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Autore: marani    05/05/2014    1 recensioni
Il primo dei due racconti che fa parte della mia personale 'bilogia' dedicata alle due persone che mi hanno messo su questo mondo. Un 'posto' anomalo e magico. Un bizzarro testamento verbale. Una tormentata discesa nel profondo dei rimpianti e dei rimorsi, alla ricerca di una innocente fanciullezza che razionalmente parebbe persa per sempre. A meno che...
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DOVE FINISCE IL MONDO

1.

(TLAC)
Allora… vediamo un po’ se quest’affare funziona… mmh, dunque… prova... sì, prova…
(TLAC)
(RIAVVOLGIMENTO. ASCOLTO)
(TLAC)
Okay. Fuori il dente, fuori il dolore, come si dice: io so dove finisce il mondo.
Un attimo, calma… Non ho detto quando, ho detto dove. E non è la stessa cosa, se mi è consentito...
E’ un piccolo viottolo, carino anche se per niente vistoso, che si stacca a perpendicolo da un certo punto di una delle piste ciclabili di questa città. Va anche aggiunto, ad onor del vero, che questa sua pomposa denominazione è del tutto fuorviante. Non ha proprio niente a che vedere con la fine del mondo, geografica o temporale o chissà che altro, ma il vecchio ha detto che si è sempre chiamato così, e se poteste darci un’occhiata... beh, immagino che sareste d’accordo anche voi. Non potrebbe chiamarsi in altro modo, in fondo. Perché faccio tanto il reticente dopo aver esordito in maniera così… come dire… lusinghiera ? Bah, forse perché prima vorrei chiarire… soprattutto a me stesso… come stanno le cose. A che punto sono. E per non fare subito la figura del matto, anche se in questo preciso istante l’unico mio spettatore è Albertone, il vecchio beagle di Sandra, intento a fissarmi col suo solito sguardo, a metà tra il perplesso e il canzonatorio
(occhi da prendo-per-il-culo, li definisce quel simpaticone del ragionier Sartori quando ci incrociamo sul pianerottolo, io con la bestia al guinzaglio, diretti verso una passeggiatina "diuretica", e mai definizione pare essere più azzeccata)
Se ne sta mollemente spaparanzato sul divano del salotto, simile ad un imperatore romano nano e affetto da ipertricosi, ed ogni qualvolta la mia voce indecisa riprende, solleva di un mezzo centimetro l’orecchio sinistro.
Unico spettatore, dicevo, di questo mio tentennante monologo di fronte al microfono di questo antiquato registratore, che ho dovuto andare a recuperare su in soffitta, tumulato lassù dall’ultima volta in cui mia moglie ed io ci eravamo "ripromessi" di dare una bella rinfrescata al nostro inglese fermo ad antiche reminiscenze scolastiche. Ho appoggiato una sedia traballante all’anta dell’armadio su cui l’apparecchio era appollaiato, avvolto in un cellophan opaco come fosse un cadavere in un episodio di X-Files (scacciando via dalla testa pensieri scuri e dolenti come denti guasti) e l’ho tirato giù in un tripudio di polvere e mummie di mosche stecchite.
A questo punto credo sia il caso di procedere con un minimo di ordine, per quanto possibile, e magari partire dalle presentazioni. Mi chiamo Marco Vicario, ho grossomodo cinquant’anni, e lavoro in una banca della città. Sono stato sposato per ventitre anni con mia moglie Sandra, prima che lei mancasse, un anno e mezzo fa, e da quel momento vivo da solo in un luminoso appartamento del centro storico
(da solo… ingombrante presenza di Albertone permettendo, naturalmente…)
E non sono matto, come mi sono premurato di precisare come prima cosa. Anche se… voglio dire… già uno che parte con una sparata del genere… sapete com’è, potrebbe essere la vecchia faccenda di cosa sia nato prima, se l’uovo o la gallina o il malato di mente che non si vede tale solo per il fatto di… affermare il contrario. Beh, insomma, per quello che è in mio potere stabilire, non ritengo di esserlo. Almeno non quanto quei folli che prendono a pugni e calci i loro figli neonati, o centrano grattacieli zeppi di gente con aerei usati a mò di proiettili.
E perché allora me ne sto qui ad affidare ad una vecchia audiocassetta cigolante questo mio sconcertante memoriale ? A beneficio di chi ? Non lo so. Non ho mai preteso di avere tutte le risposte, in generale intendo, ed una volta che uno ha metabolizzato questo dato di fatto (non è semplice, sapete, e mica a tutti riesce… anzi, pare proprio che negli ultimi tempi la strafottenza sia una merce che venga via per niente) ci si può anche divertire. Lo faccio perché mi viene di farlo, perché magari a qualcuno, chissà, anche incidentalmente, potrà tornare utile. E poi perché, a parte il bavoso lì sul divano, sono solo (quasi solo) e la mia decisione non causerà il minimo sconquasso, emotivo o materiale, in nessuno.
Quale decisione ?
Oh bè, pensavo si fosse capito. Io, tra un po’, ho intenzione di partire…

2.

C’è una pista ciclabile, in città. La formulo meglio, in modo da far apprezzare la sottile (quanto desolante) ironia di questa affermazione: abbiamo UNA pista ciclabile, degna di tale nome, qui dalle nostre parti. Tutto il resto, con buona pace degli sforzi ecologisti della Giunta, sono spezzoni di cemento più o meno corti, butterati dalle bizze del clima e fatti "lievitare" dalle radici degli alberi, e il più delle volte ostruiti da automobili piazzate giusto sopra con civilissima nonchalanche. Oddìo, neanche la Pista Ciclabile titolare è un capolavoro di estetica ed ingegneria viaria. Niente a che vedere con quello che offrono altri Paesi europei, e non per far sempre i soliti italiani malati di esterofilia che non perdono occasione di dire peste e corna di quello che hanno sotto casa. In qualche caso, e questo è uno di quelli, non c’è proprio storia. Ad ogni modo, la nostra pista ciclabile è ragionevolmente lunga, ragionevolmente carina (si dipana verso est ricalcando il vecchio tracciato della ferrovia, tra filari di viti e sconfinati campi coltivati a granturco e soia, sino a lambire le sagome arrotondate dei colli) e quel che più conta, per i miei polmoni sfiatati da un’onorata carriera di fumatore, decisamente pianeggiante. Anche se sembra un’affermazione buffa e surreale, non mi ci sono messo io sullo scomodo sellino di una bicicletta, bensì, come spesso succede nella vita (per fortuna, mi viene da aggiungere, visto che molto spesso noi umani ci mettiamo d’impegno per sottovalutare le grida d’allarme dell’organismo), le spassionate insistenze del mio medico curante. Che ha pensato bene di dare una bella sterzata alla mia sregolata condotta di vita, comprensibile conseguenza del lutto di cui sono stato vittima, che stava per arrecare danni ben più gravi di quelli che ci si potrebbe attendere. Nel profondo abbraccio della depressione, condita da pacchetti di Camel bruciati, è proprio il caso di dirlo, in meno di un giorno, pasti precari e troppe alzate di gomito, in cui ero (volontariamente) scivolato, non ci si sguazzava per niente male, a dirsela qua. Sempre che si abbia come discutibile obiettivo quello di finire in un bel articolo di cronaca sul quotidiano locale, fin troppo particolareggiato su come il corpo senza vita di M.V., di anni 50, bancario, da poco vedovo, fosse stato rinvenuto nel suo appartamento una settimana buona dopo il solitario decesso.
E se non ci ho pensato un piovoso venerdì sera di un un anno e mezzo fa, di compiere il Grande Passo, lasciandomi alle spalle la sagoma inquietante di un ospedale illuminato a giorno come una nave sul punto di inabissarsi (mentre ero io, quello che stava colando a picco) perché avrei dovuto "scivolarci" dentro mesi dopo, in maniera così disonorevole e squallida ? Se ci ho pensato, quel venerdì d’inizio inverno, mi state chiedendo, o miei inesistenti (o futuri) ascoltatori ? Vi chiedo scusa, ma con tutto il rispetto credo che queste siano confidenze un pò troppo personali. Sono ancora qui, più o meno (fa un male cane ogni benedetto giorno in cui decido di riaprire gli occhi e metter giù i piedi dal letto, ma sono anche convinto che ci voglia molto più coraggio nel restarsene qui a farci i conti), sarà voglia di vivere, o incapacità di morire, decidete voi, io cerco di ripetermi che ne vale sempre la pena. Se si ha un minimo di buona sorte, potrebbero succedere cose come quella di cui vi sto mettendo a parte.
Per cui, il burbero dottor Scotti (sì, proprio come quello dei risotti) ha pensato bene di far fuori due dei loschi figuri della mortale triade, signor Bacco e suo cugino Tabacco, stendendo un velo pietoso su Lady Venere, al controllo della quale stavo già provvedendo di mia involontaria iniziativa (il grafico del calo del desiderio seguiva di pari passo quello delle crisi depressive, e in ogni caso non sono mai stato come quel tipo che interpreta adesso il nuovo 007… e neanche come quello vecchio, ad esser realisticamente sinceri). Fare a meno delle sigarette e dei goccetti non mi sembrò affatto così sconvolgente ed insopportabile... sapete, svegliarsi ogni mattina con una fogna al posto della bocca, un vulcano di catarro incandescente pronto ad eruttare dai bronchi e un batterista rock che ha installato la sua sala prove direttamente dentro la tua scatola cranica… beh, non è certo il massimo della vita, e a volte forse può essere sufficiente solo il pretesto di volerne fare a meno. Il mio timore più pressante, seduto scomodo in quella sedia di fronte alla scrivania del medico, appesantito dalla zavorra dei miei chili in sovrappeso, il fiato corto e sibilante, la fronte imperlata di sgradevole sudore benchè fossimo all’inizio di una fresca primavera, era che venisse pronunciata una parolina-chiave che col sottoscritto non aveva mai avuto grande feeling. E il doc, osservandomi serioso dal di sopra dei suoi costosi occhiali bifocali, la sputò fuori senza il minimo timore reverenziale. E moto, naturalmente, disse, mentre io analizzavo quella breve frase alla ricerca di una qualche intonazione sadico-sarcastica. Che tuttavia pareva non esserci. Senza darmi il tempo di storcere il naso, mi elencò alcune possibili alternative, che avevano tutte il comune denominatore di essere ben poco affascinanti, così io, al termine di una forzata riflessione, optai per il male minore, ovvero le due ruote. Non mi andava, in via del tutto confidenziale, di esibirmi sulla ribalta di un’affollata piscina coperto solo da un misero slip (gli ippopotami non stanno affatto bene, conciati in siffatta maniera), e l’ebbrezza di un infarto sotto il sole cocente di un campo da tennis la lasciavo volentieri a qualche mio collega della banca più intraprendente e sventato.
Per farla breve, alla fine investii un congruo mucchio di quattrini per l’acquisto di una fantascientifica bicicletta (fantascientifica non perché avessi sborsato chissachè, ma solo per il fatto che le bici, al giorno d’oggi, o sono fantascientifiche o ciccia), un paio di guantini a mezza mano e un caschetto protettivo. Il tricheco in mutande non l’avrei fatto neanche morto, ma nemmeno con quell’affare piantato in testa mi sentivo del tutto a mio agio. Cosa volete farci, ognuno ha le sue. A dirla tutta, sempre per via di quella sorta di "zaino alpino" naturale che mi porto sopra la cintura dei pantaloni, non mi è passato per l’anticamera del cervello nemmeno di inguainarmi in ridicole ed aderentissime tutine dai colori improbabili, che stanno decisamente meglio su un fisico alla Cipollini, rispolverando per l’occasione la mia vecchia felpa, sformata ed ampia al punto giusto (t-shirt XXXXXXXL, per quando si scalda l’aria). L’unica concessione all’abbigliamento professionale "impostomi" dalle mie natiche (non si ha idea di quanto siano delicate certe parti del corpo fin che non ci si è sciroppati una ventina di chilometri con un sellino largo una manciata di centimetri sadicamente conficcato nel didietro) è stato un pantaloncino tecnico dotato di un’imbarazzante "rinforzo" in zona strategica, che mi fa assomigliare ad un improbabile lattante di ottanta e passa chili. La prima "uscita" ufficiale, dopo alcuni giri di prova in quartiere durante i quali ho potuto apprezzare l’insospettabile delicatezza delle mie voluminose chiappone, ha previsto la percorrenza di circa un decimo dell’intera ciclabile, che sarà lunga comunque non più di dieci chilometri, prima del crollo su una delle provvidenziali panchine poste ad intervalli regolari. Con i polmoni in fiamme, una cascata di sudore a getto continuo e il cuore seriamente intenzionato a scavarsi un pertugio nel mio petto, forse col sacrosanto obiettivo di abbandonare al più presto quella devastata parodia di corpo umano. Ci avevo impiegato una ventina di minuti buoni a prepararmi, a casa, lottando con i pantaloncini aderenti come se stessi cercando di infilare un cocomero in un preservativo, e un quarto d’ora in tutto era durata la mia barcollante pedalata. Ma su quella panchina, boccheggiante e mezzo storto (sapete, ci vuole un minimo di energia anche nel tirarsi su dritti) ci rimasi un’eternità, svicolando a disagio gli sguardi perplessi e preoccupati di un via vai di ciclisti, corridori, ragazze sfreccianti sui pattini in linea. Immagino che più di qualcuno si sarà chiesto se fosse magari il caso di fermarsi, per chiedermi se avevo bisogno di qualcosa (in ogni caso la mia bocca inaridita avrebbe ostacolato ogni tentativo di cortese diniego), se mi sentivo bene, se preferivo far chiamare qualcuno. Magari una bella ambulanza dotata di unità coronarica d’emergenza. Poi, si sa, la sana diffidenza dei nostri tempi ha avuto presto la meglio su quei flebili slanci d’altruismo, e me ne rimasi là, mezzo di traverso, a fingere di fissare con rapita concentrazione alcuni scarni fili d’erba che si facevano largo a fatica tra una giuntura e l’altra del cemento della pista. Passarono famiglie intere su due ruote, papà scattanti e per niente affaticati, mamme carinissime nelle loro tutine sgargianti, torme di bambini su biciclette di ogni forma e dimensione, addirittura un nonno come quelli delle pubblicità, capelli e baffi folti e candidi, che aveva il fiato persino per chiacchierare col piccolo nipotino seduto sul seggiolino. Passò un’infinità di persone, tutti a rimirare quel vecchio cetaceo "spiaggiato" su una panchina scrostata e zeppa di scritte inneggianti ad amori eterni e fanfaronate sessuali in egual misura, mentre il cielo sopra i Colli si scuriva screziandosi di viola e porpora. Anche se io non ero per niente in condizioni di apprezzarne la malinconica suggestione.
In qualche modo (non chiedetemi come) feci ritorno a casa. Spingendo la bicicletta a mano, è ovvio, e riflettendo seriamente su quanto sarei riuscire a spuntare dal prezzo d’acquisto se l’avessi riportata dal negoziante il giorno dopo. Il mattino seguente, l’ultimo dei miei problemi riguardava l’ipotesi di spingermi fin da Ciscato Cicli, al fine di concludere quella codarda restituzione. Molto più totalizzante era l’esperienza del dolore che stava straziando ogni singola cellula del mio corpo, inchiodato nel letto senza la minima realistica previsione di potermi muovere. Con gli occhi sbarrati, fissi sul soffitto (avevo la concreta sensazione che mi dolessero anche le palpebre, e forse non era solo immaginazione), palleggiai nella mente l’allettante idea di telefonare in banca per darmi malato. O direttamente deceduto. Alla fine il senso del dovere ebbe la meglio, e riuscii ad alzarmi e ad arrivare in cucina. Muovendomi al rallentatore come un centenario artritico che per sovrappiù se l’era fatta pure nei pantaloni, buttai giù due aspirine nel tentativo di lenire almeno in parte i lancinanti morsi dell’acido lattico in ebollizione, e strisciai incontro ad una giornata di cui non riuscivo a scorgere la fine.
Da quel giorno di circa un anno fa, a poco a poco, le cose sono migliorate. Si fa il callo a tutto, nella vita, ne so qualcosa io, e di certo non saranno le "fisime" di un corpo fuori allenamento a buttarmi giù. Per quanto dolorose possano essere (è passata una settimana buona, da quella prima sconfortante performance, prima che prendessi in considerazione l’ipotesi di riinfilarmi quello strumento di tortura tra le gambe). Adesso vado che è un piacere, disinvolto al punto da godermi il panorama e scambiare qualche cortese cenno di saluto nell’incrociare eventuali compagni di scampagnata. Non sono certo diventato un figurino, ci mancherebbe, anche perché non basta una pedalatina quotidiana, tempo permettendo, a contrastare le sirene tentatrici e perniciose di una buona pizza o una grigliata di carne. In ogni caso devo ammettere, con la vergognosa ritrosìa di chi non ci vedeva troppo "dentro", che mi sento decisamente meglio, considerato oltretutto che, come si dice, tutto aiuta, e le rogne del fumo e dell’alcool sono ormai ricordi lontani.
Oh, ma adesso si è fatto tardi davvero, e devo portare giù di sotto Albertone, prima che decida di innaffiare il parquet con una copiosa spruzzata di "eau de pipì"… Bene… direi che come prima seduta è filata via liscia…
A risentirci, dunque, quanto prima…
(TLAC)

3.

(TLAC)
Non me ne sono accorto subito, di quel viottolo. Beh, a dire la verità, in quei primi, massacranti esordi ciclistici non mi sarei accorto nemmeno di un tir col rimorchio lanciato contro di me a tutta velocità, intento com’ero ad arrancare sui pedali, un occhio sigillato dai brucianti rivoletti di sudore e il sibilo surriscaldato del respiro a fare da inquietante colonna sonora. E poi quel posto… come spiegarvi… pur essendo degno di nota… mmh… pareva mettersi d’impegno per dare nell’occhio il meno possibile. Il che è bizzarro in un normale viottolo di campagna, mentre appare molto più comprensibile (perlomeno da un certo punto di vista) se lo si considera come il punto in cui finisce il mondo. In ogni caso, ci sarò di sicuro transitato davanti una cinquantina di volte, prima di buttarci l’occhio, intento probabilmente ad osservare tutt’altre cose, il disegno butterato del cemento, una rigogliosa parata di roseti lungo una rete di recinzione, lo stimolante panorama del fondo schiena di una fanciulla impegnata a fare jogging. E questo nonostante il viottolo si trovi in un punto per niente suggestivo del percorso ciclabile, costeggiante per un lungo tratto la statale che porta verso Noventa, e più giù in territorio padovano, una caotica sequela di auto e furgoni e camion senza un attimo di tregua. In mezzo c’è la strada, come detto, dalla parte dei colli una desolante ed inguardabile zona industriale artigianale, con i suoi capannoncini grigi e sgraziati, e di qua la ciclabile, che si snoda seguendo il corso di un placido canale d’irrigazione.
E proprio lì, dove la pista torna a riinfilarsi in tutta fretta tra i filari di viti e i campi (quasi si vergognasse di essere stata costretta a passare per quell’indecoroso scenario), sorge un ponticello. Prima cosa strana: in tutto il resto della zona, ponticelli grandi o piccoli che scavalchino le acque ferme dei fossi o dei canali sono costituiti da passerelle spigolose di cemento grigio e ringhiere di ferro semiarrugginito. Soluzioni industriali, per niente pretenziose. Quello no. Egli è un delizioso manufatto, dalle spallette composte da pietre squadrate, a congiungere con un dolce arco le due sponde. Al di là, all’ombra di un ragguardevole esemplare di gelso, il viottolo vero e proprio. Leggermente in salita, di polveroso terreno battuto, si arrampica deciso sul terrapieno di un argine rigoglioso d’erba, per sparirvi oltre la sommità.
Non so come spiegarvi, ma dà proprio l’impressione di essere una porzione di luogo estraneo a tutto quello che lo circonda. Come se all’improvviso, voltando un angolo di una via della vostra conosciuta città, vi imbatteste in una selva di grattacieli newyorchesi o la candida spiaggia di una baia caraibica. Non c’entra niente con tutto il resto, per capirci. Se uno si sforza nell’escludere il rombo continuo dei tir dietro le spalle, e a non badare al fluire limaccioso dell’acqua nel canale, potrebbe pensare di star rimirando un’angolo di campagna toscana o inglese. Ed è esattamente la sensazione che provai io quel pomeriggio mentre, senza motivo apparente, mi bloccavo in quel punto. Di solito è così che succede, no ? Non si ha ben chiaro l’impulso che ci fa alzare lo sguardo all’improvviso, a scoprire un particolare architettonico su un palazzo mai notato prima di allora, o una porzione di arcobaleno nel cielo estivo. Però succede. Come ripeto, non so cosa mi spinse a fermarmi là, forse il desiderio di bere un goccio d’acqua dalla borraccia o di frugarmi nel marsupio alla ricerca di una caramella, però lo feci. Lasciai vagare lo sguardo sul fiume di metallo transitante lungo la statale, sulle rose ormai sfiorite che perdevano petali avvizziti come lembi di carta bruciacchiata, divertito dalla risata argentina di due ragazzine che mi sfrecciavano accanto sui pattini. E tutto ad un tratto (anche se so che è un’espressione azzardata) il viottolo apparve ai miei occhi.
"E’ bellissimo", ricordo di aver pensato (lo ricordo come si ricorda il tumultuoso batticuore del primo amore) e, subito dopo, "domani porto con me la macchina fotografica". Cosa che feci, la sera seguente, avvicinandomi a quel punto con l’assurdo e titubante timore di un amante che non è certo di trovare la sua bella all’appuntamento. C’era, naturalmente, e così, con le mani per niente salde, inquadrai ponticello e viottolo nel mirino della mia Canon e scattai. La cosa assolutamente bizzarra ed incomprensibile era come in quel punto non stazionasse perennemente un nutrito capannello di gente rapita da quella visione mozzafiato. Cavoli, sprechiamo secondi preziosi del nostro stringato tempo anche per molto meno… Là di fronte avrebbero dovuto esserci in continuazione persone impalate come il sottoscritto, la bocca socchiusa per lo stupore e la sorpresa, e invece in quel momento, e in tutte le successive occasioni, ero l’unico ad interpretare la parte del gonzo a spasso nel bel mezzo di una pista ciclabile, mentre tutto il resto dei suoi frequentatori mi sfilava accanto imperterrito. Qualcuno di sicuro indispettito dalla mia ingombrante paralisi mistica. E ancora, nelle guide turistiche della zona sarebbe dovuta figurare una segnalazione di riguardo per "un angolo di paradiso a pochi chilometri dal centro storico", alla stregua delle ville palladiane e i percorsi naturalistici sull’Altopiano, così da attirare lì appassionati e amanti del bello, come mosche affamate su una goccia di miele. E invece, ciccia. Quel posto, nato per risuonare di clic di macchine fotografiche e ronzìi di cineprese, non se lo filava proprio nessuno. Ma quali macchine fotografiche, poi ! Credetemi, quello era il punto ideale, se si aveva un minimo di mano felice, in cui piantare un cavalletto con su una bella tela vergine per cercare di immortalare un’indiscutibile materializzazione della Bellezza. Quella con la B maiuscola. Mentre per sicurezza scattavo un’altra posa (una coppia in bici mi superò senza minimamente ficcare il naso sul soggetto di quella mia inquadratura, ed è tutto da dire) convenni con me stesso che, in determinati momenti particolari, che so, sotto una nevicata, o dopo un burrascoso temporale, coi raggi del sole che filtrano tra le nuvole nere come lame di luce abbagliante, o ancora durante un tramonto particolarmente maestoso… beh, l’animo di un eventuale osservatore sarebbe stato messo a dura prova. Quel posto poteva stroncarti con la sua stessa magia.
Mi riscossi (non mi entusiasma usare termini che sottindendano sensazioni diverse da quelle di un normale comportamento cosciente, quali mi apparve o mi riscossi, per l’appunto, ma volente o nolente il senso è quello), girando la testa in direzione dei capannoni industriali al di là della strada, quasi per disintossicarmi da quella overdose di piacere estatico. E il contrasto, ve lo devo confessare, strideva in maniera quasi insopportabile. Nei pressi di una (brutta) villetta in costruzione, un gruppetto di ragazzini era intento ad esplorare una poco affascinante montagnola formata dai detriti del cantiere. Ora, non ricordavo alla perfezione i meccanismi che regolavano la mia, di adolescenza, in tema di tempo libero (era passata un bel po’ di acqua sotto i ponti, per lunghi periodi molto "corretta" con alcolici vari), anche se ritenevo di essere stato, come tutti i ragazzini del mondo, particolarmente attratto da ambienti ben poco suggestivi, tipo cantieri o cave o discariche. Forse perché, a quei tempi, era quello che passava il convento. Però non ero per niente convinto che avrei barattato quel viottolo alla mia destra in favore di un arido (e pericoloso) mucchio di mattoni rotti e pezzi di tegole e ferri arrugginiti. Con la supponente superiorità di chi pensa, anche non volendolo, "Ah, queste nuove generazioni ! Ai miei tempi sì, che si sapeva come divertirsi !", tornai ad osservare in direzione del ponticello, avvertendone (pur se l’ultima volta in cui mi sono creduto un cowboy cacciatore di taglie doveva risalire grosso modo al secolo scorso) tutta la sua ammaliante "promessa" di sapersi trasformare in quello che più ci aggradava. La polverosa main street di Abilene City, ad esempio, dove ambientare duelli all’ultimo sangue, piuttosto che il viale d’accesso ad un maniero medievale popolato da elfi e giganti. O ancora, perché no, il punto di atterraggio di una fantascientifica astronave (ben più della bici che mi dondolava tra le gambe) in esplorazione ad un pianeta incontaminato e solo apparentemente disabitato.
Ricapitolando, c’era più di un particolare che non quagliava. Oltretutto, a guardare meglio, non pareva esserci il minimo segnale che impedisse, come dire, di inoltrarsi in quella direzione. Nessun cancello, né una catena tesa tra le due estremità del viottolo, com’è usanza nelle nostre campagne per tenere fuori dai piedi gli indesiderati. Non si notava alcun minaccioso cartello, dichiarante "Proprietà privata - non oltrepassare !", affisso al possente tronco del gelso, magari "roso" dalla ruggine e sforacchiato dai pallini di qualche cacciatore di passaggio. Il tutto era invitante, come il sorriso di una bella donna sdraiata sul divano di casa, e il desiderio di incamminarsi, magari solo per appoggiare il palmo della mano sulla spalletta del ponte calda di sole, sembrava irresistibile. E che dire del dolce declivio erboso dell’argine, più in là ? Se esisteva un posto ideale al mondo in cui sdraiarsi, con uno stelo d’erba tra le labbra, a rimirare il cielo azzurro, sprecando ore nell’immaginare visi e forme e animali fantastici tra le nuvole candide come panna montata… beh, signori e signore, eccolo servito su un vassoio d’argento ! E non parlo solo di dodicenni annoiati che hanno buon tempo da perdere, ma anche (e soprattutto) per decrepiti impiegati bancari con troppa pancia e pochi capelli…
L’impulso, il desiderio di parcheggiare lì la bici (di lasciarla cadere) e imboccare quella che sembrava essere la Madre di tutti i sentieri fiabeschi mi attraversò il corpo immobile come un fulmine benigno e sensuale.
Non mossi un passo, in realtà.
Né in quel frangente né in nessun’altra occasione, fino a questo preciso momento in cui sono qui a parlarvi attraverso un microfono.
(TLAC)
 
  
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