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Autore: Raven85    11/05/2014    2 recensioni
Io, Lolita? No. Non più.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so cosa speravo che fosse, non so in cosa speravo. So solo che non è andata come doveva andare, per niente.
Avevo appena dodici anni quando lui entrò nella mia vita. Eppure non posso dire che fu lui a traviarmi, o a sedurmi, o in qualunque modo si voglia dire. Io non sono mai stata una ragazzina innocente.
La mia storia non era poi così originale, o tragica. Ero, sì, orfana di padre - mia madre aveva vent’anni di meno, ovvio quindi che rimanesse vedova presto - e avevo avuto un fratellino morto anch’egli presto, ma ero tanto piccola all’epoca che nessun ricordo rimane in me, pochi dell’uno e niente dell’altro. Eravamo dunque, quell’estate a Ramsdale, solo mia madre e io.
La nostra città natale non era Ramsdale, ma Pisky, pure se io non l’amavo particolarmente. Nemmeno a Ramsdale mi creai chissà quali amicizie, eppure mi trovavo abbastanza bene.
Con mia madre il rapporto non era facile. Non so dire se verso di me provasse una qualche specie di invidia, ma so che litigavamo spesso e non mi facevo scrupolo di diventare insolente con lei, a volte anche senza motivo. Eppure, anche dopo tanto tempo mi rendo sempre più conto di quanto mi manca.
Abitavamo in una casetta cadente e con un arredamento di dubbio gusto, e avevamo una governante a tenerla in ordine, Louise, perché mia madre non è mai stata una donna di casa. Il che, quando divenni più o meno una donna, mi portò a chiedermi per quale motivo mio padre l’avesse sposata.
Quell’estate i McCoo, genitori di una mia compagna di classe, avevano deciso di prendere in casa loro un pensionante. Il destino però volle che proprio il giorno del suo arrivo un incendio distruggesse la loro casa: e così mia madre si offrì di ospitarlo lei.
Non ero entusiasta del fatto di avere un estraneo per casa, mi bastava Louise che di per sé era abbastanza impicciona, ma non avevo scelta. E la prima volta che lo vidi stavo prendendo il sole nel giardino dietro casa, dato che il mare era troppo lontano.
Non avevo mai avuto molti rapporti con gli adulti, ma lui non era uguale a nessun altro che conoscessi. Seppi poi che non era americano, era nato in Francia e lì aveva vissuto fino a pochi anni prima. Sembra che avesse anche radici svizzere, in un certo senso. Ma già bastava guardarlo, per rendersi conto della sua estraneità al modo di pensare americano.
Credo che non superasse la quarantina, ed era decisamente un bell’uomo. Dai discorsi di mia madre sapevo che era una specie di commerciante nel ramo dei profumi, ma a quanto pareva scriveva anche, non dei romanzi ma dei saggi, o qualcosa di simile. Non mi presi mai la briga di approfondire.
La mamma aveva adibito una delle stanze a studio, e lui stava spesso là, dove a volte andavo a curiosare. Mi sembrava sempre estremamente interessato a tutto quello che facevo, e avevo in mente di farmelo alleato nel corso delle varie diatribe con mia madre. Lui però non si sbilanciava mai, e in generale non mi parlava molto.
Mi guardava però, quello sì.
All’inizio di quell’estate, prima del Camp Q, ero ancora vergine. La cosa non mi turbava più di tanto, né sentivo particolari stimoli ad ovviare al “problema”. Avevo però una certa esperienza in fatto di baci, insegnatami da una mia compagna di scuola al campo dell’anno prima. Non so se fosse effettivamente lesbica, o qualcosa del genere, ma era fantastica.
Molto tempo dopo accusai Humbert di aver tentato di violentarmi varie volte quando viveva in casa nostra, ma non era la verità. Devo essere sincera e dire che non tentò mai di mettermi le mani addosso, né disse o fece nulla di sconveniente. Questo naturalmente se si accetta il fatto che gli sguardi non possano essere “sconvenienti”.
Quell’anno per me era già stata decisa la colonia, a partire dal mese di luglio. Ma poi mia madre ebbe un colloquio con la madre di Phyllis, una mia compagna, e cambiò idea, decidendo di mandarmi prima e di lasciarmi là fino all’inizio della scuola.
Non ne avevo la minima intenzione allora, e adesso mi chiedo se la mia vita avrebbe preso una piega differente, se non ci fossi andata. Non posso dire che sarei rimasta più innocente di quanto sono adesso, ma forse tutto questo non sarebbe accaduto.
O forse sì.
Comunque, partii per il campo. Appena fui arrivata, in serata Humbert mi telefonò, annunciandomi che avrebbe sposato mia madre. Non gli prestai molta attenzione, e non partecipai alle nozze, così per me non cambiò poi molto. Almeno, non sotto quel punto di vista.
L’unico essere maschio della nostra età alla colonia era Charlie Holmes, il figlio della direttrice. Come ragazzo non era un granché, ma una mia compagna più grande, Barbara, aveva iniziato a fare sesso con lui fin dall’inizio, e alla fine anche io mi ero incuriosita e avevo voluto provare. Certo, non era una bomba. Ma era meglio che niente.
Prima della fine del campo venni convocata dalla direttrice. Disse che mia madre stava male, e mio “padre” sarebbe venuto a prendermi l’indomani. Naturalmente, non potevo immaginare che fosse già morta.
Il pomeriggio dopo lui venne a prendermi, e da lì iniziò il nostro viaggio. Quella sera soggiornammo nell’albergo dei Cacciatori Incantati - lo stesso albergo dal quale Cue aveva preso l’ispirazione per la sua commedia - e la mattina dopo eravamo ufficialmente amanti.
Non voglio mentire e dire che mi violentò, o qualcosa di simile. Fui io anzi a cercare le sue attenzioni, a chiedergli esplicitamente di fare sesso con me, pensando forse - non ne sono certa - che sarebbe stata l’unica volta, che a lui sarebbe bastata. Che provare con un’altra persona, con un uomo adulto, sarebbe stato divertente.
In un certo senso lo fu, ma rimasi anche sorpresa. Era ovvio aspettarselo, dopotutto aveva trent’anni più di me, e certo sapeva cose che a me erano ancora ignote. Ma non mi diedi per vinta e cercai di non farglielo capire. Mai, per nulla al mondo avrei ammesso che non avevo idea di cosa fare.
Solo quella mattina lo facemmo per tre volte. Sembrava che non fosse mai sazio di me, il che mi dava una sensazione che non so spiegare. Un senso di potenza, di invincibilità. Una bambina, non ancora tredicenne, che teneva sotto il suo giogo un adulto.
Lui lo seppe solo più tardi, ma quella sera in quell’albergo c’era anche Cue. Non solo: ci vide al tavolo della cena, e forse già allora si chiedeva quale fosse il mio rapporto con quello che si definiva mio padre. Chissà se sapeva che non lo era.
Fu più tardi, in quello stesso giorno, che seppi che mia madre era morta.
Credo di poter dire con sicurezza che lui non capì mai come mi sentivo. Aveva vissuto con noi per poco più di un mese, e aveva visto che il nostro rapporto era a dir poco freddo: e questo sicuramente gli era bastato per pensare che ci odiassimo, o che io odiassi lei. Non mi presi mai il disturbo di spiegargli la realtà delle cose.
Nei giorni e nelle settimane seguenti, nella nostra nuova vita da amanti, presi coscienza del fatto che per lui non ero né solo un corpo né una figlia, o presunta tale. C’era in lui qualcosa di profondo, un sentimento che sconfinava dal normale affetto di un padre o di un patrigno, ma io sapevo di non poterlo ricambiare. Per lui non provavo nulla di speciale: nonostante spesso glielo abbia detto non lo odiavo, ma nemmeno lo amavo.
C’era stato, sì, il periodo iniziale in cui ero stata infatuata di lui, ma da ragazzina incostante qual ero - e come credo siamo tutti a quell’età - mi era anche passata alla svelta, lasciandomi solo indifferenza. Del resto, non sapevo neanche bene cosa fosse l’amore.
Per me l’amore è stato invece Clare Quilty. Oh, lui mi spezzò il cuore. Ero una bambina e lui approfittò della mia adorazione, si prese gioco del mio amore e quando non gli piacqui più non si fece scrupolo di gettarmi via. Lo stesso trattamento, in effetti, che io avevo riservato al mio quarantenne amante.
Humbert e io andammo in giro per due anni. Visitammo innumerevoli alberghi e incontrammo migliaia di persone, visitammo posti diversi, e intanto ci amavamo con ferocia, ci odiavamo e litigavamo, lo insultavo e la notte c’era la riconciliazione, la sana scopata che risolveva ogni conflitto. Male, solo male, male assoluto.
Credo che Humbert mi amasse sinceramente. All’epoca non lo capivo, o non mi interessava, ma adesso lo comprendo e sono pentita per averlo ferito tanto. In fondo, non lo meritava.
Fu dopo questi due anni che lui decise di iscrivermi alla scuola. Scelse Beardsley, quella che mia madre aveva deciso per me prima di morire. Un collegio femminile.
Qui vidi di nuovo Cue. Aveva scritto la commedia dei Cacciatori Incantati, e alcune volte venne alle prove, e così avemmo nuovamente modo di incontrarci. Proprio a quelle prove Humbert aveva messo il suo veto, forse temendo che potessi perpetrare chissà quale tradimento ai suoi danni. Il che, in un certo senso, è più o meno quello che è accaduto.
Perché a Cue raccontai tutto di me e del mio patrigno. Lui era stato amico di mia madre, e in effetti aveva un debole per le ragazzine, e io me ne innamorai pazzamente. La vita con lui, pensavo, sarebbe sicuramente stata diversa, migliore: certo, sarei stata comunque una concubina come con Humbert, ma Clare Quilty era speciale, era famoso, era ricco. Mi avrebbe fatta entrare nel mondo delle stelle dove lui viveva. Mi avrebbe fatta diventare una star.
Adesso so che erano tutte bugie, naturalmente. Ma all’epoca non avevo ancora quindici anni, e credevo ad ogni cosa mi venisse raccontata. Credevo ancora nei sogni.
Un colloquio con la preside a seguito di una mia pagella convinse Humbert a lasciarmi recitare nella commedia, ma prima della messa in scena litigammo furiosamente e riuscii a convincerlo, come avevo convenuto con Cue, a lasciare Beardsley e ripartire. Il piano era semplice e fondamentale: avrei convinto il mio amante a portarmi fino a Elphinstone, e lì sarei riuscita in qualche modo a sfuggirgli. Lì ci sarebbe stato Cue ad aspettarmi.
E il caso mi aiutò. Dopo varie altre peregrinazioni raggiungemmo la mèta prefissa, io con la febbre a 40, il che rese necessario il ricovero in ospedale. Qui mi fu semplice, passato il primo giorno di stordimento totale, convincere un’infermiera compiacente a reggermi il gioco con mio “padre”. E la mattina del terzo giorno Cue venne a prendermi, impossibilitato Humbert a venire a trovarmi, caduto lui stesso ammalato.
Il mio viaggio con lui fu decisamente più divertente di quello con Humbert, perché lui sembrava capirmi davvero. E non andammo mai a letto insieme, perché lui era impotente. Ma a me non importava.
Fu molto abile a disseminare indizi per confondere le idee a mio padre, che sicuramente era sulle nostre tracce. Era colto e aveva letto molto, era intelligentissimo. Anche più di lui.
Quando Cue mi abbandonò io trovai lavoro insieme a Fay, una giovane attrice. Lavorammo come lavapiatti per circa due anni. E poi conobbi mio marito, Dick.
A diciassette anni dunque mi trovo sposata e incinta, quasi all’ottavo mese. Rintracciato l’indirizzo di Humbert gli scrissi, perché Dick e io, con un bimbo in arrivo avevamo un disperato bisogno di soldi. E lui si fece vedere, portandomi un sostanzioso assegno e comprando l’auto che era stata di mia madre.
Penso che mi amasse ancora. Quando venne a casa volle sapere insistentemente dove fosse Cue, e solo recentemente ho saputo che Clare è morto. Non sono certa che lui ne sia estraneo, sebbene nei nostri tre anni di convivenza non lo avessi mai ritenuto capace di uccidere qualcuno.
Mi chiese anche di tornare con lui. Ma io rifiutai, e a oggi sono certa di aver fatto la scelta giusta. Sicuramente sono stata crudele e ingiusta con lui, a prendermi gioco del suo amore, ma davvero non potevo fare diversamente. Ero solo una ragazzina e mi sono difesa come potevo. Ne sono certa anche adesso.
Perché sono stanca di vivere la vita decisa da altri. Adesso voglio una vita mia, e la voglio con lui, con Richard Schiller e con il bambino che sta per nascere. Un bambino per il quale spero di essere una madre migliore di quella che ho avuto io.
Io, Lolita? No. Non più.
  
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