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Autore: Anor    03/05/2014    0 recensioni
Ai confini tra la vita e la morte, solo un corridoio e tante stanze da aprire. Ricordi da spolverare. Verità da riscoprire.
TERZA CLASSIFICATA AL PREMIO LETTERARIO NAZIONALE "ARTE DI PAROLE"
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stirb nicht (Non morire)
 
«Come stai, oggi?»
«Non morire».
Lacrime, singhiozzi, carezze. Parole vuote, domande alle quali non so rispondere, ordini ai quali non posso obbedire. E il dolore.
Mia madre piange, curva sul mio corpo. Mi accarezza i capelli. Mia sorella cammina in cerchio, al lato della stanza. Profuma di patchouli. In silenzio, mi guarda. E poi c’è Andrea, e la sua mano intrecciata alla mia. Sorrido, ma le mie labbra non rispondono. Il petto continua ad alzarsi ed abbassarsi, il cuore batte regolare. Le macchine sbuffano, le gocce cadono ritmiche nella sacca trasparente. E il mio corpo ancora non si muove.
Lo vedo: intubato, disteso, inerme. Il collo sempre più debole piegato all’indietro, gli occhi chiusi, i capelli sporchi e la barba già lunga. Brutto.
È ingiusto, non dovrei essere qui —d’altronde, nessuno pensa di meritarlo. Se quel proiettile fosse stato deviato di un solo centimetro, non sarei disteso sul confine tra la vita e la morte, incapace di muovermi.
In sette mesi e ventitré giorni ho capito che vedermi da un’altra prospettiva non significa riuscire a capire cosa c’è che non va. Ho capito che questa specie di spirito vagante in cui sono rinchiuso non è capace di comunicare niente a nessuno, e nemmeno di interrompere l’afflusso di energia alle macchine per restituire pace al mio corpo martoriato e alla mia famiglia. Quello che posso fare, però, è lasciare il mio contenitore vuoto ed uscire dalla stanza.
L’ospedale non ha altri ospiti che me. Ogni stanza è un ricordo, e ogni giorno una stanza viene sigillata, eliminata, per non essere aperta mai più. Questo significa che più ricordi hai accumulato negli anni della tua vita, più tempo potrai rimanere in questa dimensione. Alla fine rimane una stanza formata da quattro pareti lisce e perfettamente squadrate. Quella è la morte, penso. Jung diceva che le parole con cui descriveresti una stanza bianca, senza finestre né porte, sono le stesse parole con cui descriveresti la morte: torna tutto talmente bene che non può essere una coincidenza.
In sette mesi e ventitré giorni ho aperto meno della metà delle porte, e già più di duecento non esistono più. Ed il muro bianco in fondo al corridoio avanza. Apro una delle porte.
Il pianto acuto di mia madre risuona nella mia testa.
«Quando torni?»
«Non morire».
La domanda esatta, mamma, è: “dove sei?”.
La stanza appartiene sicuramente alla baita nella quale Andrea ed io andavamo per festeggiare alcune felici ricorrenze. Stanza 403, come ogni volta.
«Mi senti?»
«Non morire».
Un’altra domanda corretta, mamma, è: “quando sei?”.
Sette anni fa, prima che mi arruolassi. Era il nostro secondo anniversario. Sorridevo.
La forma dei ricordi è strana: non ci sono suoni, al di fuori dei nostri sussurri. L’ambiente è costruito da ricordi frammentari e si adatta a noi. C’è sempre qualcosa di personale, all’interno della stanza —e quella è la parte di me che muore quando una di queste viene eliminata dal palazzo. Pezzo dopo pezzo il mio cervello si spegne, ed ogni porta che valico potrebbe essere l’ultima: se la stanza scomparisse con ciò che rimane di me al suo interno mi perderei nel niente più assoluto. E dopo una stanza bianca, forse, e forse nemmeno quella. Lancio un ultimo sguardo al passato, poi esco. Non mi volto, sperando che Andrea mi segua. Non mi volto, ma appena la porta si chiude dietro di me sono di nuovo solo: un Orfeo sul monte Rodope.
Mille e mille porte si aprono di fronte a me nella luce bianca del corridoio, e la tentazione di aprirle tutte e perdermi all’interno dei miei stessi ricordi è forte, quasi più dell’odore di disinfettante che impregna piastrelle e pareti. Ma è finito il tempo della languida sofferenza, voglio lottare, voglio uscire da questa gabbia: verrà il giorno in cui accetterò docilmente le sei facce di un bianco cubo che m’intrappoleranno, ma non è questo il giorno. Oggi scioglierò le catene, oltrepasserò il labile confine che m’impedisce di mormorare una parola di conforto a mia madre e di stringere le dita tra quelle di Andrea. Nel bene o nel male mi libererò dalla trappola della mia stessa mente.
Scelgo una direzione e comincio a correre. Una pennellata rossa, abbagliante come un faro nella notte, e la mia ricerca si conclude. La maniglia scotta, ma il contatto è breve.
La stanza profuma di patchouli, come la pelle di mia sorella.
«Hai paura?»
«Non morire».
Mi trovo vicino ad un bimbo di cinque o sei anni: sono io, a casa dei miei nonni, di fronte alla porta che conduce al seminterrato. Sì, Miriam, ho paura. Ma so che non mi sveglierò se non apro quella porta. L’ambiente è deformato, le proporzioni completamente sbagliate. Un senso d’inquietudine e familiarità mi colgono allo stesso tempo. Il bimbo trema mentre avvicina le dita alla chiave. La serratura scatta, la porta si apre con un cigolio, rivelando una scalinata stretta che si allunga nell’oscurità. Il bimbo non scende, una lacrima scivola lungo la sua guancia. Lo supero e comincio la discesa. I dodici gradini sono umidi, l’aria pesante odora di cuoio e di legno bagnato. Riesco a premere l’interruttore che accende un piccolo lume sul tavolo da lavoro ricoperto di attrezzi, e mi aggiro cauto nella stanza. Sopra i tini, vicino ai finimenti per cavalli, c’è una grossa chiave. La prendo, spengo la luce e salgo i gradini tre a tre. Sì, Miriam, ho paura. Ho paura come quel bambino in cima alla rampa di scale, scosso dai singhiozzi. Chissà cosa ha visto, nel buio. Lo supero e mi lascio il cuoio, il legno ed il patchouli alle spalle, sbattendo la porta rossa.
Vorrei riprendere fiato, una volta tornato nel corridoio, ma sento di non aver più molto tempo. Ricomincio a correre, e questa volta so che è la direzione giusta. Arrivo con slancio alla fine del corridoio, dove una grande porta blindata metallica chiude la mia via d’uscita. Inserisco la chiave, ma non gira. Sul lato destro della porta ci sono uno schermo luminoso ed un tastierino numerico a cinque cifre, dallo zero al quattro. Lo stupore mi lascia disarmato per qualche secondo, incapace di pensare ad una chiave. Eppure è la mia mente, il codice l’ho creato io.
Osservo con cura i cinque quadretti bianchi nei quali devono essere inserite le cifre. Numeri. Date. Anniversario? La provo, ma girando la chiave niente si muove. Compleanni? Sono tanti, provo tutti quelli possibili tramite la combinazione dei numeri, ma nessuno è il codice giusto.
In un flash la stanza della baita mi appare davanti agli occhi, le cifre sulla sua porta ardono. 403. Quattro, zero, tre. Ma dove si posizionano questi numeri? Si riferiscono ad una data? Supponendo che siano nell’ordine esatto, 4 Marzo o Aprile 2003?
Ripercorro con la mente il corridoio, torno nella stanza della baita, ma non ci sono altri indizi. Riapro la porta rossa, ritrovo il bimbo piangente e scendo le scale. Anche nello scantinato non c’è alcun indizio. Ricordo che ho risalito in quattro balzi la rampa. Dodici, i gradini erano dodici.
40312. 4 Marzo 2012. Il giorno in cui tutto accadde.
Inserisco il codice: questa volta una luce verde mi conferma l’esattezza della chiave e la serratura scatta. La porta è massiccia e pesante da spingere. So già cosa vedrò, so già cosa mi toccherà rivivere tra pochi secondi.
Era un’ordinaria pattuglia di sorveglianza notturna, con la jeep stavamo percorrendo il confine della zona neutrale. Ero sul sedile anteriore, di fianco al guidatore, e due commilitoni sedevano dietro. Eravamo disarmati, ed un gruppo di estremisti ci ha teso un’imboscata. La prima pallottola è finita nel mio cranio, sfondando l’osso parietale. Ritenzione del proiettile. Operazione. Rischio di meningiti ed altro tipo d’infezioni. Coma. Ed il resto lo sapete già.
Per la prima volta, aprendo una porta, mi trovo in un luogo aperto. Con la mano di Andrea stretta alla mia, lascio che la blindata si chiuda e m’immergo nell’oscurità della zona neutrale.
«Sei pronto?»
«Non morire».
Vedo dei fari in lontananza. Aspetto. La macchina sbanda un po’. Quando si avvicina, sento delle voci. Cantano. È una stupida canzonetta da trincea, impossibile da apprezzare sia per le parole che per la musicalità. Le figure all’interno dell’auto si agitano, e hanno qualcosa tra le mani. Sono armi, quelle: mitra, fucili d’assalto e di precisione.
No, non possiamo essere noi: noi eravamo disarmati.
Quando l’auto si avvicina le figure al suo interno si rendono riconoscibili. Quello sul sedile anteriore sono senza dubbio io. Ubriaco, con in mano un’arma, mi sporgo pericolosamente dal finestrino.
Se avessi un corpo, deglutirei. Se avessi un corpo, avrei la tachicardia. Se avessi un corpo, mi mancherebbe il fiato. Ma un corpo non ce l’ho, e adesso non sono nemmeno sicuro del perché. Cerco la mano di Andrea.
«Continua a guardare».
«Non morire».
La jeep supera pericolosamente il confine e avanza ancora. Non si ferma, fino a che non incontra un gruppo di soldati nemici di pattuglia. La canzone oscena risuona più forte, modificata apposta per loro. Mi vedo scuotere il fucile. Rido. Poi faccio fuoco. La mandibola di uno degli uomini salta. Rido, ancora.
Uno dei commilitoni del ferito spara e mi colpisce in pieno. Il ghigno da ubriaco si congela sulle mie labbra, il proiettile si ferma nel cervello.
Se avessi un corpo, non riuscirei a trattenere i conati di vomito. Se avessi un corpo, starei piangendo. Se avessi un corpo, probabilmente, sverrei. Ma un corpo giustamente non ce l’ho.
«È tutto finito».
«Non morire».
Non è facile obbedire ad un ordine simile, quando scopri di essere un mostro. Ma adesso è finita, non posso uscire da qui se non svegliandomi o morendo.
Andrea mi richiama verso di sé: le nostre mani sono bagnate, ed è difficile mantenere la presa. Chiudo gli occhi, e mi lascio trainare.
«Non morire».
 
La prima cosa che sento è il bip regolare del monitor dei parametri vitali, poi, Andrea che piange sulla mia mano. L’odore di patchouli di Miriam, e mia mamma che singhiozza.
«Non morire».
Non riesco a parlare, non riesco ad aprire gli occhi: l’unica cosa che riesco a controllare sono le dita. Avevo insegnato ad Andrea il codice morse, e spero che lo ricordi.
Ticchetto con le dita sul palmo della sua mano: «Sono qui».
   
 
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