia promesso Galir, ma quell’uomo vi sta ingannando, approfittando del vostro dolore. Io vi imploro: fermate questa follia finché siete in tempo. Avete commesso un errore, ma non è tardi per rimediare.»
Draimora lo squadrò, angosciata. Il cavaliere aveva fatto risorgere in maniera prepotente tutti i dubbi che l’avevano assillata fino a quel momento. Ricordò che aveva preferito non sapere le conseguenze del rito, ma poteva davvero permettersi di non conoscerle? A che cosa stava davvero andando incontro?
«Vattene, Malzar. Lasciami sola.»
Malzar non disse nulla. Si sollevò in piedi e le rivolse un ultimo, breve cenno con la testa. Uscì dalla stanza lentamente, accompagnato dai brevi tintinnii metallici prodotti dagli speroni.
 
Aveva diritto di sapere.
Aveva il dovere di sapere.
Bussò al portone chiuso della camera di Galir. Colpi decisi, frenetici.
«Non sono ancora pronto, vostra signoria.»
«Apri questa porta, Galir.»
«Signora, ve lo ripeto, l’allestimento non è ancora...»
«E io ti ripeto di aprire questa maledetta porta. Non osare contraddire nuovamente un mio ordine.»
Dopo pochi, interminabili attimi di silenzio, un chiavistello ruotò nella toppa della parte interna del portone. La soglia fu spalancata e Galir apparve nella penombra, bloccando il passo.
«Mia signora, io...»
«Voglio vedere che cosa stai facendo.»
«Draimora, vi prego...»
Draimora dovette ricorrere alla forza per farsi strada. Scostò il vecchio con una spallata e penetrò nella sala. Ciò che vide, là nella penombra, avrebbe popolato i suoi incubi per sempre.
La sala circolare era buia, flebilmente illuminata da due candelieri posti accanto alle pareti. Un sinistro bagliore rossastro permetteva di delineare i contorni degli oggetti disposti sul pavimento. Draimora non sarebbe mai riuscita a descrivere ad altri che cosa fossero o come fossero fatti, tutto quello che poteva descriverne era la sensazione che trasmettevano: quegli idoli risvegliavano nella mente le più oscene e abiette pulsioni di un essere umano, erano simulacri in grado di rievocare l’inferno annidato nel cuore di ognuno. Erano disposti in cerchio attorno a qualcosa di informe, lucido e gocciolante.
I resti di Tarl.
Il suo corpo non era più integro, ma trasformato in qualcosa che di umano non aveva più nemmeno la parvenza. Una volontà folle, impossibile da immaginare per una mente razionale, aveva ridotto quel servo, quel giovane senza tanti pensieri, in una creatura che nulla più aveva in comune con i suoi fratelli di un tempo.
L’essere respirava ancora. Un gorgoglio, un sibilo incessante, che avrebbe perseguitato Draimora ogni volta che avesse chiuso gli occhi.
Senza che se ne rendesse conto, Draimora afferrò uno dei candelieri e lo scagliò addosso alla creatura che un tempo era stata Tarl. Aveva agito inconsciamente, come in un preda a un irrazionale istinto di sopravvivenza. Galir urlò, ma Draimora lo sentì appena. Non si rese nemmeno conto che il vecchio le stringeva il collo. La presa delle sue dita diventava sempre più forte, sempre più implacabile. Draimora vedeva solo la cosa che bruciava.
Galir le gridava qualcosa, sembrava rimproverarla. Lei non riuscì a distinguere nulla. D’un tratto, però, sentì che l’aria cominciava a mancarle. Prima che il buio ottenebrasse il suo campo visivo, vide che la luce inondava ogni angolo della stanza: le fiamme stavano divoravano tutto, inghiottendo loro, Tarl, i simulacri, le pareti e tutto il mondo che li circondava.
 
III
 
Quando Draimora si svegliò, le stelle la sovrastavano.
Un tenue bagliore rossastro le illuminava il viso, una luce dalla quale si ritrasse istintivamente. Rivide in un istante la scena all’interno della camera nel cuore di Collerto. Prima che ulteriori ricordi potessero nuovamente precipitarla in uno stato di incoscienza, si accorse che il bagliore era prodotto da un falò da campo. Era circondata dai suoi cavalieri, compreso Malzar, e da quattro servi. Di Galir non c’era traccia.
«Che cosa... dove...?»
«Dovete riposare, mia signora» giunse la voce di Malzar a rassicurarla.
«Io non posso riposare... dove mi trovo?»
«Siete al sicuro, ora.»
«Galir... ditemi dove...»
«Galir è stato punito per il suo tradimento» aggiunse Malzar, con tono aspro. «Quando l’ho sentito urlare, sono accorso in quella camera maledetta, e ho visto che tentava di strangolarvi. La mia lama si è abbattuta immediatamente sul suo cranio, dopodiché vi ho trascinata fuori. Collerto è distrutto. Le fiamme lo hanno divorato.»
Malzar non accennò a Tarl, e di questo Draimora gli fu grata.
«Stiamo tornando al castello. Nembria vi aspetta. Domattina sarete a casa.»
Draimora chiuse gli occhi ma non si addormentò, nonostante la stanchezza. Per un istante, rivide l’orrore vissuto poche ore prima. Il senso di sollievo derivato dalla consapevolezza della morte di Galir, della distruzione dei simulacri e dei manoscritti di Yoriga nell’incendio e della fine di quella spaventosa avventura non era sufficiente a lenire la sua angoscia. Che cosa aveva cercato di fare Galir? Era davvero intervenuta in tempo per fermarlo? Non in tempo per evitare il tremendo destino di Tarl, in ogni caso.
In quel momento, Draimora si chiese che cosa ne sarebbe stato di lei. Per la prima volta non era il fardello del dovere a opprimerla, ma la semplice incertezza per il futuro. Non aveva famiglia, e presto non avrebbe avuto nemmeno il dominio sulla propria casa. Era sola, e nessuno avrebbe spezzato le catene di quella prigione.
Fu allora che Draimora aprì gli occhi.
Un improvviso senso di scoperta, qualcosa che non aveva mai provato prima, la pervase. Ora sapeva cosa doveva fare. Era così semplice da spaventarla, eppure capiva che era l’unica via da seguire, l’unico modo per essere libera. Aveva sempre saputo cosa doveva fare, fin dall’inizio.
 
La mattina dopo, Draimora e il suo seguito erano a Nembria, come promesso da Malzar. La prima disposizione della signora del castello fu quella di cremare il figlio e di dare finalmente luogo ai riti funebri. Dopodiché, avrebbe comunicato all’intera corte un’importante decisione.
Al termine del funerale, quella sera stessa, Draimora convocò Malzar e i dignitari di Nembria nella sala delle udienze, accogliendoli nella tradizionale porpora dei signori di Nembria, adagiata sullo scranno regale, non più su quello del reggente. In molti, oltre a quella stranezza, notarono l’assenza di Galir, ma nessuno fece domande.
«Signori» iniziò Draimora, «il lutto è terminato e la notte incombe. Sta a voi decidere se quella che seguirà sarà una lunga notte o un breve buio seguito da un’alba radiosa. Il nostro signore è morto senza eredi. In verità, questo non è corretto. Esiste un erede: io.
«Io sono Draimora e appartengo alla Casa di Drair. Rivendico il diritto di regnare sulle terre dei miei padri, diritto che non può essere reclamato da nessun altro. Vi chiedo di riconoscere la mia autorità su Nembria e di porgere omaggio all’ultimo ramo vivente della Casa di Drair.»
Un mormorio si diffuse per la sala. Il significato delle parole scambiate rimase indecifrabile, ma dopo brevi minuti di discussione gli animi iniziarono a calmarsi. Una decina di uomini, alcuni in armatura e altri dignitari di alto rango, abbandonarono la sala senza dire nulla. Subito dopo, alcuni altri li seguirono. L’ultimo a lasciare la sala delle udienze permise a Draimora di capire finalmente su chi potesse contare nella lunga e tortuosa strada che l’avrebbe portata a rivendicare ciò che era suo di diritto. Più della metà dei presenti era rimasta immobile, anche se non tutti apparivano convinti della propria scelta. Draimora ebbe l’impressione che costoro fossero rimasti nella speranza di farle cambiare idea. Sarebbero rimasti delusi.
«Vi ringrazio, voi che siete rimasti. Domani gli araldi proclameranno la successione. Se ciò porterà guerra, affronterò la questione alla maniera dei Drair.»
Draimora si alzò e uscì dalla stanza percorrendo una linea retta tra due ali di folla. Malzar l’aveva guardata con rassegnazione, ma nei suoi occhi aveva individuato un accenno di divertimento. Il vecchio Custode della Luce approvava la sua decisione, anche se egli stesso ancora non se ne rendeva conto.
Raggiunse i giardini, attraverso corridoi vuoti e saloni silenziosi. La natura la circondava. Sentiva il bisogno di stare in mezzo alla vita.
Colse un soffione e ne soffiò via i semi.
Draimora li osservò a lungo volteggiare nell’aria, sospinti lontano, oltre la sua vista, da una volontà quasi magica. Chissà dove li avrebbe portati il destino.
Drairos, ovunque fosse, aveva trovato un nuovo inizio. Lei non aveva il diritto di interferire.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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