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Autore: _Misery    07/05/2014    2 recensioni
Di nuovo pensò al volto altero della nonna, ai suoi zigomi che si sollevavano come quelli di una statua di bronzo mentre sibilava: “gli Dèi non hanno molta pazienza, ragazzino. E gli Spiriti non perdonano”.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta per un forum e avere un motivo per buttare giù delle idee è stata una buona cosa - avevo in mente questo personaggio da un po' di tempo. Purtroppo mi sono sentita, per così dire, un po' "limitata" all'inizio del racconto, nel senso che mi sembrava di dover tirare fuori a forza ogni singola parola come se non avessi mai scritto in vita mia; ovviamente alla fine è andata meglio perché ci ho preso gusto, superando ampiamente il limite di parole. "XD
Il tutto trae ispirazione dalla tradizione sciamanica coreana (spiegazione carina e colorata) con qualche riferimento a riti giapponesi, ma il contesto è volutamente vago - sarebbe stato troppo complicato.
p.s.: che strano cliccare sul tastino "aggiungi una nuova storia" dopo quasi tre mesi o_o' roba che la scelta di un'introduzione mi ha seriamente messo in crisi (oltre al fatto che non so più scrivere una recensione o rispondere in modo decente). Comunque sarò piuttosto intermittente in questo periodo, come si sarà capito... vi ringrazio per la pazienza "XD

 




 

An imperfect dead man





 
"On the 10th of December in 1935
I was born - an imperfect dead man.
Years will follow years and one day I know
I shall become a perfect dead man.
When that day comes
I will think of
the cherry tree
in the garden
of a small sunny house
in the city of Aomori, in the town of Uramachi
in the village of Aza Hashimoto -
a tree that reached out over the wall,
that grew too much towards
the outside.
I will know the day has come
to grow from the inside.

When I was a child
I was good at imitating
a train
I knew the end of the world
existed, but only
in my own dream.”

(“Remembering home”
, Shūji Terayama)




 
Da quel vicolo la città sembrava spenta, come se persone, automobili e lampioni si fossero dissolti. Era una sensazione piacevole e inquietante allo stesso tempo: per questo Kim rimase nel suo studio fino a tardi, con la cravatta slegata e una cena dimenticata sotto la lampada, ad ascoltare il brusio della vita che si riduceva al passaggio degli ultimi autobus. In quel silenzio incombente si sarebbe presto svelato un altro mondo, una realtà in bilico, fusa con quella umana – già Kim vedeva le ombre prendere possesso del vicino negozio di antiquariato, strisciare sul bancone, infilarsi tra le gambe delle sedie con stupore. Di notte gli spiriti tornavano timidamente a camminare sulla terra, anche se era tra le grandi folle diurne che potevano passare inosservati.
« Cosa fai? »
Una voce gentile risuonò alle sue spalle e lui riconobbe il leggero brivido che gli attraversò la schiena.
« Quello che faccio tutte le sere, Amoretta. Vi guardo ».
La ragazza lo raggiunse alla finestra senza far rumore, le lunghe vesti che s’infrangevano contro i mobili come polvere. Sembrava che un pittore avesse appena finito di ritoccare i suoi capelli d’oro o le guance rosse come petali, ma pochi, purtroppo o per fortuna, erano in grado di ammirarne la bellezza. Kim l’aveva vista in sogno non molto tempo prima, alla fine dell’inverno, mentre vagava per l’oltretomba con gli occhi sbarrati e una ferita sanguinolenta sul petto; non gli era mai capitato d’incontrare un’anima che il trauma della morte avesse reso così schiva e taciturna. L’aveva aiutata a ricordare che ad ucciderla era stato un tizio geloso e piuttosto ubriaco durante una festa – per questo nelle sue orecchie riecheggiava ancora un violino frenetico – e da allora lei tornava spesso a fargli visita, anche quando era sveglio.
« Forse dovresti andare a riposare, noi non siamo tanto interessanti. » Amoretta passò due dita tra i capelli nerissimi di Kim, ma fu come se nella stanza fosse entrata una brezza tiepida; lui sorrise comunque.
« Non dormirei, è inutile ».
Testarda come pochi, Amoretta credeva d’essere in debito e cercava in tutti i modi di ripagarlo: il fatto che fosse impossibile non sembrava scoraggiarla. Stavolta Kim respinse pensierosamente la sua mano diafana, che svanì in aria come fumo.
« Anche mangiare è inutile? » replicò lei, indicando il take-away freddo sulla scrivania. « Kim, » aggiunse in tono più dolce, « i vivi mezzi morti non mi piacciono affatto. Io non posso sentire più nulla, ho dimenticato che cosa siano i brividi o i morsi della fame, ma comprendo le emozioni umane molto meglio di prima – e qualcosa ti sta logorando ».
« Tutto mi logora » sbuffò lui, la voce incrinata senza che lo volesse. « Forse mia nonna aveva ragione, quando diceva che cercare di tenermi fuori dal vostro mondo mi avrebbe lentamente ucciso; forse avrei dovuto lasciare la campana di vetro dei miei genitori e farmi iniziare nelle steppe del nord come lei voleva. » Il ragazzo ghignò. « Adesso la venerabile Yujin ha quasi novant’anni ed è florida come non mai, mentre io m’indebolisco ogni giorno che passa e a volte non capisco più in quale diavolo di realtà mi trovi. In ogni caso non stare troppo in ansia, magari sono solo preoccupato per domani ».
Amoretta scosse la testa e il suo corpetto si tinse di rosso, segno che era particolarmente triste. « Hai già praticato troppi riti del genere per esserne davvero preoccupato. Io non ti voglio tra le ombre, Kim ».
Lui temporeggiò strofinandosi gli occhi con i pugni. « È diverso, » disse, « non l’ho mai fatto per una grande azienda, e il signor Lee è la persona più esigente dell’intero universo. Se fallissi ne andrebbe della mia carriera. » Poi, dato che lo spettro non sembrava ancora convinto, sbadigliò teatralmente e riprese: « Ti prometto che adesso andrò a casa per farmi una doccia e rilassarmi prima del grande momento, d’accordo? Non sopporto di vederti così ».
Amoretta dovette rassegnarsi. « Ti controllo » sospirò, prima di tornare nell’oscurità da dove era arrivata.
Kim scorse un ultimo bagliore in strada, accanto al negozio di fiori, e capì che stava di nuovo cercando d’immaginare il loro profumo; dopodiché persino lui si ritrovò completamente solo. La città assopita oltre la finestra somigliava all’altare di una chiesa deserta e ben presto quel panorama gli divenne odioso: allora chiuse le imposte e vi poggiò la fronte, alla ricerca di un po’ di frescura. Le tempie pulsavano come se all’improvviso il sangue si fosse fatto troppo denso e pesante per le sue fragili vene, la voce di Amoretta risuonava in tutti gli angoli della stanza – Kim rise a denti stretti, davvero la voce di un morto poteva risuonare? A lei sarebbe piaciuto, perché il ricordo del suo timbro da contralto la rendeva malinconica.
Quando i numeri rossi dell’orologio segnarono l’una di notte il ragazzo si gettò il cappotto sulle spalle, radunò i documenti relativi al caso che stava seguendo e chiuse lo studio girando la chiave più volte del solito. Ogni volta che usciva da quelle piccole stanze arredate con gusto moderno, lasciandole alla loro oscurità, tirava un sospiro di sollievo: non che l’aspettasse una tranquillla vita quotidiana, tornando a casa si sarebbe dovuto comunque sforzare d’ignorare gli innumerevoli strascichi di vita e memorie che lo circondavano, ma poteva almeno illudersi di essere uno sconosciuto qualunque. I recenti incarichi lo stavano rendendo man mano famoso nel suo “giro”, e Kim si sentiva strappare la pelle di dosso ad ogni nuovo colloquio.
Salito su quello che doveva essere l’ultimissimo tram della giornata – era troppo stanco per aprir bocca e chiamare un taxi – ripensò a sua nonna e alla sua infanzia e, giusto perché aveva la testa poco piena, al destino che lo attendeva. Forse non era tardi per cercare aiuto, ma se gli fosse successo qualcosa in quel momento, dopo quasi vent’anni di silenzio, di sicuro la venerabile non avrebbe mosso un dito. Kim si chiese se non si fosse creata una famiglia solo per un certo senso del dovere o per perpetuare quella condanna – non era una cattiva persona, ma una donna asciutta, orgogliosa, completamente votata agli spiriti nonostante il disprezzo della sua stessa prole. Suo padre non aveva ricevuto “la chiamata”, aveva sposato la donna più razionale del mondo, eppure non era riuscito ad evitare che ciò accadesse ai suoi figli: da quanto ricordava, Kim aveva sempre avuto strani sogni che s’erano trasformati in veri e propri contatti con l’aldilà verso gli undici anni; poi era toccato, anche se in forma molto più lieve, a sua sorella maggiore Jonsu. Passando davanti ai ciliegi illuminati del parco la rivide quindicenne, dolce e imperfetta come una bambola di porcellana, mentre si arrampicava sugli alberi del loro vecchio giardino perché, diceva, tra i rami pensava meglio. Per lei era stato facile nascondere le proprie capacità e aveva cercato in tutti i modi di proteggerlo, ma era inutile tenere segreti con la nonna.
Benché Kim avesse detestato essere bambino, c’erano tante cose che rimpiangeva dei giorni passati con Jonsu: le braccia esili sempre pronte a confortarlo, la paura condivisa e soffocata in gola, i vestiti neri che la rendevano più pallida di quanto non fosse, gli ordinatissimi libri del liceo e quelli dai titoli esotici accanto al suo letto, il riflesso irreale del sole estivo sui suoi capelli lisci. Ora lei lavorava come segretaria in un’importante redazione e occasionalmente comunicava con l’altro mondo per aiutare qualche amica; si erano ritrovati tre o quattro mesi prima per una cerimonia cui aveva preso parte anche Kim, ma i loro rapporti si erano sfilacciati col passare del tempo. A pensarci bene, era quell’unica distanza a farlo sentire tanto solo.
Si rese conto di aver raggiunto la sua fermata solo perché Amoretta se ne stava immobile sul marciapiede. Prima di scendere dal tram vuoto cercò di eliminare ogni cattivo pensiero perché lei non lo sentisse – in fondo nessun nugolo di ombre s’era minacciosamente riunito sulla sua casa per avvertirlo del pericolo, né lei pareva essere al corrente di qualcosa di oscuro. Kim l’avrebbe saputo prima, ma nel suo stato spesso le premonizioni si confondevano con la paranoia.
« Sapevo che non mi sarei liberato di te tanto facilmente » la salutò con un mezzo sorriso. « Sei di parola ».
Amoretta gli fluttuò accanto, scomparendo per un secondo sotto la luce dei lampioni. « Non è che non mi fido di te » mormorò. « Stavo rimuginando sul mio passato, quando succede non riesco a smettere ».
« A cosa pensavi? » chiese Kim. Non tutti gli spiriti erano intelligenti al pari di lei, molti vagabondavano come larve senza più ricordare cosa fosse la parola o quali sembianze avessero avuto.
« Al ballo della mia morte… a come Acanthe mi tenne tra le braccia, terminando con la sua bella voce la melodia che s’era interrotta per il colpo. Avrei potuto amarlo se non fosse stato un musico*, era così dolce persino nell’odore della polvere da sparo… è normale che mi manchi? »
Kim pose la mano dove una volta batteva il cuore di Amoretta e non parlò; se fosse stato addestrato, forse avrebbe saputo raggiungere il fondo di quel dolore per purificarlo.
« Mi piacerebbe poterlo ritrovare di qua » continuò lei « e scommetto che piacerebbe anche a quel povero idiota di D’Arbes. Non so a chi dei due abbia davvero voluto sparare, ma sono felice che non sia stato Acanthe… perdonami, » ed ebbe un moto di stizza che lo fece sorridere « sono una stupida e parlo troppo– »
« Ascolta, » Kim tentò di trattenerla un istante ancora prima che se ne andasse « stanotte potrei non mantenere la mia promessa di riposare, ma stai pur certa che una volta compiuto questo lavoro cercherò il tuo Acanthe ».
Amoretta lo seguì fino al portone con un sorriso timido – spettacolo che Kim trovava sempre piuttosto bizzarro. Il vento aveva già cominciato a trascinarla via insieme a petali e cartacce quando mormorò, quasi per paura d’infastidire i vicini:
« Dopo domani ti sentirai meglio e potremo ballare di nuovo… senza di te sarei perduta, i fantasmi non possono suonare ».

Kim entrò in casa senza accendere le luci; gettò le chiavi sul tavolo della cucina, arrancò per il corridoio e si lasciò cadere sul letto tutto vestito, ogni singolo nervo dolorante come se l’avessero torturato per ore. In realtà non era sicuro di superare indenne la cerimonia, e il solo pensiero di valicare per l’ennesima volta il confine con l’altro mondo lo disgustava. Doveva avvertire il signor Lee dell’eventuale bisogno di un medico, per quanto ciò avrebbe potuto indispettirlo; d’altronde tutto di lui – dalla rapida stretta di mano al modo in cui guardava dritto di fronte a sé durante una qualsiasi conversazione – parlava di un uomo rigido e poco amante degli imprevisti, e non servivano poteri particolari per capirlo.
Alla fine, inaspettatamente, le palpebre si fecero pesanti e Kim rinunciò a controllare la valigia socchiusa ai piedi del letto, dato che l’aveva già fatto un centinaio di volte nell’arco di una settimana. Il placido chiarore azzurrino dietro le tende gli ricordò una vecchia storia sull’uomo che dona il sonno in granelli di sabbia, e quasi sperò che il giorno non arrivasse mai a pungergli gli occhi.

Il signor Lee parcheggiò sotto lo studio all’alba, come concordato. Esitò un attimo prima di scendere dalla berlina; tuttavia le indicazioni erano state chiare e, per quanto profondamente detestasse quella situazione, doveva seguirle. I suoi superiori erano convinti che un rito propiziatorio avrebbe favorito la transizione dell’azienda dal commercio di elettrodomestici a quello di automobili e cellulari, e lui non aveva voce in capitolo. Decise di accendersi una sigaretta, ma la scritta “consulente” in eleganti caratteri d’oro sul portone gli mandò la voglia di traverso. Non sapeva neanche se quello con cui si faceva chiamare fosse il nome o il cognome o uno pseudonimo; magari avrebbe accompagnato un ciarlatano qualsiasi, o scoperto che si trattava solo di una brutta presa in giro.
Kim lo stava osservando dalle finestre specchiate del piano superiore, ma il delegato non pareva intenzionato a salire. Sapeva benissimo che quell’incarico lo metteva a disagio – non che Kim si sentisse meglio di fronte a lui –, tuttavia era altro a renderlo tanto cupo. Il ragazzo vide una bella donna dai grandi occhi scuri e le labbra contratte davanti ad un tavolino da camera, forse sua moglie; ne percepì il profumo, vago e freddo e dolce come quello delle lenzuola che aveva appena lasciato, e s’irritò al posto del signor Lee perché volgeva ostinatamente le spalle; poi riconobbe se stesso e provò sulla sua pelle un misto di sensazioni piuttosto confuse – fastidio per quella volta in cui s’era fatto trovare coi capelli lunghi sulle spalle, un imbarazzo quasi infantile al pensiero di salutarlo e dovergli viaggiare accanto per un’ora buona, persino qualcosa di talmente cocente ed istintivo da rasentare l’odio.
Kim poteva leggere nel suo animo molto più chiaramente che in quello di chiunque altro; per certi versi sembrava la sua Amoretta, se non fosse stato che il signor Lee era più scettico e diffidente dei suoi genitori messi insieme. Eppure c’erano volte in cui si sentiva attratto dal suo aspetto impeccabile e da quella maschera di cortesia che era costretto ad indossare per lavoro.
“Sono uno stupido masochista” si disse per le scale. Controllò velocemente che nessuna ciocca fosse fuori posto (tanto, che al signor Lee piacesse o meno, si sarebbero sciolti durante la cerimonia) ed uscì, trascinandosi dietro la valigia. L’altro accorse con un sorriso tirato che sparì quasi subito.
« Chiedo scusa, stavo fumando una sigaretta prima di ripartire » mentì. Accennò a volerlo aiutare, ma Kim rispose che preferiva fare da solo:
« Contiene oggetti piuttosto delicati » spiegò, mentre lui apriva il portabagagli. « La minima incrinatura comprometterebbe l’esito della cerimonia ».
Nella penombra, la smorfia contrariata del signor Lee si fece più evidente quando gli offrì di guidare fino al sito prescelto.
« I dirigenti saranno già lì? » chiese Kim. All’improvviso parlare con i morti non gli parve così gravoso quanto manovrare quel maledetto volante.
« Ci raggiungeranno. Immagino che il posto dovrà prima essere sistemato ».
Il brillio sarcastico negli occhi dell’uomo fu ancora meno incoraggiante, ma Kim non vi fece troppo caso. Si erano già presentati abbastanza problemi: le poche ore di sonno che era riuscito a conquistarsi non erano servite a molto, anzi, il suo cuore era affaticato come se qualcuno ne avesse pian piano tirato le corde fino ad invecchiarlo prima del tempo; inoltre il sole stava sorgendo fastidiosamente coperto, confutando ogni sua predizione.
« Allora andiamo, o faremo tardi ».
Il signor Lee aprì lo sportello del guidatore senza troppi convenevoli ed entrò dopo di lui. Mentre metteva in moto con le mani che tremavano, Kim intravide la sagoma di Amoretta, chiara come gocce di pioggia sospese nell’aria, ma non la salutò per non innervosire l’altro; sapeva che le sarebbe piaciuto accompagnarlo e immaginò il suo stupore di fronte a quegli sgradevoli marchingegni rombanti di cui non avrebbe mai capito il funzionamento, per cui provò una fitta allo stomaco nel lasciarla lì, tra le prime luci delle finestre.
« Non mi sembra molto in forma. » La voce arrochita del signor Lee lo fece voltare di scatto. « Non intendevo essere sgarbato, » aggiunse, passandosi una mano sui capelli impomatati, « ma è sicuro di poter completare ciò che le è stato richiesto? »
« Assolutamente. » Kim imitò il suo comportamento e parlò senza guardarlo in faccia. « Gli spiriti saranno tutti a vostro favore ».
« Se così sarà, il presidente la ricompenserà profumatamente ».
Kim sorrise, ma il suo sguardo si era rabbuiato. Gli parve di sentire la voce di Yujin: “ad un vero sciamano” così la venerabile definiva quelli come loro “è proibito ricevere denaro”. Lei invece sarebbe morta con onore, i suoi fedeli le avrebbero risparmiato la vergogna della decomposizione con chissà quali intrugli e avrebbero spezzato il suo tamburo in due cosicché nessuno potesse più percuoterlo.
Fuori città la situazione non migliorò affatto. Kim tentava d’evitare le strade dirette a nord per non attirare ulteriore sfortuna e, accortosi delle nuvole livide che parevano seguirli passo passo, di convincersi che non aveva completamente sbagliato i suoi calcoli – che qualche fulmine avrebbe potuto facilitare la connessione, in fondo. Ma se poi avesse disposto le offerte in modo infausto – se si fosse dimenticato quale canto intonare – cosa sarebbe accaduto? Di nuovo pensò al volto altero della nonna, ai suoi zigomi che si sollevavano come quelli di una statua di bronzo mentre sibilava: “gli Dèi non hanno molta pazienza, ragazzino. E gli Spiriti non perdonano”. Non che l’eventualità di deludere il presidente lo rendesse tranquillo; ma almeno avrebbe avuto una scusa per cancellare gli ultimi appuntamenti e ritirarsi.
Per ben due volte imboccò il sentiero errato – quei luoghi nebbiosi tra i folti boschi color smeraldo sarebbero apparsi simili a chiunque, ma non a lui – e il signor Lee non aprì bocca. Kim lo guardò allargarsi il collo della camicia con due dita e d’un tratto gli parve che il temporale imminente si fosse spostato nell’abitacolo: le vibrazioni che il corpo dell’uomo emanava, se tali potevano essere chiamate, da veloci e rabbiose erano divenute sempre più rilassate, come se stesse aspettando qualcosa con rassegnazione. Nella sua testa si affollavano le immagini della sera lontana in cui, assieme al presidente e altri colleghi, aveva visto Kim per la prima volta – un piccolo club dalla platea offuscata e le pareti rosse come il sangue e poi il palco che s’illumina e quel ragazzo che danza col viso bianco e abiti femminili e la chioma come un lungo velo funebre e dalle labbra sottili la canzone stridula irritante di una dama morente d’amore tra la neve – e ancora vergogna, mille volte la vergogna che gli rosicchiava le ossa ogni notte. Ormai tutto sembrava appartenere alla vita di qualcun altro.
Kim impallidì; cercò un posto in cui accostare, ma erano quasi giunti a destinazione e la strada si faceva sempre più stretta. Nell’ingranare la marcia urtò inavvertitamente il gomito del signor Lee, riscuotendolo da quello strano stato di catalessi in cui era caduto.
« Mi dispiace… »
L’altro si volse a guardarlo con gli occhi gonfi di lacrime.
« Moriremo insieme, dannato bastardo! » gridò a denti stretti e gli si gettò addosso come un demone, facendogli perdere presa sul volante.
Oltre il guard rail non c’era Amoretta, non c’erano Jonsu né la nonna; non c’era proprio nessuno.

Ciò che la gente teme maggiormente degli ospedali non è tanto il pensiero della malattia, o delle sale operatorie, ma quella pulizia forzata; nessuno sembra una persona reale sotto un camice, non può esserlo. In ogni caso ci si fa l’abitudine, quando si è costretti a passarvi tanto tempo: allora persino gli zoccoli degli infermieri e i passi timorosi dei visitatori diventano una piacevole nenia. Per questo Nora Lee sobbalzò quando l’ordine del corridoio fu spezzato da un rumore di tacchi.
« Mi scusi, la disturbo? »
La proprietaria di quella voce profonda era un’anziana dal volto scuro e indurito; la signora Lee non riuscì ad intuire quanti anni avesse né perché fosse lì, a parlare proprio con lei.
« Mi dica pure » biascicò intontita. Aveva trascorso le ultime due ore fissando a mente vuota la geometria ossessiva degli spazi grigi tra le mattonelle.
« Devo visitare suo marito, o quel che ne rimane ».
La franchezza della donna parve colpirla più forte di un pugno nello stomaco.
« Perché? Chi è lei? »
« È urgente ».
La signora Lee fece per ribattere ancora, ma dalla sua bocca uscì solo un singhiozzo. Non aveva la forza per provare dolore, figurarsi per fermare una vecchia che, francamente, le metteva anche un po’ paura: quegli occhi brillanti sembravano aver conosciuto cose celate a molti. La fece entrare nella stanza in cui vegetava suo marito e tremò nel ritrovarselo davanti, il lenzuolo tirato fino al mento per nascondere le amputazioni, come se non l’avesse ancora guardato.
« Lasciaci soli » sibilò lui.
« Aspetti! » la sconosciuta afferrò Nora per un braccio, ma lo lasciò subito quando notò la sua espressione nauseata. « Credo che prima debba sapere che quello non è suo marito. Tecnicamente egli è morto, come mio nipote; ma il suo riprovevole involucro mortale è rimasto incustodito e lo spirito di Kim ne ha preso possesso per motivi che non sto qui a spiegarle. Io dovrò liberare mio nipote da lì prima che possa combinare danni, dopodiché sarà necessario compiere due riti funebri perché le loro anime possano giungere immacolate nell’oltretomba. » Poi aggiunse, quasi raddolcita: « Ora vada a prendersi un caffè, ne parleremo meglio più tardi ».
La venerabile Yujin richiuse la porta dietro di lei con un sospiro: sapeva che con una donna come la signora Lee avrebbe solo perso del tempo prezioso, ma la sua autorizzazione era fondamentale. Sedette accanto al paziente e lo fissò a lungo, finché lui non ghignò:
« Quanto tempo, nonna. Che cosa volete da me adesso? »
« Farti uscire da questa carcassa, ragazzo. O vorresti continuare a fare il parassita e fingere di amare quella poveretta? »
Kim roteò gli occhi. « Non sarebbe difficile, il signor Lee non l’hai mai amata. Come se t’importasse di lei, o di me ».
« Infatti ciò è del tutto secondario » replicò freddamente Yujin, i pugni sulle ginocchia. « Ma tu sei diventato uno spirito rabbioso ed io non posso permetterti di girare indisturbato su questa terra. Credi che non abbia visto tutto, che non lo sapessi già? »
« E allora perché non avete fatto niente? »
« Perché voi stolti non avete voluto capire. » Nel tono della venerabile non c’era traccia di affetto, o anche solo compassione; il suo cuore era più arido dei fiori finti che qualcuno aveva portato. Se Kim fosse stato uno spirito qualunque, non si sarebbe mai rivolto a lei. « I tuoi sciocchi genitori hanno firmato la tua condanna rinnegandoLi, e tu l’hai degnamente portata a compimento. Farti pagare per i tuoi servizi, ah! Sei stato fortunato a non impazzire prima dell’incidente ».
Kim torse da lei il bel volto appartenuto al signor Lee. Si morse le labbra come se dovesse trattenere il pianto, ma poi ammise con voce roca:
« Vivere in questo modo mi fa già schifo. » Esitò prima di chiedere: « Mi… esorcizzerete? »
« Non sarà necessario. Basteranno acqua, sale e fuoco ».
« Nonna » riprese Kim con più forza « so che non mi apprezzate, ma ho bisogno che mi concediate dei favori dopo che me ne sarò andato ». E le parlò della promessa fatta ad Amoretta – che s’era rifiutata di vederlo in quello stato –, di Jonsu e persino della fragile psiche della signora Lee. La venerabile lo zittì con un cenno della mano.
« Lo farò, » disse, « così che tu e il signor Lee possiate andare in pace. Il sonno di un giovane è sempre caro agli Dèi ».
 
 
 
 
 
[* modo meno offensivo per riferirsi a un castrato]
   
 
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