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Autore: Luly Love    05/05/2014    4 recensioni
Questo nero destrier, i cui passi
ascolto nei sogni, quando l’ombra scende,
e passando al galoppo, m’appar
della notte nelle fantastiche strade
da dove viene? Quali sacre e
terribili regioni ha incrociato, d’apparir
tenebroso e sublime tanto, e da provar
un fremito nell’agitato crine?
Un cavalier dal penetrante sguardo,
vigoroso, ma placido, all’aspetto,
di splendente armatura rivestito,
senza timor cavalca l’animale strano.
E il nero destrier dice: “Io son la Morte!”
Risponde il cavalier: “Io son l’Amore!”

Storia ambientata nella prima metà dell'800. Potrebbero (levate il condizionale) riscontrarsi alcuni cliché riguardanti Naminè. 
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Naminè, Riku, Roxas
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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Mors-Amor – Parte terza
 
 
 
Si richiuse silenziosamente la porta alle spalle, il cuore in tumulto, le guance arrossate e i pensieri che frullavano a mille.
Poteva lasciare quella vita, una volta per tutte; sapeva che non c’era via di ritorno una volta imboccata quella strada, ma almeno sarebbe stata una sua scelta.
Sorrise alla consapevolezza che per una volta il suo destino sarebbe stato tutto in mano sua, ma un attimo dopo brillò nel suo animo una scintilla di rimorso e preoccupazione per quello che tali scelte avrebbero causato alle persone che le volevano bene.
Cosa avrebbero fatto i suoi genitori? E Riku, sarebbe stato additato come il marito di una fuggitiva? Con chi avrebbe passato i pomeriggi Olette?
Appoggiò la schiena al muro e, alzando lo sguardo, incontrò il proprio sguardo nel grande specchio che le era di fronte, appeso all’ingresso: come poteva voltare le spalle a ventidue anni di vita?
Non si vive né si ama nel vuoto. Intorno a lei c’erano persone che le volevano bene e che sarebbero state ferite, o persino distrutte, se si fosse concessa di sentire tutto ciò che voleva sentire. Era una regola, questa, universale, che non valeva solo per lei, ma a Naminè parve, in quel momento, di essere l’unica a sentirne il peso.
Forse le cose andranno meglio quando andrai a vivere a Londra, sussurrò una vocina nella sua testa. La permanenza a Steventon era infatti temporanea.
Si ritrovò a chiedersi se Roxas cavalcasse anche le strade di Londra.
E mentre era i balia di questi pensieri, udì il suo nome, pronunciato da Riku sopra le scale, con una malcelata vena di preoccupazione.
– Naminè? –
Lei deglutì.
– Sono qui. –
Silenzio, poi un sospiro.
– Ti spiace raggiungermi nel mio studio, cara? –
 
Stringeva convulsamente la tazza di tè caldo fra le mani, seduta di fronte a Riku nell’ufficio di questo. Era una stanza accogliente, calda e ordinata; sgattaiolava spesso lì per leggere o anche solo sfogliare un libro preso a caso dagli altissimi e stipati scaffali in mogano.
Per essere un villaggio tranquillo, Steventon era pieno di problemi: questioni legate all’eredità, ai confini dei terreni, a pecore rubate; Riku aveva sempre almeno due casi a settimana su cui lavorare. Suo padre lo aveva mandato lì per - testuali parole - farsi le ossa e acquisire esperienza per la sua futura e definitiva carriera a Londra.
Naminè l’aveva visto e sentito all’opera e doveva ammettere che aveva davvero talento: coi suoi modi pacati, la sua lingua che sembrava ammaliatrice e il suo fascino naturale, erano pochi i casi in cui perdeva.
Per questo, seduta lì davanti a lui che si trovava nel suo ambiente naturale, dopo avergli riferito della sua chiacchierata con la Morte, la ragazza temeva che, usando le sue doti, lui avrebbe potuto convincerla a non accettare l’invito della creatura. Non che fosse nello stile di Riku, ma le persone sono imprevedibili.
Lui smise di tamburellare le dita sul bordo di un grosso tomo e alzò lo sguardo, incrociando così quello di Naminè.
– Cosa aspetti? Perché sei ancora qui? – chiese.
Lei, stupita dalla semplicità della domanda, ci mise un po’ a rispondere, e quando lo fece scandì bene ogni parola dopo averla accuratamente scelta.
– Io non posso permettermi il lusso di mettere tutto in una valigia e voltare le spalle a questa vita, anche se tutto quello che mi circonda non è una mia scelta. Tu hai fatto tanto per me, non mi hai mai forzata, non mi hai mai rinfacciato nulla, non posso andarmene senza ringraziarti. –
Fece una pausa per scrutare il viso del ragazzo, che con un cenno la incoraggiò ad andare avanti.
– I miei genitori... loro non hanno colpa. Sono nata nel momento sbagliato, nell’epoca sbagliata; non biasimo le persone, forse non biasimo nemmeno la società. Le cose vanno così, punto. Forse non a causa dei singoli individui, o magari proprio per quelli che si distinguono ed erigono.
Perciò non me la sento di partire senza salutarli, senza dirgli quanto gli voglia bene, quanto sia loro grata per aver cercato di darmi sempre il meglio. Non posso semplicemente salire sulla groppa di un cavallo e annullare o dimenticare ventidue anni.
È quello che voglio, ma so per esperienza che, nel migliore dei casi, si deve trovare un punto d’incontro tra ciò che si vuole, ciò che si deve e ciò che si può. –
Lui annuì, poi abbassò lo sguardo; Naminè avvertì una stretta al cuore intuendone il motivo.
– Non vorrei doverti lasciare. – disse lentamente. – Tu... tu hai fatto molto per me e vorrei riuscire a dirti quanto te ne sia grata. Vorrei che tu potessi venire con me, o quantomeno parlare con Roxas. Sono sicura che saprebbe mostrarti la strada. –
Riku sospirò.
– Voglio solo una cosa, anzi tre. –
– Tutto quello che vuoi. –
– Promettimi che sarei felice, che lotterai per la tua felicità. Secondo, non dimenticarti mai della storia che hai alle spalle. Non nel senso che deve essere un peso, no, ma cerca di ricordare perché sei dove sarai. E terzo... –
Si interruppe, le guance accese violentemente di rosso.
Lei lo incoraggiò posando la sua piccola e affusolata mano sinistra sulla sua destra.
– Promettimi che non ti dimenticherai di  me. – disse tutto d’un fiato.
Lei sorrise mentre una lacrima luccicante le rigava una guancia.
– Neanche se bevessi tutta l’acqua del fiume Lete potrei. –
 
Prese un respiro profondo e sollevò gli occhi dalla scrivania, mentre la sua mano indolenzita lasciava cadere dolcemente il pennino sul ripiano.
Erano due giorni che scriveva incessantemente; scriveva lettere per tutti coloro che avevano avuto un ruolo di rilievo nella sua vita: sua madre, suo padre, Olette, le sue cugine Kairi e Xion.
Ora aveva appena concluso quella a Ventus, il bellissimo bambino di tre anni figlio di Kairi e suo marito Sora; era quella a cui teneva di più, perché voleva che le sue parole fossero di aiuto al piccolo.
Si passò il dorso della mano sulla fronte e guardò fuori dalla finestra.
A breve, Roxas, a breve ti raggiungerò...
– Tutto bene? – giunse una voce dalla porta.
Con calma, prese in mano tutte le lettere e controllò che ci fosse il nome su ognuna, poi si alzò, andò verso il marito e gliele consegnò; lui le accettò con un cenno d’intesa.
– Quando sarà il momento... – si limitò a dire lei.
Lui la tranquillizzò, ribadendo che avrebbe fatto tutto per bene al tempo giusto.
Rimasero in piedi, uno di fronte all’altra, per un po’, imbarazzati, poi lei lo abbracciò di slancio.
– Grazie. Grazie di tutto. Vorrei che le cose fossero andate in modo diverso tra noi. Forse col tempo avrei potuto amarti come avresti voluto e meritato... –
– No. – la interruppe lui con uno strano tono perentorio. – Ad ognuno ciò che si merita quando lo merita. Ho preferito di gran lunga che le cose siano andate così; almeno ho avuto la fortuna di conoscerti. E chissà, magari un giorno questa mia azione di aver liberato una creatura pura dalle catene della società varrà qualcosa sul mio curriculum. –
Lacrime scendevano dagli occhi di Naminè, lacrime che prontamente Riku asciugò.
– Se ti fai vedere così, Roxas penserà male. Un bel sorriso, Nami. –
La ragazza sorrise e alzò il mento; negli ultimi giorni aveva acquisito una sicurezza finora a lei sconosciuta, che la faceva sentire in grado di fare tutto.
Si guardò attorno, cercando di assimilare ogni dettaglio di quella stupenda casa, che una piccola parte di lei sperava di rivedere, presto o tardi.
– Pronta? – le chiese lui tendendole una mantellina.
– Da tutta la vita. –
 
L’addio fu struggente: Riku le teneva una mano tra le sue, sorridendo mestamente, mentre lei lo ringraziava per la comprensione e la libertà che gli stava dando; il giovane si limitò a scuotere la testa e dirle che stava rendendo solo giustizia.
Dopo una serie di abbracci, Riku aprì la porta, facendo entrare un fascio di luce lunare nell’atrio, insieme ad una frizzante, quasi fredda, aria autunnale.
Lui la guardò preoccupato.
– Non avrai freddo? –
– Sto per seguire verso l’ignoto un misterioso cavaliere a cavallo di una creatura parlante che dice di essere la Morte e tu ti preoccupi che io abbia freddo? – rise lei.
– Effettivamente vista da questa prospettiva... –
Risero, per poi piombare nel silenzio. Udirono un familiare grattare sul pavimento e dopo pochi secondi, Flint arrivò di gran carriera; strusciò il grosso muso contro le ginocchia di Naminè guardandola coi suoi occhioni. Lei soffocò un singhiozzo e si mise sui talloni, lo sguardo alla stessa altezza del suo e gli prese la testa fra le mani.
– Pensaci tu a lui, fallo uscire ogni tanto, va bene? – mormorò, facendo un piccolo cenno verso Riku.
Si rialzò, il mento in su e gli occhi asciutti. Alzò un braccio e tracciò il profilo delle labbra del ragazzo con un dito; lui le baciò i polpastrelli, gli occhi chiusi.
Naminè lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e si voltò verso la porta aperta; Riku continuava a tenere le palpebre abbassate.
Ave atque vale, Riku. – bisbigliò la bionda, e furono le ultime sue parole che risuonarono nella grande villa.
 
Quando il ragazzo riaprì gli occhi, molti minuti dopo, la porta era ancora aperta, il cane era seduto davanti ad essa a guardare il cielo e un senso di vuoto aveva pervaso la casa, ma non il cuore del giovane avvocato, che potè giurare di conoscere, in quell’esatto istante, il sapore della pace.
 
 
Il percorso che l’avrebbe portata al limitare del bosco lo aveva pianificato per bene, in modo che nel percorrerlo non avrebbe incontrato nessuno e al tempo stesso avrebbe incontrato tutti: si fermò davanti alla cappella, per una breve ma intensa preghiera; passò sotto lo studio del dottore, constatando che la luce era ancora accesa; sostò sotto casa di Olette, e quella fu la pausa più lunga e dolorosa. Sapeva bene che la ragazza era sola, molto probabilmente in camera da letto a cucire per non farsi vincere dal sonno: ci teneva ad andare ad accogliere quello scellerato del marito quando lui si degnava di tornare, a qualsiasi ora, con il puzzo di fumo e rum addosso e i postumi della libido ancora negli occhi.
Strinse i denti e contrasse la mandibola, augurandosi che presto anche per la sua amica arrivasse il giorno della liberazione. Con un sospiro, si costrinse a continuare.
L’ultima tappa fu la taverna. Grasse risate e urla si sentivano fin dall’altra parte della strada, dove si trovava lei. Era da lì che tutto era partito: gli uomini avevano avvistato cavallo e cavaliere, avevano sparso la voce, ne era nata una nenia. Dopo chissà quanti anni - molti più di quanti ne avrebbe potuti contare - quella nenia era arrivata a lei e l’aveva portata lì, in piedi nel silenzio di quella notte, con un uccello imbizzarrito al posto del cuore.
Si concesse un attimo per ascoltare la cacofonia proveniente dal locale, poi drizzò la schiena e riprese a camminare, per fermarsi solo una volta arrivata davanti al masso che era stato spettatore dei suoi due precedenti incontri notturni.
Loro erano lì. Lui era lì.
Le dava le spalle; era in piedi davanti al cavallo, la testa dell’animale tra le mani, la fronte quasi poggiata sul suo muso. Stava sussurrando qualcosa, ma non riuscì a capire cosa.
Le dispiacque interrompere una scena di tale intimità, quindi si fermò a un paio di metri e restò in silenzio, cercando di non fare rumore neanche respirando; sperò che il tamburellare furioso del suo cuore non la facesse scoprire.
Ma i suoi tentativi furono vani: quasi subito Roxas si girò verso di lei, e la visione del suo viso le fece al tempo stesso perdere un battito e aumentare la frequenza cardiaca. Gli occhi azzurri accesi di una luce calda e familiare, il sorriso splendente, le guance arrossate, chissà se dal freddo o dall’emozione di vederla.
A quest’ultimo pensiero, anche lei arrossì.
– Sei venuta. – la accolse lui.
– Sono venuta. E tu sei qui. – rispose lei.
– Ci sono sempre stato. Tu piuttosto... –
– Anche io ci sono sempre stata. – lo interruppe la giovane, senza foga ma con decisione.
Roxas sorrise, poi la scrutò da capo a piedi, le sopracciglia aggrottate; Naminè giurò di non aver mai visto nulla di più dolce e bello.
– A quanto pare non sei preoccupata per il freddo. – constatò il ragazzo. A lei non sfuggì come, con assoluta e normale naturalezza, si stessero dando del tu. La cosa le piacque.
– Suppongo che non avrò bisogno di vestiti caldi, non dopo che sarò... salita sul tuo destriero. Con te. –
Lui annuì, senza però allentare la tensione della fronte. Dopo un attimo di stasi da parte di entrambi, si tolse il mantello; la sua armatura scintillò lievemente. Le andò vicino e le cinse le spalle con il mantello, fissandolo bene con una spilla sotto il collo.
Non ritirò le mani; rimase fermo, indeciso, per qualche secondo, poi le accarezzò la gola con il pollice; vedendo che lei socchiudeva gli occhi e dischiudeva le labbra, prese coraggio e le posò una mano sulla guancia, mentre con l’altra seguiva il profilo della mascella.
Le punte dei loro piedi si toccavano, i loro respiri si univano. Gli occhi di lui erano fissi sul volto di lei, quelli di Naminè erano chiusi; le mani di lei rimasero per un po’ ferme, abbandonate lungo i fianchi, ma presto si mossero e andarono a posarsi sul petto di Roxas.
Nonostante la cotta di maglia, Naminè potè giurare di percepire contro il palmo delle mani il battito furioso del cuore di lui.
– Lo senti? – sussurrò Roxas. – Batte così per te. Non mi sono mai sentito così vivo. –
Lei rovesciò la testa all’indietro e rise. Lui la guardò, incerto, poi le sue labbra si distesero in un sorriso; la risata della ragazza echeggiava nella notte, cristallina, vera. Libera.
– È tutto vero. – ripeteva lei, quando l’euforia glielo permetteva, tra una risata e l’altra.
Lui annuiva stringendola a sé, baciandole la testa, mandando giù nel profondo dei polmoni l’odore dei suoi capelli.
Sarebbero potuti restare così per l’eternità, ma, quando ormai il battito dei loro cuori si era regolarizzato, il cavallo nitrì.
Roxas sospirò e si girò a guardare l’animale, tenendo un braccio attorno alla vita di Naminè; lei sbirciò al di sopra della sua spalla il destriero del ragazzo.
– È ora di andare. – la informò.
Naminè annuì e insieme si avvicinarono al cavallo, fermandosi al suo fianco; lei allungò una mano, senza alcuna titubanza, e ne accarezzò la schiena, avvertendo i muscoli possenti a riposo. Il pelo era liscio e morbido, corto.
– Quando dici che dobbiamo andare... – fece. – Chi ce lo impone? –
– Nessuno. Siamo liberi. Ma tenerci in movimento è sempre preferibile. – rispose lui con una scrollata di spalle. Le posò una mano sul gomito e lei si voltò a guardarlo; quegli occhi, Dio, quegli occhi...
Senza interrompere il contatto visivo, Roxas la prese per i fianchi e, come se lei non pesasse nulla, la issò in sella, delicatamente. Appena lei si sistemò, a ruota salì in groppa, dietro Naminè, e afferrò le redini. L’animale iniziò a muoversi, passi lenti, quasi come in una processione. Forse le stava dando il tempo per cambiare idea, o girarsi a dare un ultimo sguardo. Non fece nulla di tutto ciò; rimase dritta, con la schiena contro il petto del cavaliere, il suo cavaliere, beandosi delle braccia di lui che le sfioravano i fianchi mentre teneva le redini, del suo mento sulla sua testa.
Ormai erano arrivati ai primi alberi del bosco; la Morte si fermò. Le fronde ondeggiavano, e Naminè ringraziò mentalmente Roxas per il mantello. Si girò a guardarlo, per quanto la posizione di entrambi glielo permettesse.
Lui la stava fissando con espressione pacifica. Le sorrise.
– Ricorda questa sera, perché sarà l’inizio dell’eternità. –
Poi diede un impercettibile colpo di redini, e l’animale partì al galoppo, lasciando profondi solchi nel terreno che sparivano con la stessa velocità con cui erano comparsi.
 
 
 
Angolo autrice:
Non ci credo. L’ho finita. Santi numi. Divino Zeus.
Direi di andare con ordine.
Allora, come potete notare, non sono morta. Sono viva e vegeta. Nonostante tutto. (e quel “tutto” è davvero TROPPO. Antocharis ne sa qualcosa, vero amica mia?)
Vi ho fatti aspettare, me ne scuso, ma sono un essere profondamente sfaticato, senza contare ispirazione altalenante, primi baci, primi tentativi di fare la brava fidanzata, prime rotture, filosofia, la mia prof di latino, il greco, mia mamma, punizioni estreme, telefono impazzito, Divergent, il mio gatto (uno qualsiasi dei tanti), il computer, la violenza sulle donne (storia lunga. Ma io e i miei familiari stiamo tutti bene, tranquilli), il mio ormai ex ragazzo, il mio essere una persona altamente sfaticata...
Sì insomma, mi dispiace, ma ora sono qui, questo conta, no?
Poi. Se vi sembra che il finale lasci qualcosa in sospeso (Riku. Olette. Le lettere. Altro.) sappiate che è altamente voluto. Ciò non toglie che nel caso di malcontento generale, sì, avete il diritto di prendermi a calci. Quando dico che è voluto non intendo affatto dire “mi ero rotta le palle di vedere la fic incompiuta nella cartella insieme ad altre trentordici mila e allora ho cercato di farla finita il prima possibile”. ASSOLUTAMENTE NO. Semplicemente mi sono detta che andare a scrivere di altri cavoli era inutile e sarebbe potuto risultare fuorviante. La storia è incentrata su Naminè, i suoi problemi e la leggenda del cavaliere. Il resto è una cornice.
Then... uhm... Ho finito, credo. Boh. Non mi viene altro, quindi passo ai ringraziamenti:
JLuna_Diviner
Anima1992
RoriKida
thedarksora91

E, ultima e più importante,
antocharis_cardamines.
Grazie. Grazie delle attenzioni, delle recensioni, dei complimenti, della pazienza (soprattutto della pazienza). Grazie di tutto.
Grazie anche ai lettori silenti, che spero che mi lasceranno una recensioncina, dato che questo è l’ultimo capitolo e io sono da poco single (da un mese. Per me è poco.) ma ancora perdutamente innamorata del mio vicino di casa.
Cribbio, quanto roba ho scritto!
Bien, direi che sia ora di andare. Aristotele mi aspetta, e dopo di lui il romanico e Lorenzo Valla.
Un mega bacio a tutti, vostra nei secoli e con amore
Luly Love
 
 
Ps: la fic tutta è intrisa di citazioni, ecco le fonti.
Dal primo capitolo:
- Se hai un sogno, non aspettare. Agisci. È una delle piccole regole della vita. Famosissima, detta da Axel in KH II.
- Bisogna decidere cosa siamo disposti a rischiare. Alcuni mettono in gioco i proprio sentimenti, altri il proprio futuro. C’è poi chi deve imparare a rischiare, punto. Anche se questo significa fare il primissimo passo. Scrubs, detta dal mio omonimo, JD, ma non chiedete episodio e/o stagione.
- Poteva capitarti di peggio. Haymitch, Catching Fire.
Dal secondo:
- La paura. Nella vita, è la paura che ci frega. Ma se vinciamo la paura, vinciamo la vita. Il vescovo della mia città il giorno della mia cresima.
- La strada per il paradiso passa per l’inferno. Onestamente non ricordo chi l’abbia detta dove e quando, ma comunque non è mia.
In questo:
- Non si vive né si ama nel vuoto. Intorno a lei c’erano persone che le volevano bene e che sarebbero state ferite, o persino distrutte, se si fosse concessa di sentire tutto ciò che voleva sentire. Jace, Shadowhunters - Città di Cenere.
- Ricorda questa sera, perché sarà l’inizio dell’eternità. Detto attribuito a Dante.

 
  
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