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Autore: Claudine Delacroix    06/05/2014    9 recensioni
Elizabeth Woolridge Grant aveva quattordici anni e viveva con suo padre a Lake Placid, quando venne invitata ad esibirsi in un locale newyorkese.
E quando la sua innocenza venne distrutta.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con
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Premessa: gli avvenimenti sotto descritti sono di mia invenzione, creati per puro diletto, basandomi sulle informazioni fornitemi da wikipedia per l'età, i luoghi, il nome del padre e quello reale di Lana. Il resto è frutto della mia fantasia; l'opera è volta a raccontare una storia come un'altra e nulla di più.


 

L O L I T A


 


 





John sorrise nella tenue luce mattutina che filtrava dalla tapparella non del tutto calata. Si guardò intorno, curiosando nella stanza di Elizabeth. Una borsa era appesa malamente sulla sedia, e qualche libro – dei quali uno era aperto a metà – occupava la scrivania. I vestiti della sera prima erano forse stati appesi alla maniglia dell'armadio, ma erano caduti, formando un mucchietto variopinto per terra.

Le lenzuola bianche, avviluppate tra loro e recluse al fondo del letto, lo attiravano invitanti. Ne prese un lembo tra le mani e se lo portò al viso, inspirando profondamente.

Sapeva di bambina, di profumo da donna e di innocenza. Rimase lì per qualche secondo, completamente in estasi, ed infine si decise a staccarsi.

Rifece il letto della ragazza mentre pensieri licenziosi turbinavano per la sua mente.


 

«Piccola» esordì John, entrando nella stanza dove Elizabeth stava facendo colazione «domani è il grande giorno!»

La ragazzina stava mangiando dei biscotti secchi a piccoli morsi, prendendoli mano a mano dal pacchetto. Era seduta su uno sgabello alto, e le sue gambe nude dondolavano avanti e indietro.

John osservò quella danza silenziosa per un po', mentre Lizzy finiva di masticare. «Oh cielo, sì! Che bello!» rispose lei, sorridendo all'uomo entusiasta.

Anche lei era molto emozionata; non per nulla aveva sopportato un viaggio di sei ore, la lontananza da casa e... le premure pressanti di John.


 

Con egli un giorno aveva deciso quali canzoni avrebbe portato quella sera.

Avevano discusso un pomeriggio intero, finché John stabilì che Elizabeth, tra la decina di canzoni che sapeva a memoria, ne avrebbe cantate tre.

«Quale ti piace più di tutte, piccola?» chiese lui, arruffandole i capelli. La ragazza alzò lo sguardo riflettendo per scegliere, poi piantò i suoi occhi color cioccolato in quelli azzurro spento di John e socchiuse le labbra.

«Start spreading the news...» cominciò lei, con voce incredibilmente sensuale e vellutata per la sua età. L'uomo rabbrividì un secondo, stregato, poi rise.

«'New York New York', piccola? Originale, direi» scherzò lui, «ma terribilmente appropriata. D'accordo.»

La ragazza battè le mani felice, sorridendogli. La sua canzone preferita nella sua città preferita; e che città.

«Grazie John, grazie! Ma non ti devi preoccupare, è un evergreen. Piace a tutti e piacerà anche al pubblico dell'Office 96. Ne sono sicura» disse lei, buttandogli le braccia al collo.

John la strinse a sé ricambiando l'abbraccio, felice per ogni rara volta che la ragazza stabiliva un contatto con lui. Si accorse che i suoi seni acerbi premevano contro il suo petto e trattenne a stento impulsi che ormai stava sempre più faticando a reprimere.


 

Il trentuno dicembre, giorno del debutto della ragazza, decisero di fare una passeggiata per le strade newyorkesi. John la portò per le vie più sfarzose della città tenendola per mano; ogni tanto le accarezzava la guancia, le spostava una ciocca di capelli, la guardava più del dovuto, faceva un complimento inaspettato.

Elizabeth sentiva il senso di disagio crescere, ma come al solito non gli diede peso. I suoi pensieri riguardavano principalmente le aspettative e paure della sua prima esibizione; dunque non notò l'attaccamento crescente di John. Che, dal canto suo, si sentiva sempre più inquieto e attratto da lei; cercava continuamente il suo corpo, e lei non lo respingeva.

Inconsapevolmente, ella lo stava incoraggiando.

«Bimba, questa è...»

«Oh mio dio. Times Square! Sto passeggiando per Times Square!» la ragazza si guardò attorno estasiata; turisti che facevano foto, incantati come lei, gente trafelata dirigersi verso il proprio ufficio, persone in passeggiata.

Elizabeth si stava sentendo tremendamente glamour. Aveva sempre sognato di passeggiare per quelle vie affollate e piene di vita; tutta un'altra cosa rispetto alla requie costante di Lake Placid.

Osservò i teatri di Broadway e le insegne luminose e i negozi che punteggiavano l'incrocio; i suoi occhi non facevano in tempo a soffermarsi su una vetrina che subito venivano attratti da un'altra.

John la guardava contento. Era felice di fare qualcosa per lei. Ogni volta che riusciva a rabbonirla pensava che forse... be', gli sarebbe stata riconoscente.

C'erano tanti modi per esserlo.


 

Quando tornarono a casa, Elizabeth era felice come non mai. Ringraziò John più volte, e lo coprì di baci e riconoscenza.

«Dai piccola, mancano poche ore. So quanto voi donne siate lente a prepararvi...»

Lizzy rise. «Ho capito, vado» e scappò in bagno a lavarsi.

John intanto aveva acceso la televisione, non realmente stando attento a ciò che trasmetteva. Pensava ad Elizabeth, a quanto fosse bella; pensava che stasera, dopo che tutti l'avessero scoperta, gliel'avrebbero portata via.

Non l'avrebbe permesso.


 

Elizabeth aveva finito la sua doccia, rapida, ed era uscita in una nuvola di profumo vanigliato. Si stese sul letto ancora un po' umida, allargando le braccia e sorridendo al soffitto; canticchiò la base di 'New York New York', tamburellando a ritmo con le dita sul materasso.

Infine si alzò, l'asciugamano attorno al suo corpo, ed aprì l'armadio. Il vestito scarlatto era lì, l'aspettava pronto per lei.

Lo tolse dalla gruccia con delicatezza, accarezzando il tessuto morbido. Si mise la biancheria intima e poi lo indossò.

I capelli un po' spettinati, i piedi scalzi, l'abito fasciante; così si presentò a John, che stava ancora pensando a lei. Quando la vide l'uomo spalancò un po' le labbra; era bellissima, una figlia delle sirene, eterea. Elizabeth sorrise ingenuamente, facendo un giro timido su se stessa.

«Jesus, piccola...»

Improvvisamente stare seduto divenne scomodo. E capì che non ce l'avrebbe più fatta.

Lizzy, la sua piccola-grande Lizzy.

Con uno scatto le cinse la vita e quasi la scaraventò sulle sue ginocchia. Le sue mani criminali percorsero febbrilmente il corpo della ragazza; la vita, le gambe, le braccia, il petto.

Elizabeth si irrigidì ma non si mosse.

«John... John no, che fai?» Ridacchiò nervosamente. Non capiva, semplicemente non capiva cosa gli fosse preso.

L'uomo avvicinò le sue labbra a quelle della ragazza, e le respirò affannato per un attimo sul mento. La baciò.

Elizabeth cacciò un urlo; John le tappò la bocca con la mano e la spinse sotto di sé. La ragazzina si divincolava e tentava di chiamare aiuto, ma l'unica cosa che riuscì ad emettere fu un gemito disperato.

Era a questo che puntava.

L'uomo le slacciò la cerniera del vestito con una mano, mentre con l'altro braccio la bloccava. Stava piangendo, e calde lacrime scivolarono sull'arto che la imprigionava.

Il carnefice si fermò per osservare la sua vittima in biancheria intima. La pelle pallida era scossa da brividi di terrore, e le gambe dai polpacci esili e dalle cosce tornite tentavano di respingerlo e di coprirsi.

Un sorriso perverso spuntò sul suo viso.

Si sfilò i pantaloni a fatica, tentando di schiacciare Elizabeth sul divano per tenerla ferma; la ragazza emise un grido, che John reprimette con un pugno sul suo plesso solare, facendole mancare il fiato.

Ed infine la violentò. Spinte veloci e rozze squassavano il corpo della ragazza. Si sentiva morire. Dentro e fuori. Per qualche secondo svenne, ma John non si fermò nemmeno in quel momento. Continuò a spingere gemendo soddisfatto, continuò a vituperare il corpicino della ragazza, la ragazza che si era fidata ciecamente di lui.

Una macchia di sangue si allargò sul tessuto sotto di loro. John si ritrasse.

La ragazza, intontita ed esausta, si rannicchiò in posizione fetale e pianse. Dapprima urlò, ma il suo lamento si ridusse presto ad un gemito sussurrato. Fissava con orrore il suo stesso sangue, la sua verginità presa con la forza.

«Alzati.»

Recepì l'ordine come se avesse avuto le orecchie piene di cotone; non riusciva più a sentire, non riusciva più a vedere, solo il suo sangue e John sopra e lei sotto-

«Alzati.»

Un lembo di tessuto rosso le venne porto; l'abito. Se lo rimise come in trance, tirando su gli slip, accennando qualche passo tremulo. Teneva le gambe aperte e ogni volta che spostava una gamba in avanti sentiva dolori ovunque.

«Prova solo a dire una parola e potrai dire addio a New York e alle esibizioni; te ne tornerai a Lake Placid a cantare agli angeli, se qualcosa oltre alle canzoni uscirà dalla tua boccuccia. Chiaro?»

Elizabeth era orripilata e spaventata. Con gli occhi che sembravano due piattini da té, annuì. Sentì poi John che le sistemava i capelli, portando alcune ciocche dietro l'orecchio, un gesto dolce che la fece scattare all'indietro. Sbattè la testa contro il muro.

John rise. «Brava ragazza. Andiamo. Si canta.»

Elizabeth salì sul palco. Cantò. Tutti applaudirono. Ma nella sua mente, più rumorosi del baccano del mondo esterno, sentì soltanto i gemiti voluttuosi di John e le sue grida.


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 

Bene, che dire *si asciuga una lacrimuccia* c'est finie.

Credo mi stiate odiando tutte per questo finale, fortunatamente sono dietro ad uno schermo e riesco ad evitare le vostre sprangate sul naso che, sono sicura, mi volete dare.

È una fine davvero brutta, lo riconosco. Ma era questo il mio progetto. Lo so, lo so; sembra davvero cattivo da parte mia fare questo a Lana, ed effettivamente mi sto sentendo una cacca – perché se la leggesse credo mi denuncerebbe. Ma... prendetela come una storia metaforica. Lana è cresciuta, si è trovata ad un punto in cui la sua puerilità è conclusa, e questa storia vuole simboleggiare un po' quello, il passaggio dall'infanzia all'adolescenza che, se ci pensiamo, è davvero uno stupro D: schifo schifo di teenage.

Che altro dire? 'New York New York' di Liza Minnelli è un classicone che non potevo far mancare. In questo periodo, poi, sono fissatissima e la canto SEMPRE, adoro.

Per il resto... be'. Ringrazio chi mi ha letta e recensita – gente... dico davvero. Mi avete fatta sentire così bene, con le vostre recensioni – e sì, sembra tanto uno di quei saluti che fanno le persone importanti, cosa che non sono, perciò concludo con un semplice ciao e un grazie e... scusate per il finale.

Baci, abbracci e saluti. 

  
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