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Autore: marani    05/05/2014    1 recensioni
La seconda parte della 'bilogia' sui miei. Ma tranquilli, è indifferente leggere prima l'uno o l'altro. Non sono comunicanti. In questo racconto, ho voluto giocare un po' col delicato argomento della scomparsa di chi ci è caro, e con la sconfortante sensazione di non aver potuto... o voluto... dire tutto quello che andava detto. Purtroppo, a differenza della mia fantasia, nella vita vera non sempre si ha una seconda chance.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SANDRO TOSI, GIARDINIERE

1_

- Lo sa che lei assomiglia proprio a suo padre ? -
Mi voltai di scatto, lasciando momentaneamente perdere la distratta lettura di una copia sgualcita della Gazzetta dello Sport, spalancata come da copione sopra l’ampia superficie di un ronzante frigo dei gelati color marroncino. Mi voltai d’istinto, colto un po’ alla sprovvista, certo di rappresentare, dal mio ingresso in quello scalcinato bar di paese una manciata di minuti prima, l’unico e solitario cliente. Non che fosse per niente improbabile, in ogni caso, che in quel breve lasso di tempo qualcun altro avesse potuto fare il proprio silenzioso ingresso nel locale. E questo misterioso, ipotetico avventore attribuii essere, nella frazione di secondo impiegato per perlustrare il locale con lo sguardo, il destinatario di quel quesito-commento, formulato dal rubizzo gestore al di là del bancone. Per una serie di svariati motivi. Non ultimo il trovarmi ad una cinquantina di chilometri dalla città in cui vivo, e che la sosta in quella spruzzata di case sui bordi di una tortuosa strada di montagna, troppo esigue per potersi fregiare della denominazione di paese, era stata del tutto casuale e imprevista. Il fugace apparire di un’insegna d’altri tempi (osteria Ponte Sezza), due tavolini scalcagnati al riparo di vecchi ombrelloni pubblicitari sbiaditi, un’improvvisa voglia di caffè. Caldeggiata dalla presa di coscienza che non fosse poi così tardi, rispetto alla elastica tabella di marcia di quel mio giorno di libertà dal lavoro. E definitivamente suggellata, poi, dalla quasi totale certezza, come ultimo determinante elemento (certezza quasi totale… una contraddizione in termini, forse ? Già, già, ma nella vita è sempre meglio riservarsi un minimo spazio di manovra) che nemmeno mio padre potesse aver avuto occasione di bazzicare spesso in zona. Conoscendolo. Perlomeno non così a lungo da permanere nei meandri della memoria di un abitante del posto, per quanto ferrea quest’ultima potesse rivelarsi. Riconosciuto nelle fattezze non propriamente simili del suo figlio quarantacinquenne, oltretutto, considerato che uno dei tormentoni che hanno accompagnato i lunghi anni della mia adolescenza e maturità, da parte di parenti e affini, era la velata accusa di non somigliare molto al mio segaligno genitore. "Perlomeno non come tuo fratello Aldo". Di conseguenza, tornando alla mia azione iniziale, mi voltai perché qualcuno aveva parlato, del tutto convinto che non stessero rivolgendosi a me. Con una punta di inspiegabile disagio, dovetti prender atto che, su quell’improvvisato palcoscenico costituito dall’interno del vecchio bar, zeppo di tabelle pubblicitarie e altri oggetti che avrebbero mandato in brodo di giuggiole qualunque appassionato di modernariato, i soli due attori in scena eravamo ancora il sottoscritto e l’oste. Intento a fissarmi con un sorriso lieve, quasi affettuoso, e i pomelli delle guance rossi e accesi come se avesse stazionato a lungo nei pressi di un caminetto scoppiettante.
- P-prego ? - riuscii a ribattere, sollevando le sopracciglia in un’espressione a metà tra il guardingo e lo sconcertato. L’omino al di là del ragguardevole bancone in legno scuro, nel suo regolamentare grembiule verde "sponsorizzato" (Birra Pedavena - dal 1825) sembrò ammiccare - o strizzò semplicemente gli occhietti vispi un paio di volte - come se entrambi sapessimo di cosa diavolo stesse parlando:
- Suo padre… è Sandro Tosi, vero ? - disse accentuando il sorriso cordiale - il giardiniere, no ? - annaspai (mentre nella mente fioriva e appassiva un quanto mai inopportuno, anche se innegabile, ex-giardiniere), cercando di restare simbolicamente a galla in quello scambio di battute (neanche troppe, a dire il vero) per me del tutto destabilizzanti. Mia moglie me lo ripete spesso, e io m’incazzo come una biscia perché sotto sotto ha ragione da vendere, che per qualche inguaribile complicazione della mia personalità io mi trovo puntualmente a disagio in alcune situazioni relazionali. Nell’interagire con gli sconosciuti, sostiene lei (e qui di solito m’incazzo ancora un pelo in più, perché mi sembra decisamente sommaria e riduttiva, come ipotesi) ma soprattutto alle prese con discorsi in cui non intravedo con sufficiente chiarezza uno svolgimento logico e lineare. E, in quel preciso istante al centro dell’osteria Ponte Sezza, a una manciata di chilometri dalle vette più belle della regione, ero infognato nel peggiore dei miei presunti incubi (a dare ascolto alla mia impietosa consorte): un emerito sconosciuto, chissà se in regola col numero di rotelle nella testa, o fascine al coperto, come si usa dire da queste parti, impegnato in un bel discorso sconclusionato. L’impulso immediatamente successivo fu quello di pagare la consumazione, magari senza neanche attendere il resto, e fiondarmi fuori, al volante della mia auto, con l’intenzione di metter più chilometri possibile tra me e l’osteria Ponte discorsi Fuori di Cabeza. Non lo feci in quel preciso istante, perché oltre che impacciato sono anche molto succube delle cosiddette convenzioni (sempre la compagna della mia vita sostiene che non mi sarebbe possibile stramazzare a terra svenuto, soprattutto sotto lo sguardo impietoso di un crocchio di estranei, tenendo duro il tempo necessario a sdraiarmi con una certa eleganza, dopodiché perderei i sensi) ma sarebbe stata questione di pochi confusi attimi. Il Pico della Mirandola travestito da barista non aveva solo espresso un accenno su una presunta somiglianza, ma mi aveva fornito su un vassoio d’argento nome, cognome e professione (beccandone tre su tre e, a quel punto, la possibilità di un’azzardata quanto fortunosa coincidenza finiva su per il camino). Mio padre si chiamava Sandro Tosi, e per tutta la vita si era occupato di fiori e piante e prati e aiuole, con una passione di cui io non possiedo nemmeno un millesimo, nel mio noioso lavoro di callista-podologo. Ma come diavolo poteva saperlo così con certezza uno sconosciuto gestore di locale, sperduto in mezzo a quelli che da piccoli chiamavamo con spregio "monti rugoloni" ? immagino si possa obiettare a questo punto, e nessuno avrebbe da ridire, che i settantasette anni e sette mesi di vita di un essere umano, con tutti i suoi spostamenti e viaggi e peripezie varie, difficilmente sono a conoscenza in toto al di lui figlio. E su questo, come ripeto, non ci sarebbe nulla da eccepire. Solo che… come dire… io sono stato colto, più o meno un anno e mezzo fa (da quando mio padre è passato a miglior vita… ecco, così l’ho detto, e la cosa facilita il proseguo della faccenda) da uno spasmodico desiderio di sapere il più possibile sulla vita dell’uomo che mi aveva generato. Mmh, già… immagino che questa sia una cosa che possa capitare a molti, in fondo i legami di sangue non sono affatto acqua fresca, solo che questa mia esigenza di… conoscenza (quasi maniacale, l’ha definita mia moglie nel punto più virulento della sua manifestazione, non contribuendo affatto, in quell’occasione, ad una discussione pacata e serena) pare essere sorta… o è sorta, per dire pane al pane, sulla scorta di una mia personale crisi. Convinto com’ero (e sono) di aver "sprecato" milioni o miliardi o fantastiliardi di momenti in cui avrei potuto star vicino e conoscere (e godere) della presenza di mio padre, sacrificandoli sull’altare deprecabile e agghiacciante del "oggi intanto ho milioni di cose da fare per me, tutte assolutamente irrinunciabili come correre ad acquistare un nuovo videoregistratore o a lavare l’automobile e per stare assieme alla famiglia c’è tempo… dopo, domani o quando diavolo si avrà un momento libero…"oh, a me ha preso così. E non è stato affatto piacevole. Mi verrebbe da "predicozzare" di fare tutto il possibile per evitare che accada, a chi ne ha ancora il tempo e le possibilità, ma dicono che è la vita. A volte va così, prendere o lasciare. O al limite, male che vada, cercare di "recuperare" in qualche artificioso modo, suggendo ricordi e momenti e brani di vita per interposta persona, presso chi ha avuto la fortuna di lasciare perdere le cazzate (detto con un rabbioso ghigno velenoso) in cambio di lunghi periodi di esistenza reale. Tutto questo per dire che il terzo (e anche quarto e quinto) grado cui ho sottoposto il parentado, augurandomi di aver usato i piedi di piombo più delicati del mondo nei confronti della mia addolorata madre, mi avevano messo al corrente "alla bisogna" che Ponte Sezza, nella pedemontana feltrina, nome di osteria quanto di centro abitato, non doveva essere stato uno dei luoghi al mondo più frequentati dal mio rimpianto genitore. Come ho già detto poco fa (ma tra gli innumerevoli difetti di cui sono "tempestato" mia moglie Betta includerebbe ad occhi chiusi anche una certa arterosclerotica tendenza a ripetere concetti già abbondantemente espressi), dubitavo massicciamente che papà Sandro avesse bazzicato in zona al punto da lasciare il segno negli annali mnemonici degli indigeni (Ma l’oste Gote Vermiglie ti ha snocciolato nome, cognome e professione, senza neanche dire ba…) "Credo che le si stia sbagliando", avrei voluto ribattere in prima battuta, optando magari poi per un più pertinente "Lei è fuori come uno stambecco sbronzo di grappa", ma la ben nota sottomissione alle convenzioni sociali m’impedì un intervento così deliziosamente creativo ed azzeccato.
- Come… come sa il nome di mio padre ? - fu tutto quello che le mie labbra esangui riuscirono a spifferare fuori, in soggezione per il sorriso placido dell’uomo, che sembrava irradiare benevolenza e comprensione e saggezza tutta montanara. Quello che mi rispose, come replica, agì da propellente nucleare ai miei tremanti arti inferiori, mettendo in atto in maniera concreta e risoluta il proponimento di "darmi",  codardamente abortito solo alcuni attimi prima. Lasciai un biglietto da cinque euro sul bancone, più che sufficiente per pagare il caffè bevuto a metà (anche se del tutto inadeguato per sovvenzionargli un ciclo di terapie al più vicino ospedale psichiatrico), borbottando qualcosa che la mia detestabile "facciata" sperò assomigliasse ad un educato saluto, e schizzai fuori dal locale, frugandomi nelle tasche alla ricerca delle chiavi dell’auto. In maniera così spasmodica che a qualche casuale osservatore esterno sarei parso come colpito da Parkinson al peggior stadio. Quando riuscii a centrare la serratura della portiera, afferrando il mazzo di chiavi con entrambe le mani per attenuarne il tremito, mi "riversai" sul sedile di guida. Tentando di scacciare (tentando inutilmente) le folli parole dell’uomo dalla testa, come un nugolo di insetti ostinati e molesti.
"Come faccio a conoscere suo padre ?", aveva ribattuto il barista, teletrasportando le sopracciglia in cima alla spaziosa fronte in un’espressione di assoluto candore, "beh… perché ci siamo incrociati nella piazza del paese, non più tardi di una mezz’ora fa…"

  
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