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Autore: Shadowolf    03/05/2014    1 recensioni
Per un istante, si blocca con il dito a mezz’aria, a metà del solito movimento. Per un istante, tutto intorno a lui svanisce in un nero indefinito, la luce del display l’unica che i suoi occhi distinguano. Per un istante, la sua mente si ferma e si svuota allo stesso tempo, come anche il suo battito cardiaco.
Genere: Angst, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Tomorrow There'll Be Sunshine And All This Darkness Past'
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NOTA: Si ringraziano i Meat Loaf per la loro versione di It's All Coming Back To Me Now, da cui questa fanfic ha preso ispirazione.

 
There were nights when the wind was so cold
That my body froze in bed if I just listened to it right outside the window
 
Giace al centro del letto matrimoniale, l’asciugamano intorno alla vita ormai rilassato e sul punto di slacciarsi del tutto, i piedi sotto le coperte che ogni tanto smuove per riscaldare altre parti del lenzuolo, il pollice che scivola su e giù lungo il display del suo iPhone, uno sbadiglio riempie la stanza quasi ad intervalli regolari. Le riprese sono partite da solo una settimana ed il suo corpo deve ancora ritrovare il ritmo giusto, quello che ha perso un paio di anni addietro quando il suo (primo) contratto con la Marvel era scaduto e lui aveva detto arrivederci ad Iron Man per un po’. Due anni, per l’appunto, nei quali non è che avesse smesso di recitare o cosa, ma insomma, gli sforzi richiesti dai supereroi non sono gli stessi di un dramma, questo è ovvio. Così adesso che ha ripreso ad indossare l’invisibile armatura si è scoperto un po’ impreparato, leggermente stanco a fine giornata, cosa che fino ad allora non gli era mai capitata. Dopo le prime due notti passate tra incubi di essere arrivato alla mezza età e conseguenti attacchi di panico ingiustificati, aveva preso le redini del gioco in mano, chiamato il suo personal trainer a Los Angeles (che gli aveva mandato via email un allenamento studiato su misura per lui) e il giorno dopo aveva cominciato ad allenarsi per recuperare la sua forma smagliante. Ora, una settimana dopo, si può dire già soddisfatto dei suoi miglioramenti, e a metà strada verso l’obiettivo finale.
Sbadiglia, e lanciando un’occhiata stanca all’orologio in cima allo schermo legge l’ora e si dà cinque minuti di ultimatum, giusto il tempo di finire di scorrere la timeline di Facebook fino a due ore fa. Segue talmente tante pagine sotto mentite spoglie che gli ci è voluta un’ora solo per giungere fin là. Ogni volta che farfuglia tra sé qualcosa al riguardo e sua moglie lo sente, non riesce a scamparsi la puntale battutina di lei su come il suo amor proprio l’abbia messo in quella situazione. Ha ragione, ovviamente, ma la curiosità riesce sempre a prendere il sopravvento su qualsiasi buon proposito lui faccia.
Giù. Giù. Stop. Oh! Giù. Giù. Giù. Stop. Ahahah. Giù. Giù. Giù. Giù. C’mon! Giù. Giù. Gi—
Per un istante, si blocca con il dito a mezz’aria, a metà del solito movimento. Per un istante, tutto intorno a lui svanisce in un nero indefinito, la luce del display l’unica che i suoi occhi distinguano. Per un istante, la sua mente si ferma e si svuota allo stesso tempo, come anche il suo battito cardiaco. Per un istante, il singolo istante che intercorre da quando legge la notizia a quando il suo cervello la processa, sente la propria figura disintegrarsi in un milione di pezzi e scomparire nell’aria.
 
There were days when the sun was so cruel
That all the tears turned to dust and I just knew my eyes were drying up forever
 
La luce che traspare da dietro le tende al mattino lo fa risvegliare da una notte passata a girarsi e rigirarsi tra le coperte, tra sogni dal retrogusto di incubi e veglie cariche di una pena angosciante, profonda e dal sapore acido. Il primo pensiero coerente che riesce a mettere insieme è Thank God, I don’t have to be on set today. Perché il suo cervello è un disastro, e non osa immaginare la sua faccia, carica dei segni della lotta interna che lo sta divorando da quando ha letto quelle quattro parole del titolo dell’articolo ieri sera. Sospira profondamente e si tira su a sedere, incrociando le braccia sulle ginocchia alte e lasciandoci andare la testa su. Strizza gli occhi e lascia passare il tempo, troppo lento per evitargli qualsiasi segno di sollievo. Sa che deve far qualcosa per tirarsi fuori da quella situazione, il prima possibile per non farla sedimentare nel profondo, un lusso che non può – e non vuole – concedersi. Lo sa, e tuttavia è come preso da una paralisi totale. Perché un’altra cosa che sa è esattamente quel qualcosa. Sospira ancora, e allunga una mano verso il comodino, a prendere il cellulare. Se lo gira tra le mani come fosse un oggetto nuovo, mai visto prima. Le sente cominciare a sudare, e poi una scarica di brividi gli percorre le braccia, costringendolo a scivolare di nuovo sotto le coperte, intuitivo riparo che funzionerebbe anche se solo il nemico che fronteggia non fosse interno. Fissa il display del telefono per alcuni secondi ancora, prima di cedere, cercare quel numero, aprire la pagina di quel contatto, anche se non ne avrebbe alcun bisogno, lo sa a memoria, nonostante sia trascorso abbastanza tempo dall’ultima volta. Il pollice a mezz’aria, si ritrova indeciso su cosa fare, ancora una volta. Guarda il simbolo della cornetta, e poi quello della nuvoletta. Se non avesse in corpo un tale mix di emozioni riuscirebbe a fare una battuta scontata su quella indecisione. Direbbe che forse una filastrocca potrebbe aiutarlo a scegliere. Ma oggi il suo solito sarcasmo ha deciso di prendersi un giorno di ferie. Non può dargli torto.
«Just do it...» sussurra a se stesso, e la voce risuona sottile e flebile, quasi come non fosse sua. Rabbrividisce al pensiero, e mordendosi le labbra alla fine schiaccia il tasto del messaggio. Quando appare la nuova finestra e abbassa l’altra mano per cominciare a comporre le parole, nota con disagio un leggero tremore. Deglutisce una saliva arida e rimane con gli occhi chiusi per qualche secondo, frasi su frasi a darsi la caccia nel suo cervello, nessuna delle quali sembra essere sufficiente o opportuna abbastanza da spiegare la spinta primaria che lo sta portando a tale decisione. Ha troppo da dire, e un anno e mezzo di silenzio totale pesa più di qualsiasi altro freno. Rinuncerebbe, se solo sapesse come fare. Se solo sapesse come dimenticare.
Digita solo tre lettere: “Hey”.
 
I finished crying in the instant that you left
And I can't remember where or when or how
And I banished every memory you and I had ever made
 
Si chiude la porta alle spalle e respira a fondo, cercando di recuperarne un po’ dopo quella corsa sotto la solita pioggia sottile e persistente che accompagna spesso Londra in questo periodo. È andato avanti per un’ora e dieci minuti, ed è soddisfatto di quel tempo extra che è riuscito a portare a casa. Ha cominciato a correre in modo così persistente poco più di un anno fa, e da allora non ha mai saltato un giorno, per nessun motivo. Quando le condizioni fuori rendono proprio impossibile l’attività usa il tapis roulant nel garage, magari mentre guarda un documentario in tv. Ma la maggior parte delle volte preferisce uscire di casa e andare al parco vicino, perché ha scoperto che non c’è niente di meglio dell’aria fresca (a volte gelida) sulla faccia per chiarirti le idee e ridare fiducia a te stesso.
Va in cucina e si versa del succo d’arancia in un bicchiere, e nel frattempo fa qualche esercizio di stretching, come ha imparato a fare sistematicamente adesso. In passato non se ne dava mai preoccupazione, pensava che fosse un surplus, ma ora è un’altra storia. È tutta un’altra storia. Ha imparato ad essere disciplinato anche nello sport e nella sua vita personale, non solo sul set. Ha due settimane libere ancora prima di cominciare a girare un nuovo film, e si sta godendo questo tempo per dedicarsi a tutte quelle cose per le quali quando è a lavoro non ha il tempo materiale. Una di queste sono i suoi figli, ovviamente. Tornano stasera dalle vacanze di Pasqua con la loro madre, e lui ha già tutto programmato per i prossimi giorni. Sono tre, di età molto diverse tra loro, quindi occorre la giusta preparazione per far sì che tutto scorri liscio e ognuno di loro si diverti il più possibile.
Controlla il telefono per vedere se qualcuno l’ha cercato durante quell’ora e trova soltanto uno schermo vuoto ad attenderlo, cosa che di questi tempi preferisce di gran lunga, visto che è perfino arrivato a volersi sbarazzare dell’apparecchio ad un certo punto, talmente gli faceva male anche solo guardarlo.
Sorride tra sé mentre si siede al divano, bicchiere in una mano, planner nell’altra. Ripassa i piani per i prossimi tre giorni ed annuisce soddisfatto alla propria organizzazione. Da quasi due anni mantiene tutti i suoi impegni familiari e le proprie promesse. Da quasi due anni si considera un papà niente male.

 
But when you touch me like this
And you hold me like that
I just have to admit that it's all coming back to me
When I touch you like this
And I hold you like that
It's so hard to believe but it's all coming back to me
 
Un’ora dopo, fresco di doccia e con i capelli ancora leggermente umidi, si accovaccia di fronte al pc e controlla le varie caselle di posta, cercando mentalmente qualche nuova attività con la quale impiegare il tempo – all’incirca fino a metà pomeriggio, quando ha appuntamento con la sua nuova donna per un aperitivo. Un’altra regola del “nuovo sé” che ha trovato infinitamente utile è infatti quella di ricercare stimoli diversi per giorni diversi, di modo che non ci si ritrovi a fare sempre la stessa cosa, gran pericolo sulla strada di chi cerca di guardare avanti, e non dietro. È sul punto di comprare un biglietto per un film degli anni ’20 in russo quando il telefono dà un veloce suono vivace, segnale di nuovo messaggio arrivato. Aggrotta le sopracciglia e getta uno sguardo in quella direzione per cercare di visualizzare il nome del mittente, ma è troppo lontano sul letto e non ci riesce, per cui gattona verso l’altro lato per prenderlo, tirando ad indovinare chi possa essere. Probabilmente Audrey. O forse Sadie. Spera vivamente che non lo stia avvisando di qualche imprevisto.
Inserisce le quattro cifre del codice e sblocca il cellulare, salvo poi congelarsi in quella posizione, la bocca socchiusa per la sorpresa, le dita che si infreddoliscono nel giro di qualche secondo, le pupille fisse e leggermente dilatate alla lettura di quel nome in cima al messaggio.
«It cannot be true...» è la sua prima reazione, mormorata in una specie di gemito, una ferita mai completamente risanata in procinto di riaprirsi. « No... » deglutisce, ma la sua bocca è secca e gli fa un male cane. «G-Go away...» borboglia, mentre comincia ad avvertire una voragine farsi strada dentro di sé. È un processo dannatamente lento e doloroso, e quel che è peggio è che non ha uno straccio di idea su come fare a porci un freno. Si guarda intorno come in cerca di un qualche appiglio vitale ma non ne trova, ed è costretto a riabbassare lo sguardo sullo schermo e leggere il contenuto del messaggio, come se ne fosse attratto magneticamente. Consiste in una sola, breve parola: “Hey”. Neanche un punto. Niente di niente. Non è nemmeno un acronimo. Tutto ciò a cui aveva lavorato così duramente per così tanto tempo crolla in un solo istante per mano di tre singole, misere lettere.

 
There were moments of gold
And there were flashes of light
There were things I'd never do again
But then they'd always seemed right
There were nights of endless pleasure
It was more than any laws allow
 
Aspetta e aspetta, stringendo il telefono tra le mani, impaziente adesso di avere risposta. Rimane fermo immobile per una decina di minuti, e quando continua a non succedere niente si alza di scatto, abbandonando il telefono sul letto, e spalanca entrambe le finestre, accecandosi da solo con la luce del sole.
«Argh!» bestemmia all’istante, colpito dalla sua stessa stupidità, e prima che se ne rendi conto comincia a mormorare come fosse un mantra: «C’mon, c’mon, c’mon...» lanciando sguardi fulminei verso il posto dove il suo iPhone giace, muto e apparentemente privo di vita. Continua a misurare la stanza con lunghi passi, a tratti chiudendo gli occhi e permettendosi di sperare, per la maggior parte limitandosi a tenere il suo battito cardiaco in regola. Vuole solo una risposta, nient’altro. Non deve neanche essere per forza positiva, o d’apertura: sa di non meritare un cazzo, di averlo trattato come fosse una zanzara fastidiosa nell’orecchio, da ignorare e ignorare finché questa non si decide a tirare le cuoia. Che lo mandi pure a fanculo. Che lo insulti in tutti i modi diversi di cui dispone. È pronto a tutto. Solo, non ad un silenzio che sa di chiusura definitiva, di sentimenti finiti, di porte sbarrate. Di morte.
 
Gli ci vogliono cinque minuti buoni, forse sei addirittura, ma eventualmente il sangue riprende a circolargli in corpo, e lui sbatte le ciglia mentre sente un po’ di saliva entrargli in gola. Poi il suo cervello esplode tutto d’un colpo, le parole gli rimbalzano dappertutto e deve lottare per non mettersi ad urlare. Le alternative sono tante, troppe:
«Go fuck yourself.»
«Hey!»
«Thought you were dead...»
«Hey»
«DISAPPEAR FROM MY LIFE!»
Scuote la testa come se con quel gesto possa anche mandarle tutte via, e poi se la prende tra le mani, resiste qualche secondo ancora prima di iniziare ad urlare, un grido lungo e strascicato, che sembra più un lamento straziato, del tipo che faresti se ti stessero strappando il cuore dal petto. Perché è proprio così che si sente, lacerato in una vecchia ferita con un coltello dalla punta piccola ed aguzza, un male tremendo e sordo, ancora e ancora. Ci era riuscito. Aveva preso tutti quei ricordi e quelle scene e quei sentimenti e li aveva impacchettati, e poi calciati fuori dalla porta, in lacrime, mordendosi il labbro fino a farne uscire un filo di sangue. Era andato avanti, perché aveva dovuto. Era stato così duro che a tratti aveva temuto che non ci sarebbe mai riuscito, ma aveva stretto i denti e lottato, lottato fino a starci male, perché è quello l’unico modo di uscirne, dando il tutto e per tutto. L’aveva fatto e credeva di aver vinto, infine. Era sopravvissuto.

 
If I kiss you like this, and if you whisper like that
It was lost long ago but it's all coming back to me
If you want me like this, and if you need me like that
It was dead long ago but it's all coming back to me
It's so hard to resist and it's all coming back to me
I can barely recall but it's all coming back to me now
 
Un’ora è passata da quando ha mandato il messaggio, e decide che ne ha a abbastanza, adesso. Ormai non si prende più il tempo di pensare, si limita ad infilare a casaccio i primi vestiti che trova e a darsi una lavata veloce, poi è già in portineria, a chiedere di chiamare un taxi, e mentre lo aspetta mastica una gomma dopo l’altra, cercando di resistere alla dannata tentazione di accendere una sigaretta, la prima da tante settimane a questa parte. Quando finalmente la sagoma nera appare nel suo campo visivo, le corre incontro e salta su quasi al balzo, con doppia sorpresa dell’autista che abilmente trasforma un mezzo insulto in una stupita approvazione, che a sua volta svanisce in un mordere di labbra dopo che lui gli comunica l’indirizzo di destinazione («I hate Central London in any day, go figure in a strike day!»). Rimane in silenzio per tutto il tragitto, la sua mente sgombra di pensieri ora ma piena di flashback della loro vita insieme, da quelle prime scintille sul set londinese fino all’ultima, grigia e triste mattina di metà Novembre di un anno e mezzo fa, il litigio finale seguito da un inverno silenzioso e solitario. Scuote la testa a se stesso e poggia la fronte contro il vetro, lo sguardo rivolto verso il paesaggio fuori, nella vana speranza di indurre una specie di sospensione interiore, che però in questo momento è troppo sconvolto e agitato per realizzare. E allora si abbandona a tutti quei ricordi e lascia che gli facciano compagnia fino a quando non comincia a riconoscere le strade che portano alla sua casa, ed una nuova, vispa angoscia prende a salirgli in gola. Il tempo sembra dilatarsi e il tragitto non finire mai, e nello stesso tempo quando il tassista accosta al marciapiede e gli comunica l’importo lui si sorprende ad essere ormai arrivato.
Paga la corsa e scende, solo pochi passi a separarlo dalla agognata meta. Muove il primo e gli sembra costare una fatica immane. Ci mette cinque minuti per coprire una distanza di cinque secondi. Alza la mano e si blocca ancora, indeciso se suonare il campanello o bussare. Dopo un altro paio di minuti opta per la prima. Un tocco stentato, tremante, che voleva essere breve ma finisce inevitabilmente per durare troppo. Deglutisce più e più volte prima di realizzare che non ha più niente da ingoiare se non il suo cuore, che continua a pulsargli troppo in alto in gola.
 
But you were history with the slamming of the door
And I made myself so strong again somehow
And I never wasted any of my time on you since then
 
Non risponderà, ha preso la sua decisione. Degnarlo di una risposta – qualsiasi cosa egli possa optare per scrivere – equivalerebbe a dargliela vinta, o a riaprire quella dannata porta, e dopo tanti sacrifici non ne vale la pena. Se lo ripete ad alta voce come per convincersene, più e più volte, e quando non sembra funzionare (i suoi occhi sono ancora fissi sul display del cellulare) comincia ad insultarsi, per non aver alcun tipo di controllo su come si sente, per quanto semplice sia riempirgli il cuore di una stupida speranza, per come sia facile buttare nel gabinetto trentasei mesi di progressi. Perché la verità è che c’era riuscito, alla fine: anche se non l’aveva dimenticato, era riuscito a rinchiuderlo in una scatola, chiusa a doppia mandata e messa in un angolo oscuro del suo cervello – del suo cuore. Dopo settimane su settimane di lacrime in cui tutto ciò che voleva era strapparsi quel cavolo di dolore dal petto, un giorno aveva deciso di averne abbastanza, ed aveva voltato pagina. Aveva fatto pulizia in casa, nel suo guardaroba, nei suoi ricordi, ed era uscito per strada, aveva trovato un party post-premiere dove bere e ridere e scherzare, e per la prima volta in anni aveva fatto conquiste, passato la notte nel letto di una donna, svegliandosi la mattina dopo con una leggera sbronza e lunghi capelli biondi sul suo petto. E anche se per un paio di minuti si era sentito disgustato da se stesso e da tutto quanto, aveva resistito ad ogni singolo impulso che il suo cuore gli stava gridando e infine ne era uscito vincitore. Da quel momento in poi non ne aveva persa una. Fino ad oggi.
Lo strano suono del campanello lo richiama di soprassalto alla realtà, facendogli finalmente distogliere lo sguardo dal telefono per puntarlo verso una non meglio identificata porta. È talmente scombussolato da avviarsi automaticamente di sotto, abbandonando l’apparecchio sul letto, e mentre scende le scale una piccola parte di sé riesce a chiedersi chi mai possa essere di sabato mattina. Se solo il suo cervello fosse sgombro probabilmente riuscirebbe a mettere i due singolari accadimenti in relazione, ma stamattina non c’è pensiero altro che tenga, e lui giunge alla conclusione più stupida: è il postino.

 
When you touch me like this, and when you hold me like that
It was gone with the wind but it's all coming back to me
When you see me like this, and when I see you like that
Then we see what we want to see, all coming back to me
The flesh and the fantasies, all coming back to me
I can barely recall but it's all coming back to me now
 
Ora che l’ha fatto se ne sta lì immobile, come fosse un soldato in attesa della fucilazione. Non ha un piano in mente, né parole: non ha la minima idea di cosa farà quando quella porta si aprirà. Un’ora e mezza fa andare a casa sua sembrava la cosa più logica di questo mondo, l’istinto glielo gridava a squarciagola, ma adesso che è lì in attesa di giudizio non è più tanto sicuro che questa sia stata una buona idea. Una parte di sé, forse la più razionale, gli sta dicendo di andarsene di là finché è ancora in tempo, ma lui non è mai stato una persona che segue quel lato lì. Chiaramente. Comincia a sentire l’agitazione farsi strada prepotente dentro di sé quando infine un suono di passi riecheggia da dentro la casa. Deglutisce un’ultima volta e poi si ritrova a trattenere il fiato. Il corpo percorso da brividi, e la porta che si apre. Non velocemente, né lentamente: normale. L’ultimo pensiero razionale: he doesn’t know it’s me. Poi nello spazio dove i suoi occhi stavano fissando il numero civico compaiono quelli grigio-verde dell’altro, e tutti i pezzi del suo corpo smaterializzatosi la notte precedente ritornano al loro posto, e lui dischiude la bocca per dire qualcosa ma nessun suono ne viene fuori.
 
Muove gli ultimi passi meccanicamente, facendo appello alla sua indole d’attore per metter su un sorriso di cortesia con il quale salutare il corriere: non deve durare tanto, quel minuto scarso che ci vuole per firmare la ricevuta e portare dentro il pacco o quel che è. Ce la può fare senza tanti problemi.
Afferra la maniglia ed apre la porta, le labbra leggermente in su, sguardo fermo e lieve, le parole che cominciano già a scorrere a metà del movimento e che poi gli muoiono in gola: «Hi, how are y--? »
Si paralizza così, la bocca impegnata ad emettere un you che non verrà mai completato, l’altro braccio poggiato contro il muro, in una posa che avrebbe voluto essere cordiale e informale ma che adesso assume i contorni distorti di qualcosa di troppo grande e potente da contenere. Nella sua testa c’è calma piatta, nessuna traccia di tutti quei pensieri che lo stavano assillando fino a qualche secondo prima. Il cuore, semplicemente, sembra aver smesso di battergli. Effetti degli occhi castano scuro che stanno trafiggendo i suoi. Rimane così per qualche secondo (o forse un minuto?), prima che tutto ricominci a scorrere a velocità tripla, e il suo corpo si affievolisca contro la parete come se privato di qualsivoglia forma di energia, un urlo sordo in testa, mentre lacrime bollenti gli rigano le guance.

 
If you forgive me all this, if I forgive you all that
We forgive and forget and it's all coming back to me now
 
Si fissano immobili per un istante lungo quanto un minuto, entrambi incapaci di proferire parola, e poi lo vede accasciarsi quasi come una foglia morta contro la parete, ed ancora una volta il suo istinto ha il sopravvento e lui si getta in suo soccorso, sorreggendolo ed impedendogli di finire sul pavimento. Riesce a chiudersi la porta alle spalle prima che l’altro esploda di getto, scagliandoglisi contro con tutta la rabbia repressa e cominciando a menare pugni non mirati nella sua direzione, che lui non fa niente per schivare anche se potrebbe senza difficoltà alcuna, conscio di meritarseli tutti quanti, e anche di più.
«GET OUT OF MY FUCKING HOUSE!» urla, spingendolo con forza sul pavimento e finendogli addosso.
«Ju--» cerca di dire lui, ma il resto del nome gli viene tranciato via da un gancio alla mandibola. Vorrebbe urlare per la botta ma non lo fa, mandando in gola il grido, rimanendosene alla mercé della furia dell’altro. Subirà e subirà fin quando non esaurirà le energie, perché sa di meritarsi tutto, e ancora di più. Nella sua mente scorrono tutte le immagini di loro due insieme, i loro abbracci e le loro discussioni, i momenti di debolezza e i baci che ne seguivano sempre, fatte riemergere nella sua testa dalla mera presenza dell’altro. La loro forza è tale che sente gli occhi inumidirglisi, e sa che non è stato il sapore del sangue sulla lingua a causarlo.
I pugni si indeboliscono sempre di più sino a diventare nulli e poi a smettere del tutto, e quando alla fine riesce a guardarlo di nuovo negli occhi lo trova a corto di fiato e stremato, ma allo stesso tempo riconosce una scintilla che gli dà la forza necessaria a tentare di parlare, lottando contro quel rigagnolo rosso in gola.
«I-I’m so-rry... P-Please, ple-ease f-for-gi-give me...» riesce a sussurrare, rabbrividendo e tirando su con il naso, per non soffocare. «I-I... I don’t kn-know w-why... why I d-did it, I... I’m s-so… so s-sorry…»
«I THOUGHT I WAS GONNA DIE, ROBERT! DIE! YOU UNDERSTAND THAT? DIE!» grida l’altro, le guance bagnate e il cuore in gola, prima di strizzare gli occhi e respirare a fondo un paio di volte, per tentare di calmarsi. « I... You said that you loved me, R-Robert, but... I don’t think that was t-true. I-I… I don’t know what it was, but you… you lied to me, for… for four fucking years, you l-lied to me, to my f-face, and I was so… so f-fucking stupid to believe you, that I gave up my whole life for you, my whole fucking life! I gave up everything for you, and you… t-the first real chance you had to… to s-substitute me, you took it, and you… you didn’t give a fuck about what were you doing to m-me, and I just…» scuote la testa e distoglie lo sguardo ora, deglutendo prima di riprendere, con tono sommesso. «I just don’t want to go through all that shit again, I… I wouldn’t be able to forget you a second time, Robert… »
Lo lascia andare e si alza, asciugandosi le lacrime e abbandonandosi sul divano, dove si raggomitola contro se stesso dandogli le spalle. Lui se ne sta lì impietrito per qualche minuto, impossibilitato a muoversi per via di schegge di dolore che gli trafiggono tutto il corpo. Quando infine riesce a riacquistare un po’ di forza, si tira a sedere prima e poi lo raggiunge, deglutendo un paio di volte prima di parlare, la voce strozzata ed esausta. «You know that’s not true. You know that my love was real. Is real. I… I don’t expect you to believe me now, but… I know that you know it, deep down your heart, because… you don’t fight for something that you don’t care at all about. Especially you.» tira un breve sospiro, scoccandogli un’occhiata fugace prima di continuare. «There’s no possible excuse for what I did, and if you’d ask me why I did it, I… The only thing I could say would be, “Because that’s what I am…”, and it would be true, and that’s… what hurts me the most, ‘cause you see, you were the only one who believed I could be better, I could be different, all the other people… they know I’m not perfect and they accept it, but you… that wasn’t enough for you, and I think that’s one of the first reasons why I fell in love with you, and that day… that awful day I could read the disappointment in your eyes, and it was more powerful than any physical wound, and I just… I just couldn’t take it, I couldn’t… stand myself for what I did to you, and to your idea of me. And all this time, I’ve been trying to… convince myself that you were better off me, that I didn’t deserve you, that you were entitled to a normal life, possibly a happier life. But the truth is… I thought I couldn’t face you again after that. » respira a fondo e rimane in silenzio per un paio di minuti, forse in attesa di una risposta, e quando questa non viene si mette in piedi soffocando un lamento e comincia ad avviarsi verso la porta, non prima di aver sussurrato un’ultima scusa. Si sente così svuotato dentro e distaccato da tutto che sulle prime non si accorge delle mani che si posano lievemente sui suoi fianchi, per poi fermarlo e tirarlo all’indietro in un abbraccio che tanto stava agognando. Ingoia la saliva e chiude gli occhi, lasciandosi andare a quella sensazione che così tanto, così troppo sa di casa, di rifugio segreto lontano da tutto e da tutti. Sente le lacrime affiorare in superficie e non fa nulla per fermarle, e quando l’altro gli sussurra “I forgive you...” all’orecchio lui si rigira tra le sue braccia e lo fissa negli occhi per alcuni secondi ancora prima di cominciare a baciarlo, scomparendo in quell’attimo denso di tutti i loro ricordi, le loro promesse e i loro sogni. Gli ritorna tutto in mente con una potenza così disarmante che non può far altro che abbandonarcisi, lasciandosi cullare dal dolce movimento dei loro corpi fusi ancora una volta insieme.
   
 
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