Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: LaMicheCoria    04/05/2014    2 recensioni
2011. Pari a meccanismi di un autonoma, le iridi immobili si animarono, misero a fuoco, rotolarono lungo il bordo delle palpebre e gli si ficcarono addosso.
2013. “Tu che arrivi, ogni volta, come un baluardo di salvezza, un eroe da copertina. Sono tagliato fuori dal mondo, da tutto e da tutti, e l'unico che mi è rimasto, alla fine, sei stato tu. Ci sei sempre tu.”
«Lo sai, no? Gli incidenti capitano.»
Genere: Angst, Azione, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
ood

Disclaimer: I personaggi e le ambientazioni non mi appartengono
La storia è scritta senza fine di lucro alcuno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A tutti coloro che mi hanno seguito, mi seguono e mi seguiranno.
A chi ha fiducia, biscotti al cioccolato e un po’ di follia.
Alla MogliaH, alla mia Tony, a Leslie, alla Steve e alla Tonia,
alla mia Coulson di fiducia
Alla mia Splendore, alle Massoni.
A voi di EFP.
Allo zio Stan.
A me (?)
Oh, basta.
Troppo drammatico.
PARY HARD!!

 

(Se volete, andate QUI per il trailer )

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Heroes?
There is no such thing.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Our Own Demons

 

.

.

.

 

We are each our own devil
And we make this world
Our hell.

O. Wilde

 

 

 

 

 

 

 

{ Prologo ~ File - 0.0 }

 

 

 

 

Polo Nord.
2011.

 

Ad Harlem, Jacobson aveva imparato ad aspettare.
Aspettare che a sua madre passasse la sbronza per camminare in punta di piedi in cucina e rubacchiare qualcosa dalla dispensa. Aspettare che la schiena si fosse fatta un po’ più robusta per caricare cassoni d’acqua sulle spalle. Aspettare che le braccia fossero un po’ più muscolose per deviare il setto nasale del maniaco che aveva cercato di insidiare sua sorella.
Aspettare, dentro la cella in cui i poliziotti l’avevano cacciato a male parole e pugni nello stomaco, che l’uomo in giacca e cravatta davanti a lui dicesse qualcosa. Qualsiasi cosa.
Aveva aspettato un’intera notte che il Man In Black stracciasse la nebbia del proprio Destino, aveva aspettato che gli indicasse la porta della centrale e poi a destra, invece di sinistra, e alla fine, quando l’uomo aveva torto la bocca in un sorriso soddisfatto, Jacobson aveva capito che tutto quell’attendere aveva finalmente cominciato a germogliare.
Non sapeva quali frutti avrebbe dato, se sarebbero stati Pomi D’Oro o semplice gramigna, ma non vedeva il problema: avrebbe aspettato.
Un’intera vita ad esercitare l’arte dell’aspettare, pensava, avrebbe dovuto essergli d’aiuto in quel momento. Messo a riposo sulla lunga panca bianca della struttura provvisoria, Jacobson sedeva con sopra la testa filari oblunghi di neon candidi, sotto le suole degli scarponi isolanti una pavimentazione dalla dubbia origine e dal nome impronunciabile, il vuoto ai lati e arazzi di plastica accartocciata che sospiravano pesantemente, agonizzando, al fiato rauco della ventilazione artificiale.
Fino ad una ventina di minuti prima c’era stato Piotrowski con cui parlare: il polacco era sceso con lui nel budello di ghiaccio incrostato e aveva tenuto alta la torcia perché la luce fiammeggiasse sul lastrone congelato ai loro piedi, creando un effetto non troppo dissimile a quello che ci si sarebbe aspettati da un’epifania divina.
Quindi, quale compagnia migliore per ingannare il tempo. intanto che anche gli altri entravano ed uscivano dallo studio improvvisato del dottor Marlowe? Avevano addirittura scommesso un giro di bevute, una volta tornati a Manhattan. Piotrowski, da buon polacco, diceva che la roba su cui avevano messo le mani era una bomba sovietica o qualche altra ferraglia del genere –Nulla di buono, sosteneva, poteva venire da chi aveva dato i natali a Pierre Bezuchov(1). Jacobson, invece, era sicuro che qualche collega, uno in particolare, avrebbe dato un rene se non tutti e due, per essere al loro posto e godersi lo spettacolo in prima fila.
E tra un’ipotesi ed una teoria, una manata alla spalla, una risata, incredulità, invocazioni a Dio e colorite bestemmie in slang, dialetto e inglese, era giunto anche il turno di Fabian di incontrare lo psicologo.
Precauzione, quella, che Jacobson trovava di per sé altamente inutile: d’accordo, era stata una scoperta eccezionale, ma da lì dal richiedere un supporto per l’intera squadra onde evitare crolli nervosi, psicosi collettiva e altre amenità simili, bhè…Non che Jacobson avesse da ridire o volesse contestare gli ordini dai Grandi Vertici, però gli sembrava una misura di sicurezza davvero, davvero esagerata.
Inoltre, forse per effetto di Marlowe o per qualche calmante disciolto di nascosto negli integratori, nessuno dei compagni uscito dalla conversazione col dottore si era dimostrato così eccitato dalla situazione.
Al contrario, nei loro occhi era visibile una punta di rassegnato rincrescimento, un noncurante disappunto, quasi l’operazione cui erano stati assegnati fosse stata meno di una scampagnata non richiesta al Polo e non avesse portato altro che arsura sulle labbra e dita congelate.
Aveva provato a chiedere dove fosse finito l’iniziale entusiasmo, ma si era sentito rispondere soltanto qualche farfuglio vagamente annoiato.

Ordinaria amministrazione bofonchiavano Sono d’accordo col dottor Marlowe: alla fine non è stato niente di così eclatante come mi aspettavo.
A peggiorare l’umore di Jacobson, poi, era anche la sensazione di non dover essere lì, di star perdendo minuti preziosi in un corridoio impersonale che risucchiava ossigeno e artigliava i polmoni come uno sgradevole attacco di panico.
Non era l’aspettare cui aveva improntato la vita, non c’era  all’orizzonte promessa o deviazione sul sentiero dell’esistenza. Era mera, fastidiosa, snervante attesa, priva di scopo e senza obiettivi.
Non sarebbe dipeso niente dal tempo sprecato ad aspettare che Fabian uscisse e gli dicesse di prendere posto su una seggiole o sgabello o qualsiasi altro aggeggio si fossero portati dietro per far riposare le terga.
Non poteva impiegare quei minuti in preziosi in niente di meglio che torcersi le dita, contare i cristalli di ghiacci spenzolanti fuori della curva gibbosa del corridoio, e ripetersi a memoria, mandare a mente ogni singolo fotogramma di quanto gli era appena successo.
Nonna Julie doveva essere messa al corrente di ogni particolare, non avrebbe sentito rimostranze di sorta a riguardo.
Jacobson appoggiò i palmi delle mani sulle ginocchia e affondò le dita nel tessuto spesso della tuta. Il casco, appoggiato accanto alla coscia, ingoiava e trangugiava il asettico della luce e un po’ balbettava, traslucido, e un po’ ansimava e boccheggiava di grigio e nero.
L’uomo curvò la schiena in avanti, i brividi che saltellavano nervosi da una vertebra all’altra. Non esistevano rumori all’infuori proprio respiro, dell’ossigeno aspirato con rabbia crescente tra i denti digrignati. Non esistevano colori, se non l’immenso, immane, pressante candore che premeva e soffocava da sopra, da sotto, dai lati, da ogni parte e in ogni dove l’occhio potesse guardare.
Per gente abituata a vestire solo ed esclusivamente di nero, tutto quel bianco faceva venire il voltastomaco e girare la testa.
Jacobson sospirò, raddrizzò le spalle e reclinò la nuca all’indietro.
Sperava solo che l’incontro con Marlowe non durasse troppo.
Nel rifugio che avevano tirato in piedi insieme al perimetro d’ordinanza, il cellulare aspettava solo di essere acceso e Jacobson non aspettava altro che digitare veloce il numero di Nonna Julie e raccontare per filo e per segno quanto era accaduto. In vivavoce, ovviamente, perché anche la piccola Sofia, dall’alto del suo metro e dieci, non si perdesse una sola parola.
Bisognava, ovvio, tener conto di un dettaglio trascurabile detto segreto di Stato, ma tanto bastava rattoppare qui, tralasciare un po’ là, omettere questo, modificare quell’latro, e il gioco era presto che fatto.
Non poteva nascondere tutto a Nonna Julie. Una scoperta del genere, un ritrovamento di tale portata andava al di là di quanto Jacobson si aspettasse e per cui avesse mai aspettato.

 

Harlem. Casa Famiglia di Nonna Julie.
2011.

 

Nonna Julie non si chiamava davvero così e di sicuro non era una nonna.
Di nomi ne aveva avuti tanti e tanti gliene erano stati affibbiati nel corso degli anni, ormai aveva perso il conto: aveva più identità di un Agente della CIA o di qualche altra organizzazione da strapazzo il suo piccolo Adrian facesse parte –Accidenti all’età che avanzava, se ne scordava ogni volta il nome.
Adrian faceva buon visto a cattivo gioco quando lei chiedeva di ripeterglielo: diceva che, in caso qualcuno avesse cercato di prenderla in ostaggio per strapparle informazioni vitali, l’organizzazione per cui lavorava sarebbe stata al sicuro anche senza memorie fasulle o altre diavolerie tecnologiche da fantascienza. Al che, Nonna Julie replicava che l’eventualità nemmeno si poneva. Qualunque brutto ceffo avesse avuto la malsana idea di intrufolarsi nella sua Casa Famiglia si sarebbe ritrovato col mattarello a spuntare dalla bocca, ma infilato dall’entrata opposta alla gola.
Non una persona poi così fine e delicata, Nonna Julia, nonostante l’aspetto minuto, le spalle strette strette, la schiena curva e i pince-nez tondi calati sul nasino appuntito e gli occhietti neri, liquidi e amabili.
Ai tempi degli spettacoli nei locali notturni di Harlem era stata la Stella Di Bronzo, acclamata per il colore saettante della pelle sotto le luci del palco, per la linea carezzevole del ventre e del seno, e i capelli che gemevano, ricci e scuri, ad ogni movimento languido del collo. Di quella danzatrice provetta e sensuale, da sogno bianco di colore, era rimasta un’adorabile vecchina con le labbra rugose, uno chignon grigio e sempre abbigliata con simpatici colletti all’uncinetto.
Incuteva ancora timore, però, e Adrian la prendeva spesso in giro, dicendole che avrebbero dovuto arruolare lei al suo posto. Caro Adrian. Era stato lui il primo a chiamarla Nonna Julie e le era tanto piaciuto da non esserlo più scrollato di dosso.
«Via le dita dalla marmellata, Sofia» ammonì Nonna Julie, col suo vocino alto e squillante, mentre si girava a guardare la bimba e si rassettava il grembiule da cucina, lasciando vistose macchie di farina e uovo tra le pieghe e i rattoppi.
Sofia, colta sul fatto, ritrasse la mano e drizzò la schiena, impettita, le labbrucce pressate l’una sull’altra e i pugni tesi contro i fianchi sporgenti. Sollevò il mento con un che di comico e imperioso all’insieme, sbatté le ciglia sottili e raggiunse a passo di marcia una delle seggiole sgangherate attorno al lungo tavolo rettangolare. Lisciò la gonnellina blu a fiori, s’arrampicò appendendosi alla schienale come una scimmietta, e infine si sedette tutta compita, gli occhi da gatta fissi sul cellulare al centro della tovaglia a scacchi bianchi e rossi.
«Chiamerà presto, Sofia.»
Nonna Julie sorrise con dolcezza e abbandonò l’impasto della torta per avvicinarsi alla bimba. Le accarezzò i capelli, pettinandoli con le dita nodose e le unghie sorprendentemente curate e smaltate di rosa pallido. Aveva detto a Sofia che Adrian era andato in viaggio di lavoro, senza specificare la destinazione, e sebbene cercasse di mostrarsi tranquilla per la bambina, non poteva negare a se stessa un’inquietudine nervosa alla bocca della stomaco.
Un crocchiolio preoccupato di sussurri e mormorii, che la teneva sveglia la notte e mal s’accordava alle rosee previsioni di Adrian sull’esito positivo della missione.
Nonna Julie era sorda al bisbiglio della preveggenza: al contrario della sorella, che era in grado di leggere il futuro di mille uomini nei granelli adamantini della sabbia, lei al massimo coglieva uno stralcio quasi inudibile di conversazione, un lampo di colori sfumati, gocce di presentimenti e poco altro. Mai come in quel momento avrebbe scambiato i cerchi dell’iride per la visione mistica di Tabitha -Convinzione, questa, che aumentò e si fece praticamente bollente, le affondò nel costato nell’istante preciso in cui il telefono prese a squillare.
Sofia si tese tutta e Nonna Julia afferrò rapida l’apparecchio. Le dita ebbero un tremito tanto improvviso da rischiare di far cadere il cellulare a terra e romperlo in mille pezzi.
«Adrian?» domandò e tossì un paio di volte per cancellare il balbettio ansioso della voce «Adrian, piccolo mio, come stai? L’op…» la bimba scattò in alto con la testa e la vecchina fu svelta a correggersi «Il lavoro?»
«Oh.» fu la risposta incolore di Jacobson dall’altra parte della cornetta, il tono smangiato da interferenze e cali di linea «Ordinaria amministrazione, Nonna Julie. Sono d’accordo con il dottor Marlowe: alla fine non è stato niente di così eclatante come mi aspettavo.»

 

 

Triskelion.
2011.

 

«Il Colonnello sulla Linea Uno.»
Fu l’avviso professionale della segretaria, la voce al caramello addolcita da un sorriso accondiscendente e impreziosito dall’adorabile riflesso del sole sul collier di perle.
«Grazie, Sonja.»
Chiuse la chiamata precedente e premette il pulsante per dare il via libera alla nuova comunicazione. Intanto che il ronzio della cornetta andava scemando, incastrò il telefono tra spalla e orecchio, appoggiò la mano sinistra alla scrivania e portò le dita della destra a sistemare e giocherellare coi bottoni del gilet grigio.
«Il giorno in cui la Russia dichiarerà guerra all’America so che verrai a trovarmi di persona» disse, non appena al clic! della presa in chiamo si sostituì la voce impaziente del Colonnello.
Mentre l’altro iniziava e continuava e sbraitava la sua arringa, lui incurvò la bocca e prese tra indice e pollice la terminazione della cravatta scura: una macchia giallognola -Forse il residuo spumoso di un cappuccino ingollato alla buona tra un brief e l’altro- campeggiava sorniona tra le striature oblique, rovinando completamente l’elegante raffinatezza del completo.
«No, alla fine si è concluso con un nulla di fatto» replicò, nel sollevare le sopracciglia.
Roteò gli occhi al soffitto, palesando l’esasperazione di cui era preda, si girò a guardare il vasto orizzonte dei tetti newyorkesi oltre le finestre dell’ufficio e appoggiò la base della schiena tra il portapenne e un fermacarte a forma di cubo. Battè la lingua contro i denti e sul palato, si grattò la punta del naso e la guancia destra, pizzicandosi i polpastrelli con la barba ispida; abbozzò un’espressione poco interessata, gli occhi che già vagavano versi altri lidi e tutt’altri pensieri.
«Era soltanto un Pallone Sonda.» si osservò le unghie, annoiato «Ordinaria amministrazione. Niente di così eclatante come ci aspettavamo.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

(1) Personaggio di “Guerra E Pace”

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: LaMicheCoria