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Autore: misslittlesun95    11/05/2014    4 recensioni
Gaia Olivietti.
Ragazzina nel 1979, ragazza nel 1982, donna nel 2009.
Genova.
Il terrorismo, la droga, la malattia.
La storia di una ragazza che diviene donna, di un padre che va via troppo presto, di un amico mangiato da qualcosa più grande di lui.
Una storia di Italia, di italiani, di quotidianità distrutte.
Una storia così tremenda da poter essere quasi vera.
(Altissimo contenuto ANGST!)
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Invisibili
_______



Perché a Genova si moriva a vent’anni
Ma senza diventare mai, mai degli eroi
Coi tuoi separati a colpi di calibro trentotto
E i miei tenuti insieme dalla speranza per l’umanità
Noi sempre oltre ogni limite
Quel limite era una scommessa da non perdere mai

Invisibili – Cristiano de André

.


Genova, 1979

La seconda metà di Agosto, prima dell'inizio della scuola, li si trovava lì, a Quarto dei Mille.
Non c'era un motivo particolare o preciso per cui avessero scelto quella zona, semplicemente gli piaceva.
Erano due anni che le ultime settimane di vacanza le passavano tra quelle vie, su quel lungomare, da quando Gaia aveva superato la terza media e i genitori avevano deciso che fosse abbastanza grande per girare da sola.
Lei era l'ultima di tre figli, nata a Ottobre del 1963. Il più grande, Antonello, aveva otto anni più di lei, studiava ingegneria e guadagnava qualcosa lavorando in un'officina vicino casa, mentre la sorella di mezzo, Patrizia, era del '60, aveva finito quell'estate la maturità ed era ancora indecisa su cosa fare all'università.

Gaia frequentava lo stesso liceo classico dei fratelli e stava per iniziare il terzo anno.
Andava a scuola con la sua migliore amica Luisa, e in generale si trovava molto bene con la sua classe, eppure quelle ultime settimane di libertà le passava con due ragazzi poco più gradi di lei e che conosceva da ben prima di iniziare le superiori.
Simone e Giorgio, entrambi diciottenni, dovevano cominciare la quinta scientifico ed erano amici di Gaia da una vita, da quando erano bambini e a Giugno, appena finite le scuole, andavano a passare il tempo a Loano, un altro paesino della Liguria.

Se non si fossero conosciuti lì non l'avrebbero mai fatto, più crescevano più se ne rendevano conto.
Non sarebbe stato importante quanti anni avrebbero potuto vivere a Genova, avevano vite troppo diverse perché si potessero incrociare in una città così grande.
Giorgio era figlio unico di due operai, persone per bene ma che convivevano con troppe difficoltà, tanto che per il ragazzo era stata una lotta iscriversi al liceo e un'altra lotta sarebbe iniziata di lì a poco per poter fare l'università.
Tutto il contrario era l'ambiente sociale da cui proveniva Simone, il cui padre attore molto famoso a Genova e abbastanza noto anche nel resto del paese, costretto da questa parentela a non essere mai sé stesso ma solo il figlio di. Si sentiva tremendamente schiacciato da quel fatto, vittima di qualcosa che non voleva ma che non poteva cambiare.
Aveva deciso da tempo che, finito il liceo, si sarebbe iscritto a medicina, impegnandosi al massimo per poter diventare un grande medico. Pensava che, a quel punto, la gente lo avrebbe riconosciuto per quello che era, per la sua professione, per il suo ruolo, non più semplicemente per il cognome che portava e che, da tempo ormai, iniziava ad essere quasi pesante.
In fine c'era Gaia, che se fosse nata in un altro posto, in un'altra epoca, sarebbe stata la quintessenza della normalità. Ma era nata a Genova nel periodo sbagliato, e anche se aveva una famiglia che l'amava aveva un padre magistrato e una paura che le corrodeva il cuore.

Suo padre, Alfio, aveva imposto alla famiglia che non si guardasse la televisione a cena, quando la Rai trasmetteva il telegiornale.
Non voleva che i suo figli, soprattutto la più piccola, sentissero ogni sera dei morti fatti dalla follia di qualcuno.
Ma era impossibile non accorgersene; i giornali, la gente in strada, i funerali che a Genova erano continui.
Gaia vedeva, sentiva, sapeva.
Sapeva che c'erano ragazzi e ragazze della sua età, che potevano essere suoi amici, che si alzavano un giorno e la sera stessa si mettevano a letto senza avere più un pezzo della loro famiglia.
Sentiva Vespa al telegiornale, quando lo guardava, dire che la gente moriva tutti i giorni, uccisa. E leggeva rapida gli articoli di persone importanti, come Montanelli o Scalfari, che dicevano quelle stesse cose.
Sperava, Gaia, sperava che un giorno smettessero, sperava che un giorno tutto quello finisse.
Guardava suo padre, ogni tanto.
Lo guardava fumare seduto al tavolo del salone mentre risistemava alcune carte di lavoro, e in quei momenti pensava alle parole di quelli come Vespa, Montanelli o Scalfari. Diceva a se stessa che un giorno avrebbero davvero smesso di parlare e scrivere di morte.
Ma poi, per un attimo, il tempo di una lacrima, si domandava se, invece, un giorno non avrebbero fatto anche il nome di suo padre lì, davanti a milioni di italiani che guardavano o leggevano inermi di una follia assurda.
Impotenti davanti al dolore, al sangue, alla morte.
Poi correva ad abbracciarlo, inventando una scusa.
Perché sapeva gli sforzi che faceva Alfio per tenerla lontana da quel mondo terribile, e non voleva fargli vedere che tanto era inutile, che i brutti pensieri li aveva comunque.
Per come era fatta lei, poi, che preferiva tenersi dentro le cose brutte e tirare fuori solo quelle belle, era anche difficile parlarne con gli amici.
Con la famiglia, ovviamente, evitava di fare quei discorsi, ma una volta, tempo prima, quando una sera suo padre non era tornato per cena e avevano guardato la televisione, ad Antonello quei pensieri li aveva detti.
- Ma tu quando senti queste notizie a papà non pensi mai?-
- Sì, ma so che non succederà mai nulla. -Gli aveva risposto lui mentre si trovavano seduti in balcone a prendere un po' di fresco.
- Io lo spero. Però la paura rimane.-
- La paura è fisiologica, Gaia, e non solo in questi casi. Io preferisco non pensarci, saprei che vivrei male con tutta questa paura addosso. Fisiologica sì, ma non deve rovinarci la vita, la paura.-
- Io a volte ci penso solo perché se accadesse vorrei essere preparata.-
Antonello non aveva risposto alla sorella, l'aveva solo abbracciata.
Se le avesse risposto la sua verità, ovvero che tanto per quanto agli eventi peggiori ci si pensi non si arriva mai, ma proprio mai, preparati, sarebbe stato anche peggio.
Preferiva non dirle nulla, né cose belle né cose brutte, ma stringersela vicino come se fosse ancora una bambina e farle capire che lui c'era e ci sarebbe stato.
Neanche Simone e Giorgio sapevano dei pensieri che spesso intristivano l'anima dell'amica.
Con loro il rapporto era molto simile a quello che aveva con il fratello maggiore, tanto che se mai si fosse innamorata di uno dei due si sarebbe certamente sentita sporca, impura, perché per lei sarebbe stato quasi un amore incestuoso.
E i ragazzi anche non riuscivano a vedere Gaia come una possibile fidanzata, troppo attenti a tenersela stretta come una sorella più piccola, da crescere, da proteggere.
Ma come potevano proteggerla dai mostri che aveva dentro? Da quella paura che non esplicitava, che nascondeva come un peccato.
In quegli anni se ne erano accorti, Simone e Giorgio, avevano capito che qualcosa in Gaia distruggeva la sua serenità e avevano anche intuito di cosa si trattasse.

Ma lei non parlava e loro non la volevano costringere.
Anche perché, quando erano da soli e il discorso cadeva su Gaia e le sue possibili paure, si rendevano conto di come fossero del tutto impotenti a riguardo.
Certo, potevano tranquillizzarla, parlarle, dirle di non temere, ma a livello pratico non c'era nessun gesto, nessuna azione che loro potessero fare per mandare via la paura dell'amica.
E allora, per quanto doloroso fosse, si limitavano a guardarla mentre fingeva di star bene e aver la mente libera da ogni pensiero triste.
Lo facevano anche quel giorno, un bel pomeriggio di inizio settembre.
Avevano mangiato insieme in un piccolo bar non molto lontano dal lungomare e, mentre uscivano da lì, Gaia aveva detto loro che la giornata insieme sarebbe terminata presto perché alle tre e mezza si sarebbe dovuta trovare a piazza Crispi per incontrarsi col padre.
- Devo andare a cercare i libri per la scuola e poi lui deve tornare a lavoro.-
Aveva spiegato.
- Però che palle! Tutti gli anni, a inizio settembre, è la stessa storia; gli unici giorni in cui possiamo stare insieme senza troppe restrizioni tu devi sparire!-
Aveva esclamato Simone.
- E domani sarà ancora peggio perché mio padre lo vedrò a casa, quindi dovrò prendere l'autobus alle tre. Ma se volete posso venire qua la mattina verso le nove, così stiamo insieme. Se vi svegliate, ovviamente.-
- Gaia non vorrei apparirti scortese, ma quella incapace di alzarsi prima delle undici e mezza qui sei te!- Le disse ridendo Giorgio.
La ragazza gli aveva mostrato la lingua e poi era andata a sedersi su un muretto di quelli che stavano qualche metro sopra alla spiaggia.

Gli altri due l'avevano poi raggiunta e lei si era messa a raccontargli di un ragazzo conosciuto al mare in Toscana, a Porto Santo Stefano.
- Cosa cosa? Gaia conosce un ragazzo e noi lo sappiamo solo due settimane dopo il suo rientro a Genova!? - Aveva detto Simone. E l'altro gli aveva fatto eco a modo suo. - Marchi male, signorina. Malissimo.-
Gaia aveva sbuffato e poi aveva replicato. - Guardate che ci sono due uomini nella mia vita che devono sapere dei miei amori, è vero, ma mica siete voi!-
- Fammi indovinare...- Era stato il commento di Giorgio. - Saranno mica tuo padre e tuo fratello?-
Avevano riso tutti e tre, poi lei aveva raccontato per bene ai due di quello che era successo al mare.
- In realtà non è accaduto niente di che, neanche un bacio. Ma stavo bene insieme a lui. È Pisano, si chiama Andrea. Da quando sono tornata mi ha anche telefonato un paio di volte. Insomma, non mi ha dimenticata.-
Simone e Giorgio avevano chiesto i dettagli di quell'amicizia, se si poteva chiamare così, e soprattutto avevano fatto all'amica un interrogatorio vero e proprio sul ragazzo.
Alla fine, mentre andavano verso la piazza perché, loro malgrado, si erano accorti che il tempo da passare insieme stava per loro finendo, avevano detto che sì, forse, poteva essere un buon partito per la ragazza. - Ma prima dobbiamo conoscerlo per bene!- Aveva detto fingendosi serio Giorgio mentre lei entrava nella macchina del padre.
I due ragazzi avevano salutato con un cenno del capo il magistrato e poi lui aveva messo in moto.
- Chi è che devono conoscere per bene Simone e Giorgio?- Aveva chiesto alla figlia mentre guidava verso il centro.
- Oh, parlavamo di Andrea. Il ragazzo di Pisa, papà, ti ricordi?-
- Certamente. Fammi capire, sei arrivata a quell'età in cui gli amici maschi più che amici sono padri?- Aveva riso Alfio.
- Fratelli, papà, fratelli. Di padre ne ho solo uno e mi basta.- Aveva risposto lei baciandolo sulla guancia.

****


L'officina in cui lavorava Antonello era di strada al padre dalla procura a casa, così quando Alfio usciva dal lavoro andava a prendere il figlio e assieme ritornavano dalle tre donne della loro vita.
Quella sera di settembre era andata proprio come tutte le sere, i due uomini erano rincasati insieme e avevano trovato Beatrice, la madre, in cucina assieme alle due figlie.
- Ma ancora non si apparecchia qui?- Aveva detto fingendo una voce burbera.
Gaia e Patrizia avevano riso, perché malgrado tutti gli sforzi che faceva per sembrare un uomo severo Alfio era totalmente incapace di arrabbiarsi con i suoi cari.
- Abbiamo apparecchiato in balcone, papà. È una così bella serata.- Aveva detto la secondogenita mentre il resto della famiglia si avviava già verso la tavola.
Dal balcone di casa loro, bello spazioso, si vedeva bene tutta Genova e in particolare il mare.
Era iniziato settembre, era vero, ma ancora quella sera riuscirono a godersi il tramonto sul porto e sulle spiagge della città ligure.
- Sai che tua sorella minore ha due nuovi fratelli maggiori?- Aveva detto mentre mangiavano Alfio al figlio più grande.
- Fammi indovinare... Si chiamano Simone e Giorgio! Ci ho preso, vero?-
Gaia aveva fatto una smorfia al padre e poi, prima che lo facesse lui, aveva raccontato quello che era successo nel pomeriggio.
Poi aveva detto che il giorno seguente si sarebbe alzata presto per andare dagli amici a Quarto e il padre le aveva proposto di accompagnarla.
- Tanto non ho molto da fare in procura domani, per una volta posso anche permettermi di entrare dopo e uscire prima.-
La ragazza lo aveva ringraziato e baciato alzandosi da tavola.
- Scappo che chiamo i ragazzi e poi Luisa!-
- Da quanto non la senti? - Aveva riso la sorella maggiore. - Due ore?-
- Oh ma stasera ce l'avete tutti con me?- Aveva chiesto Gaia alludendo alle scherzose prese in giro che durante la cena le aveva fatto la famiglia.

Poi, mentre gli altri ancora ridevano e mangiavano, era corsa al telefono e lo aveva occupato praticamente fino all'ora di dormire.
Prima di coricarsi aveva salutato per bene la madre e la sorella, dando solo una lieve buonanotte ai due uomini di casa perché sapeva che li avrebbe rivisti la mattina dopo appena sveglia.
E infatti, poco prima delle otto, Antonello l'aveva svegliata scuotendola dolcemente come solo un fratello maggiore sa fare, mentre Alfio in cucina già preparava la colazione.

Il ragazzo uscì di casa prima degli altri, doveva andare in facoltà prima che in officina e non aveva molto tempo da perdere.
Il padre e la figlia più piccola, invece, riuscirono a salutare Beatrice ma, ovviamente, non Patrizia, che in quanto a dormite estive batteva con molta abilità la sorella.
A piazza Crispi Simone e Giorgio salutarono cortesemente l'uomo che alle loro parole adulte sorrise ripensando a quando erano bambini e lo chiamavano zio nelle lunghe giornate al mare.
- Trattatemela bene, è l'unica che ho ancora piccola.- Aveva detto prima di andarsene riferendosi a Gaia.
I tre erano andati a fare colazione e poi in spiaggia.
Si stava bene a Genova quel giorno di inizio settembre.
Venerdì 7 settembre.
07/09/79 aveva riso la ragazza dicendo agli altri che giorno fosse.
Avevano fatto il bagno e preso il sole, parlando della scuola che stava per iniziare, del compleanno di Gaia a cui mancava poco più di un mese, del futuro fuori dal liceo che attendeva i due ragazzi a meno di un anno da lì.
Poi le era stato ancora domandato di Andrea e lei aveva risposto a tono chiedendo perché mai loro due non si fidanzassero né parlassero di ragazze.
- Che domande! È perché ci amiamo tra di noi.- Aveva detto Giorgio abbracciando l'amico.
Era una bella giornata, a Genova, quel 7 settembre 1979.
- Le vacanze estive durano sempre troppo poco. Mi sembra ieri il primo bagno in mare a giugno!- Aveva sospirato Gaia mentre giocavano a carte sotto il caldo sole delle undici e mezza.
- Si vede proprio che sei ancora piccola, Gaietta. A me pare ieri che giocavamo tutti insieme in spiaggia a Loano, ai bei tempi della scuola elementare. Possibile che siano già passati dieci anni?!- Aveva retoricamente domandato Giorgio.
- Non chiamarmi Gaietta! Lo sai che mi dà fastidio! E poi non sono piccola, sono solo meno nostalgica di voi. -
- Già, in questo non hai di sicuro preso da tuo padre però.- Aveva fatto notare Simone mentre rimescolava il mazzo. - Oggi, quando ti ha accompagnata, ci ha guardati in un modo strano. O era terribilmente stanco o era terribilmente stupito nel vederci così grandi.-
- Credo la seconda. In fondo per papà siete sempre stati se non dei figli dei nipoti. Anzi, non so se vi ricordate ma qualche anno fa lo chiamavate zio.-
- Come no!- Era stata la risposta di Giorgio. - Ma poi sono cresciuto e ho iniziato a vergognarmene, non so il motivo.-
La ragazza non aveva più parlato.
Era arrivata sopra alla spiaggia una nuvola molto scura e per un attimo aveva fatto fresco.
Gaia aveva approfittato di quel momento per lasciar perdere la partita a carte e sdraiarsi sull'asciugamano in attesa che il sole tornasse.
Si era messa a pensare a quelle estati a Loano e alla loro amicizia particolare, quella di tre persone così diverse.
Era vero che i due ragazzi, malgrado la provenienza sociale e familiare totalmente differente, frequentavano il liceo insieme, ma lo avevano deciso dopo, quando ormai erano amici da tanto.
- Ragazzi mi svegliate all'ora di pranzo? Ho sonno!- Aveva detto poi girandosi a pancia sotto e facendo il possibile per addormentarsi.
Loro avevano riso. Lo sapevano benissimo che alzarsi la mattina presto nel periodo di vacanza era per lei impossibile, e così già dalla sera prima avevano immaginato che la mattinata al mare si sarebbe conclusa in quel modo.
La nuvola scura se n'era andata in fretta, lasciando tanto sulla pelle dell'addormentata quanto su quella dei due svegli un brivido che era subito dopo divenuto caldo.
Verso il mezzogiorno, piano piano, la spiaggia si era svuotata e le urla dei bambini, assieme ai loro giochi e ai loro schiamazzi, avevano lasciato spazio al rumore delle onde, dei gabbiani e di qualche macchina che passava sulla strada sopra il lungo mare.
Alla fine Gaia si era addormenta davvero e, quando i due l'aveva accertato, si erano messi di nuovo a parlare di Andrea, forse perché la notizia dell'innamoramento, o presunto tale, dell'amica era per loro così inaspettata che dovevano ragionarci sopra a lungo.
- Non che io abbia nulla in contrario, anzi, ma fa veramente strano vederla invaghita di qualcuno.-
- Sì, Simo, e menomale che non si tratta di uno di noi due perché in quel caso sarebbe stato un guaio veramente grosso.- Aveva scherzato Giorgio. Ma dopo poco era tornato a farsi serio, ammirando l'amica riposare. - Dopo tutto è così bella, prima o poi sapevamo che sarebbe accaduto. O magari è successo anche altre volte e non ci ha mai detto nulla, le ragazze a volte sono così. Di sicuro lo sa Luisa.- Aveva detto riferendosi alla migliore amica di Gaia. - Ma penso che riguardo agli amori della nostra comune amica sia più muta di una tomba.-
Simone aveva annuito e aveva guardato il mare con lo sguardo di chi cerca qualcosa, lì fuori. - Sì. Anche Marta, ti ricordi? La ragazza con cui sono stato all'inizio delle superiori. Anche lei ce ne mise di tempo prima di confessarmi che fosse innamorata.-
- Vabbeh ma è diverso! Pure io, malgrado sia maschio, in certi casi non confesserei mai un amore alla diretta interessata. No, no, io ti parlo di un'amica. Una ragazza può essere amica di un ragazzo ma non avrà mai lo stesso rapporto che ha con altre femmine.- Giorgio cercò di spiegarsi meglio e l'amico capì cosa intendesse.
- Comunque se ci pensi Gaia è davvero tornata a Genova da pochissimo, quindi non vedo motivo di credere che non volesse dirci qualcosa, ha solo aspettato il momento giusto. Probabilmente il problema è davvero nostro, nella nostra idea che lei sia ancora piccola quando invece tra poco compirà sedici anni. Siamo proprio come suo padre, Simo!- Aveva riso il ragazzo prima di sdraiarsi anche lui a prendere il sole.
Avevano svegliato poi l'amica appena prima dell'una ed erano andati a mangiare qualcosa al bar della spiaggia, dove si stava freschi e il gestore, loro amico, gli permetteva di passare le ore più calde sotto la veranda anche se il pranzo era finito da un pezzo.
Avevano giocato a carte fino alle due e mezza passate, con Gaia che faceva il possibile per stare verso il sole e asciugarsi completamente prima di andare a prendere l'autobus per casa.
E fortunatamente ci era riuscita, eccezione fatta per i lunghi e folti capelli.
I capelli di Gaia erano neri, scurissimi, tipicamente mediterranei.
Sua madre era nata in Sicilia e a Genova c'era arrivata per motivi che neanche più ricordava appena dopo la fine della guerra, senza la certezza né il desiderio di restarci per sempre.
Ma poi, per caso, un giorno aveva incontrato un giovanotto che studiava per diventare magistrato e ne era rimasta affascinata, tanto da dimenticarsi anche i limoni e le arance di Sicilia che tutti i giorni le mancavano.
Si erano sposati ed era arrivato Antonello, il primo figlio, poi le due bambine e alla fine la sua patria non era rimasto che un posto dove andare in vacanza per rifugiarsi nei ricordi.
Non sarebbe mai riuscita a vivere nuovamente in un paese piccolo come quello in cui era cresciuta, ma alla fine le andava bene così. Si era innamorata di Genova, di Alfio, dei suoi figli. Stava bene lì.
Solo i capelli nerissimi di Gaia, quei capelli che in quel pomeriggio di settembre tardavano ad asciugarsi, ogni tanto le mettevano un po' di nostalgia, forse perché la ragazza più piccola era l'unica ad avere quei marcati lineamenti del sud che spesso a Beatrice mancava vedere per strada nei volti di tutti.
- Il prossimo anno potresti farti un taglio tattico corto come il nostro prima dell'estate, così non avrai problemi per far asciugare i capelli al mare.- L'aveva presa in giro Simone mentre l'accompagnavano a Piazza Crispi.
- Sai tornare a casa da sola, vero? O hai bisogno che ti conti le fermate?- Era stato il sarcastico commento dell'altro amico.
La ragazza aveva sbuffato e aveva preso il libro che teneva nella borsa del mare per iniziare a leggere e far capire agli altri che le loro simpaticissime battute non la toccavano minimamente.
Si salutarono rapidi quando arrivò l'autobus, e lei li vide avviarsi di nuovo verso il mare come molto le sarebbe piaciuto fare ancora.
Ma pazienza, si trattava solo di un pomeriggio, anche se uno degli ultimi di vacanza.
Scese alla fermata giusta senza bisogno di contarle e si avviò calma verso casa sua, con il libro sotto il braccio perché l'aveva letto durante l'intero viaggio.
Aprì con uno scatto rapido la serratura dell'appartamento e fece la cosa più naturale del mondo.
- Papà?- Iniziò a chiamare.
- Papà sei già arrivato? Mamma? Patrizia? C'è qualcuno in casa?-
Niente, la casa era immersa nel più assoluto silenzio.
Si stupì di quella situazione alquanto irreale e cominciò a temere.
Provò a distrarsi andando a stendere l'asciugamano e le altre cose utilizzate quel giorno al mare ma non appena entrata in bagno il silenzio fu interrotto da uno squillo del telefono.
Corse a rispondere subito e con sua grande sorpresa non trovò nessuno dall'altra parte del filo.
Lasciò perdere e tornò al suo lavoro quando ecco che un alto squillo la disturbò.
E di nuovo nessuno rispose.
La paura tornò a farsi forte.
Pochi attimi dopo la fine della seconda telefonata sentì la porta aprirsi di scatto.
Sperò con tutto il suo cuore di figlia che fosse il padre che stava rientrando come avevano programmato, ma davanti a lei si parò il fratello maggiore con una faccia che non prometteva buone notizie.
- Gaia...! sei qui per fortuna. Vieni, dobbiamo andare. Non... non fare domande...-
La ragazza non capì assolutamente nulla di ciò che stava accadendo ma fece ciò che le disse Antonello e uscì di casa, seguendolo in macchina e non chiedendogli nulla, forse anche troppo spaventata per parlare.
Il viaggio in automobile fu assurdo, silenzioso come la casa che avevano appena lasciato, strano, pesante.
Il fratello guidò come un matto, in un modo totalmente imprudente, facendo una strada che lei non comprese fino a che non riconobbe davanti a lei l'ospedale San Martino.
Scesero dal veicolo e lui la fermò guardandola negli occhi facendole capire che il momento della verità era arrivato.
- Gaia ascoltami... cerca di ascoltarmi bene perché non è per niente facile...-
- Cosa succede Anto? Perché siamo qui? Perché papà non mi è venuto a prendere a casa?-
- Papà... Gaia oggi quando papà è uscito dalla procura è successo un fatto che...- Si fermò, incapace di continuare.
Ma lei aveva capito subito, appena Antonello aveva fatto riferimento alla procura.
Perché sapeva cosa succedeva, Gaia, anche se a casa non si vedeva il telegiornale.
- Hanno sparato a papà, è vero?-
Aveva parlato in lacrime e poi aveva abbracciato suo fratello, sapendo benissimo di aver detto le uniche parole che a lui, tanto grande e forte, non sarebbero mai uscite.
Lo prese per mano e si fece condurre da lui lungo i corridoi dell'ospedale.
Le aveva detto che lo stavano operando e mentre seguiva il fratello Gaia provò a fare il possibile per imparare a memoria la strada, cercando di convincersi che le sarebbe servita per andare a trovare il padre quando, una volta salvato durante l'intervento, sarebbe rimasto qualche giorno in ospedale.
Ma quel pensiero era per lei troppo felice, in quel momento, e le facce spaventate e tristi della madre e della sorella davanti alla sala operatoria le fecero capire che di felice quel giorno c'era ben poco.
Cercò rifugio tra le braccia di Beatrice, senza dire una parola, senza cercare di dare o ricevere conforto.
Aspettarono a lungo.
Poi un medico uscì con un volto funebre e ogni pensiero positivo finì in quel momento.
Lo straziante urlo della madre e della figlia più grande spiegarono anche a chi non sapeva nulla cosa fosse appena accaduto, mentre Antonello tentava di rimanere lucido e fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Gaia, invece, era rimasta in piedi davanti alla seggiola su cui era stata seduta fino all'uscita del chirurgo.
In piedi, ferma, immobile, con gli occhi bagnati ma incapaci di piangere.

Senza emozioni, senza voce per urlare o disperarsi.
Ferma come il cuore di suo padre, come la vita che aveva vissuto fino a quel giorno.
Ferma alle quattro di un pomeriggio di settembre, il O7/O9/79, una data che faceva sorridere, fino a quella mattina.
Una bella mattina di sole, a Genova.

****


Simone e Giorgio avevano lasciato la spiaggia alle quattro e mezza, ignari di quanto fosse accaduto nel frattempo.
Avevano deciso di andare a casa del secondo e poi decidere se fare qualcosa in serata o stare calmi senza uscire.
Anche loro, come Gaia, per tornare a casa avevano preso un autobus a piazza Crispi e fatto un pezzo a piedi, una salita di quelle di cui Genova era piena.
Appena prima di arrivare a casa di Giorgio, mentre ancora ridevano e scherzavano per i fatti loro senza poter neanche immaginare cosa fosse accaduto, riconobbero davanti al portone della casa due figure di donna che, avvicinandosi, riuscirono a distinguere per bene. Erano le loro madri.
Non si capacitarono di quella visione, perché la madre di Simone di solito a quell'ora era a casa e quella di Giorgio doveva essere a lavoro.

Senza neanche parlarsi iniziarono a correre verso di loro, come se entrambi avessero compreso che se erano lì doveva essere accaduto qualcosa di serio.
- Mamma, signora... cosa ci fate qui?- Chiese Giorgio appena fu davanti alle donne.
- Finalmente siete arrivati! Venite, presto, saliamo!- Aveva risposto solamente la padrona di casa, aumentando l'ansia di chi le si trovava intorno.
Appena saliti chiese al figlio di fare una caraffa d'acqua e si misero tutti in cucina a sedere in silenzio al tavolo dove Giorgio e la sua famiglia erano soliti pranzare e cenare.
- Mamma volete dirci cosa c'è? È successo qualcosa a papà?-
- Non al tuo, Giorgio.-
Un brivido scosse la schiena di Simone, che con gli occhi tristi si rivolese alla madre. - Al mio? È successo qualcosa a mio padre?- Ma anche lei fece con la test segno di no.
I due ragazzi non capirono, si guardarono stupiti cercando di comprendere al padre di
chi potesse essere accaduto qualcosa di tanto grave da dover essere avvisati da entrambe le donne nell'aria così triste che aleggiava in quella cucina scaldata dal sole che, incurante di qualsiasi avvenimento, continuava a entrare dalla porta-finestra aperta che dava sul balcone.
Non riuscivano a visualizzare nessuno, in quel momento. Compagni di classe, amici comuni, non c'era nessuno che gli veniva in mente.
Poi, insieme, inaspettatamente, ebbero un'idea e i loro occhi la comunicarono ben prima delle loro voci.
- Si tratta del papà di Gaia? È successo qualcosa ad Alfio? Hanno avuto un incidente in macchina? Dovevano vedersi a casa e poi...- Giorgio finì di parlare e iniziò ad ansimare come se fosse appena stato troppo in apnea.
La madre di Simone scoppiò in lacrime e il figlio andò da lei, mentre l'altra, che era un'operaia e oltre che le ossa si era fatto forte anche l'animo, deglutì e raccontò. - Gaia e suo padre non si sono mai visti a casa, figlio mio. Hanno sparato al signor Alfio questo pomeriggio appena è uscito dalla procura.-
I singhiozzi della madre di Simone si fecero più forti, e un urlò uscì dalle bocche dei ragazzi che provarono ad articolare quello che pareva un no.
Simone fu il primo a calmarsi, chiedendo senza ottenere risposta come stesse l'uomo.
Ancora increduli tutti quanti tentarono di calmarsi in qualche modo, di trovare le risposte a tutte le domande che gli venivano in testa in quei momenti.
Giorgio aveva guardato di nuovo la madre. - Ma si sa chi è stato?-
– Quelli che sparano in strada, Giò. Quelli che sparano in strada.-
La risposta era chiara, si parlava di terroristi, forse gli unici che potevano desiderare morta una persona come Alfio Olivietti, pubblico ministero di Genova e padre amorevole di tre figli ormai grandi ma che ancora avevano bisogno di lui.
Silenzio. Solo silenzio.
L'unico rumore che si sentì per parecchio tempo fu lo scrosciare dell'acqua dal rubinetto perché dovettero riempire la caraffa più di una volta, assetati per via del caldo e dell'agitazione.
Il pensiero dei due ragazzi era fisso sull'amica, sul suo volto sorridente mentre li salutava dall'autobus, sullo sguardo pieno d'amore che aveva avuto quella mattinata mentre parlava di suo padre, sul bacio rapido che aveva lasciato sulla guancia dell'uomo quando si erano salutati forse per l'ultima volta.
Simone provò qualcosa di strano nel pensare che, probabilmente, loro e Gaia erano state le ultime persone care al magistrato che lui aveva visto.
Il padre di Giorgio rientrò in casa ben prima del solito, non erano ancora le sei.
In mano teneva il suo cappello e i suoi occhi erano piccoli, rossastri.
- Il procuratore Olivietti non è sopravvissuto.- Disse semplicemente.
E aveva scelto di proposito quella dicitura così formale, quasi da quotidiano, per tentare il possibile di staccarsi dall'idea che fosse morto un uomo con cui aveva condiviso giornate in spiaggia, che aveva pagato il gelato a suo figlio, che l'aveva aiutato nei momenti in cui si erano trovati in difficoltà economiche e non sole.
Il silenzio fu rotto dal pianto, in quella cucina di Genova, lo stesso che si stava consumando a casa di Gaia, quel giorno in cui alle sette e mezza non sarebbe rientrato nessuno.
Perché, proprio come da Giorgio, quel giorno di lavoro, quel venerdì di inizio settembre, erano già tutti a casa molto prima del solito.
Anche se le sedie occupate nella cucina degli Olivietti erano ormai solo quattro.


****


Al funerale non aveva parlato solo la famiglia, in un giorno ancora caldo nella piazza centrale del loro quartiere.
Dovevano iniziare le scuole, quella mattina, ma il sindaco aveva rimandato l'apertura e proclamato il lutto cittadino.
La vedova era stata accompagnata per braccio dai due figli più grandi, quelli che per primi avevano fatto un discorso davanti a tutti per ricordare il padre, senza fare accenno neanche una volta a chi aveva compiuto quel gesto terribile.
Ne avevano parlato altri, di quell'ennesimo omicidio, e non solo durante la cerimonia di addio ad Alfio Olivietti, ma non era importante.
Non lo era e non lo sarebbe stato neanche se un giorno si fossero trovati gli assassini, perché tanto neanche quello avrebbe ridato l'uomo alla famiglia.
Così pensava Gaia, che da tre giorni prima non aveva più detto nulla.

Né alla famiglia, né con gli amici, Gaia non aveva proferito parola neanche una volta.
Si era rintanata in camera sua e aveva pianto, tanto, ma in silenzio, di notte, impedendo a tutti di vederla in lacrime.
E non piangeva neanche mentre il prete pronunciava le parole che la Chiesa Cattolica aveva deciso, chissà quanti secoli prima, fossero quelle giuste per accompagnare qualcuno nel suo ultimo viaggio.
La sua vita si era come fermata nel terribile momento in cui in ospedale aveva capito il padre fosse morto.
Tra le urla di sua madre e sua sorella lei era rimasta muta, immobile, come impassibile.
Forse – pensavano alcuni – si era trattato di una forma di shock, ma lei che lo viveva in prima persona sapeva che era altro.
Giorgio, Simone, Luisa e tutti i suoi amici erano passati da lei, l'avevano abbracciata, le avevano detto parole di conforto e di circostanza a cui però non era riuscita a rispondere.
Non comprendeva neanche se a non uscirle fossero le parole o proprio la vita, ma fatto stava che da tre giorni non si sentiva in casa la sua voce.
Di Patrizia, invece, si era sentita ogni emozione; dolore, rabbia, incapacità di rassegnazione.

Piangeva, urlava, si disperava.
Cercava di stare fuori di casa il più possibile per provare a distrarre i pensieri, andava sul lungomare e scavava nella sua memoria alla ricerca di qualcosa di bello, ma in quei momenti non riusciva neanche a ricordare la voce di suo padre.
Si era pentita terribilmente di non essersi svegliata prima quel giorno, di non averlo salutato. Si domandava se almeno la loro buonanotte la sera prima fosse stata degna di un addio, ma neanche quello le veniva in mente con certezza.
Erano passati lenti, quei tre giorni, lenti come mai era accaduto nella loro vita.

Antonello era stato il primo a provar a continuare la sua vita, ad alzarsi il sabato mattina con la consapevolezza di essere diventato orfano ma anche con la voglia di non deludere quel padre che per ventiquattro anni gli aveva insegnato l'importanza di vivere ogni attimo.

Sarebbe tornato a lavorare il giorno dopo, facendosi cambiare gli orari e provando a rincasare prima per non illudere nessuno nel far girare la chiave nella toppa alle sette e mezza, ma sarebbe tornato subito a lavorare.
Perché era diventato l'uomo di casa, lui, e doveva proteggere le tre donne, tutto ciò che di quella famiglia felice era rimasto, da ogni male.
Non poteva però difenderle da loro stesse, dalle lacrime e dal dolore che provavano, ma di certo difenderle dalla fame, dalla sensazione di non poter più avere una vita normale era un primo passo.
Dopo la cerimonia, vissuta in maniera così pubblica, la famiglia sola, come da sua richiesta, accompagnò il feretro dell'uomo verso la sepoltura nello stesso cimitero in cui già riposavano i suoi genitori.
Fu davanti alla lapide che Gaia pianse per la prima volta senza essere sola. Davanti al nome di suo padre, a quel cognome che era e sarebbe rimasto per tutta la vita il suo, davanti alla data di nascita, quella di quei compleanni che non avrebbero mai più festeggiato, e alla data di morte, quel giorno che avrebbe odiato per tutta la sua vita.
Beatrice non ci pensò due volte e abbracciò sua figlia, tenendosi il suo volto stretto al petto come quando era una neonata e stava tutta tra le sue braccia.
Istintivamente, in quel momento, Antonello sentì il bisogno di fare come sua madre e strinse a sé Patrizia, come se dovesse per forza proteggere qualcuno pur di mostrarsi forte.
La figlia più piccola si staccò dalla donna dopo un numero di minuti imprecisati, e continuando a non dire nulla appoggiò una mano sulla piccola foto che ritraeva suo padre.
L'accarezzò dolcemente, ripercorrendo col dito i lineamenti che conosceva a memoria, notando solo in quell'attimo come davvero loro tre figli avessero preso dal suo volto qualcosa; Antonello gli occhi, Patrizia la fronte alta che si divertiva sempre a definire simbolo di intelligenza e lei le labbra piccole e tutt'altro che carnose.
Fu proprio nello sfiorare la piccola bocca del padre, quella da cui aveva tante volte ascoltato parole gentili e d'amore, che parlò per la prima volta, muovendo la sua nello stesso modo dell'uomo.
- Papà...- Sussurrò leggera.
Chissà quando di nuovo avrebbe avuto la forza di dire quella parola.


****



- Domani torno a scuola. - Aveva detto la ragazzina a cena due sere dopo il funerale.
- Sei sicura? Forse è presto...- Le aveva risposto la madre, convinta che Gaia avesse ancora bisogno di riprendersi.
- A parte che se mi vedesse lui mi ucciderebbe penso di aver bisogno di tornare ad una vita normale, stare a casa è anche peggio.-
Lo chiama Lui.
Da quando accarezzando la sua lapide l'aveva chiamato l'ultima volta papà non era stata più in grado di ripetere quelle quattro lettere.
Era capace di dire “mio padre”, ma la parola papà era divenuta un tabù, un simbolo di qualcosa che non sarebbe tornato mai, come la felicità.
Ma forse riprendere una vita normale era d'obbligo, in quel momento.
Come Antonello che aveva ripreso a lavorare già il giorno prima, cercando di impiegare tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sentimenti in quello che doveva fare, decidendo che starsene fermo con le mani in mano non aveva senso.
Beatrice aveva ripulito due volte la casa, da quando era rimasta vedova, tentando di dimenticare che in ogni angolo dell'appartamento viveva un ricordo di Alfio che non avrebbe mai più vissuto.
Si impegnava al meglio per non apparecchiare per cinque, per imparare che erano quattro e quattro sarebbero rimasti per sempre.
In quegli anni aveva fatto la casalinga, la madre e la moglie, ma quando i bambini erano diventati ragazzi aveva cominciato a dare una mano alle persone del suo quartiere, senza mai chiedere nulla in cambio.
Eppure spesso, nella buca delle lettere, trovavano buste indirizzate a lei senza indirizzo né francobollo, firmate con nomi o iniziali e contenenti poche lire a ringraziamento di questo o quel servizio.
Fino a una settimana prima quei soldi erano un pensiero gentile ma non troppo necessario, perché con lo stipendio del marito andavano avanti bene.
In quel momento, invece, Beatrice realizzò che avrebbe avuto bisogno di uno stipendio fisso per andare avanti, per far studiare i suoi figli, per donare loro una vita normale.
L'avrebbe fatto, appena possibile, appena il suo pensiero principale non fosse stato il loro animo avrebbe fatto qualcosa per tutto il resto.
Patrizia era l'unica a non parlare del futuro, in quella casa.
Aveva pianto a lungo e ancora lo faceva, non riusciva a capacitarsi dell'accaduto e non voleva riprendere una vita che, a suo dire, non sarebbe mai più stata normale.
Quando sua sorella aveva annunciato il ritorno a scuola era rimasta basita, perché non si aspettava che Gaia, la figlia più piccola, l'amore del padre, trovasse subito quella forza.
Ma forse la piccola era così obbligata a essere forte, in quei giorni, da quel momento in poi, che dentro di sé quella forza aveva dovuto trovarla o almeno inventarla.
Ne avevano parlato quella sera, prima di dormire, e Patrizia aveva dichiarato apertamente che sperava gli assassini di suo padre facessero la stessa fine, che prima o poi qualcuno li ammazzasse come fossero animali, perché per quelle maledette belve, pazzi furiosi convinti che un magistrato potesse essere colpevole di chissà cosa, non si meritavano neanche la galera, istituzione troppo umana per certa gente che umana non era.
Gaia aveva sussurrato un sì e poi le aveva dato la buonanotte.
Anche lei non capiva sua sorella, non capiva come fosse capace di odiare.
L'odio era un sentimento, c'era bisogno di pensiero per produrlo, e lei non era capace, in quel giorni, di pensare.
Le aveva telefonato più volte Andrea, in quei giorni assurdi, e pur parlando
Sentiva un vuoto dentro, sentiva un dolore, ma se in quel momento le avessero messo davanti l'uomo, o gli uomini, che un giorno avevano deciso di distruggere la vita della sua famiglia, forse senza neanche poterlo immaginare, era sicura che sarebbe rimasta ferma immobile davanti a loro. In fondo ucciderli sarebbe stato abbassarsi ai loro livelli, e poi spesso, parlando col padre, aveva sentito da lui dire che fulcro della democrazia moderna era aver superato la pena di morte, aver capito che non è legittimando lo stato ad uccidere che si risolvevano i problemi legati alla criminalità.
E anche quando in quegli anni, ogni tanto, Gaia riusciva a strappare ad Alfio qualche commento sul terrorismo che riempiva le strade e i cimiteri del paese si sentiva ripete che bisognava agire su due fronti, punendo i criminali e impedendo che i giovani, perché quello pareva un fatto tutto giovanile, pensassero che sparare, uccidere, rapire, ferire fosse il modo giusto per cambiare le cose. - Ma non lo si deve fare condannando a morte. - Diceva sempre il pubblico ministero Olivietti a sua figlia e ai suoi colleghi. - Lo Stato ha tante leggi giuste e umane per fermare questo fenomeno, e quelle ci devono bastare.-
Probabilmente questi pensieri non erano mai arrivati alle orecchie di chi vicino alla procura di Genova, a metà giornata di quel venerdì d'inizio settembre, aveva svuotato una P38 addosso al padre di Gaia, rivendicando poi con un foglio di carta arrivato al quotidiano della città Ligure l'omicidio, parlando in modo assurdo di rivoluzione, comunismo, nemici del popolo.
Non era un gruppo armato molto conosciuto, quello che aveva privato la famiglia Olivietti del suo capo, tanto che la figlia più piccola si ricordava come si chiamassero solo quando leggeva i giornali, e, anche se provava a metterselo in testa perché comunque forse, un giorno, quando tutto quello sarebbe finito, avrebbe potuto dare un nome a quelle persone, non riusciva proprio a tenerselo a mente, conscia del fatto che la sigla non cambiava nulla, non era quello a modificare i fatti.



****



A scuola, in quel liceo classico che aveva visto studiare tutti e tre i fratelli Olivietti, le reazioni che Gaia si trovò a fronteggiare furono due opposte.
La prima era quella che si aspettava, la vicinanza dei compagni e degli amici, le condoglianze, le parole di conforto, gli sguardi affettuosi dei professori che la conoscevano dal ginnasio e la timidezza di quelli nuovi, che quando scorrendo il registro arrivavano al suo nome si fermavano un attimo prima di pronunciarlo, come spaventati dall'idea di farle del male.
Ma la reazione più fastidiosa, se così si poteva definire, era quella di chi nei corridoi la indicava e additava facendo riferimento all'accaduto, conoscendola come la figlia dell'uomo morto pochi giorni prima per mano di terroristi.
Lei soffriva quando lo notava, ma capiva bene come per molti ragazzi della sua scuola fosse quasi assurdo pensare che un evento tanto drammatico fosse capitato lì, così vicino a loro.

Perché per quante volte già Genova e i suoi abitanti fossero stati feriti da fatti del genere trovarsi a guardare in faccia tutti i giorni una ragazza che di punto in bianco era diventata orfana per quel motivo era strano, incomprensibile.
Gaia provava a non pensarci, però, ad andare avanti sicura di sé, a non avere più paura, a concentrarsi sulla scuola, uno dei campi in cui più aveva soddisfatto suo padre in tutti quegli anni.
Un giorno di metà settembre, un paio di settimane dopo l'omicidio, Antonello aveva sorpreso sua sorella a fissare la porta di vetro che dava sul balcone dove avevano cenato insieme l'ultima sera.
Era un pomeriggio di pioggia, aveva finito presto i pochi compiti e aveva deciso di smettere di distrarsi almeno per un attimo, di piangere e fare i pensieri tristi che le riempivano la testa e il cuore. Aveva deciso di sfogarsi, di fermarsi e mettere tutto in pausa.
Quando aveva finito un intero rotolo di carta scottex, usato per asciugarsi le lacrime e nascondere i singhiozzi, aveva deciso di calmarsi, di riprendere di nuovo la sua vita.
Aveva messo via l'album fotografico che aveva sfogliato fino a quel momento, mentre piangeva e ricordava ogni istante passato con suo padre. Per la prima volta, quel pomeriggio, era riuscita anche a ricordarsi degli ultimi giorni di vita di Alfio, della loro colazione insieme, del viaggio fino a Piazza Crispi e di quel loro ultimo saluto, di lui che guardava Giorgio e Simone dicendogli: “Trattatemela bene, è l'unica che ho ancora piccola”.

Quasi una raccomandazione detta da chi già sapeva, forse inconsciamente, cosa stava per accadere.
Finito di piangere era andata a buttare i fazzoletti ed era capitata davanti alla porta del balcone.
Ferma davanti al cielo che piangeva proprio come lei aveva ricordato anche la loro ultima cena, gli ultimi scherzi di suo padre, ed era stato in quel momento che aveva sentito la mano di Antonello sulla sua spalla.
L'aveva presa e stretta forte, respirando profondamente e poi gli aveva parlato.
- Avevi torto. Dicevi che morivano i genitori degli altri, che sparavano ai genitori degli altri, che nessuno avrebbe mai fatto del male a papà. Avevi torto e ora quasi ti odio perché volevi convincermi del contrario. Sei un bugiardo. - In lacrime si era girata e aveva iniziato a dargli pugni sul petto, come a voler far comprendere la sua rabbia verso quella menzogna.
Antonello le aveva fermato le mani e l'aveva guardata senza dire nulla, sapeva che prima o poi se la sarebbe presa con lui e con le sue parole.
Con le mani bloccate dal fratello la ragazzina aveva smesso di parlare per un attimo.
Poi lo aveva fissato negli occhi, quegli occhi uguali a quelli del padre e che in quel momento erano arrossati come i suoi. - Però su una cosa avevi ragione, sai? Continuare a pensarci era inutile, mi sono solo distrutta la vita prima, e preparata alla morte di papà non ci sono arrivata, forse non ci si arriva mai.-
Era scoppiata nuovamente in lacrime, ma aveva sentito qualcosa di strano dentro di sé quando era riuscita a dire di nuovo papà, come se suo padre in quel momento potesse essere davvero accanto a lei, ancora.


****



Trattatemela bene, è l'unica che ho ancora piccola”.
L'ultima frase detta da Alfio Olivietti a Quarto era rimasta ben in mente ai due amici di Gaia, che dal momento in cui avevano saputo della morte dell'uomo avevano fatto il possibile per starle vicino.
Erano andati da lei la mattina dopo l'omicidio, quando non parlava e non piangeva, e avevano passato la giornata nella sua stanza ad accarezzarla, a stringerle la mano e nel pomeriggio a vederla riposare.
Anche loro erano increduli, incapaci di accettare quello che era accaduto.
Quando Gaia aveva ripreso a parlare, ad uscire e ad andare a scuola loro assieme a lei avevano provato a riprendere una vita normale, ma nessun dei tre era più passato a Quarto, neanche per errore.
Un pomeriggio, dopo aver fatto un giro assieme, la ragazza aveva chiesto ai due amici di accompagnarla in procura. I due l'avevano guardata straniti, perché era stato proprio lì vicino che avevano sparato al magistrato, ma lei aveva detto che doveva fare una cosa e né Simone né Giorgio erano stati capaci di dissuaderla.
L'avevano lasciata alla fermata dove per tutta la vita era scesa per andare da suo padre ed erano tornati verso casa loro, proprio come lei gli aveva chiesto.

Non erano certi che sarebbe stata in grado di andar via di lì da sola però pazienza, dopo tutto non era stupida, Gaia, sapeva quello che faceva.
Mentre girava attorno il palazzo capì subito dove suo padre era caduto, perché sull'asfalto ancora si vedeva una chiazza scura che quel giorno era stata provocata dal suo sangue.
Rimase poco lì, troppo pesante era in quel posto il peso dei suoi fantasmi.
Fece attenzione entrando nella procura di Genova a non farsi vedere da nessuno, e ripercorse a memoria la strada che portava all'ufficio di suo padre.
Aveva sentito un paio di giorni prima che tutto era rimasto come l'ultimo giorno in cui lui vi era stato, e sentiva il bisogno di passare qualche attimo lì, di ricordare tra quelle mura proprio come aveva fatto a casa.
Aveva aperto e chiuso velocemente la porta dello studio e si era trovata immersa tra i libri e le carte di quello che fino a due settimane prima era stato un ottimo magistrato.
Poi si era avvicinata alla sua scrivania e lì vi aveva trovato varie foto di lui e della sua famiglia.
Tra queste, che conosceva bene, riconobbe una foto nuova, fatta al mare quell'estate, un mese prima dell'omicidio.
Loro cinque in spiaggia un giorno che Antonello era riuscito a raggiungerli.
Mentre la fissava lunghe lacrime iniziarono a scendere sulle sue guance, e non fece in tempo ad asciugarle che sentì la porta aprirsi di nuovo e alla sue spalle apparve il dottor Mariotti, un collega del padre.
- Gaia! Come... come hai fatto ad entrare?- Le domandò andandole incontro.
- Io... io ho fatto in modo di non farmi vedere e... scusi, lo so che non avrei dovuto ma volevo tornare qui ancora una volta, avevo sentito che fosse ancora tutto come prima...-
L'uomo la tranquillizzò dicendole che non c'erano problemi, che la capiva.
Vicino a lei aveva visto la foto che teneva in mano, e ancora piangendo Gaia gli aveva domandato come fosse possibile che solo un mese prima di quel sette settembre fossero tanto felici.
- Se quel giorno ci avessero detto che sarebbe accaduto tutto questo non ci avremmo mai creduto...- Aveva sospirato.
- Non ci avrebbe creduto nessuno.- Era stata la replica di Mariotti. - Tuo padre non era impegnato particolarmente in indagini che potessero far presagire un epilogo tanto tragico, qui in procura non ho ancora sentito qualcuno dire che potevamo aspettarcelo....-
Ma la ragazza aveva scosso la testa e detto che no, che in fondo dovevano saperlo che poteva accadere.
Aveva poggiato la fotografia sulla scrivania e si era avviata in silenzio verso l'uscita, salutando con un gesto del capo il dottor Mariotti.
Appena prima di attraversare la porta si era fermata e voltata. - Lo so che c'è il segreto su queste cose... Ma se un giorno scopriste chi è stato potrei saperlo prima da lei che dalla televisione?- Marotti le aveva fatto cenno di sì con la testa.
- Vuoi che ti riaccompagni a casa, Gaia?-
- No, grazie. Il bus è comodo, arrivo proprio sulla mia via. Ma forse lei lo sa già.-
Sorrise ripensando a tutte le volte che quell'uomo e suo padre avevano fatto la strada insieme per tornare a casa.
- Già... ascolta, sai bene che questo ufficio non rimarrà così per sempre... se te la senti potresti aiutarmi a svuotarlo, un giorno di questi...- Le aveva proposto.
Lei ci aveva pensato un attimo su e poi aveva annuito.
Ancora con un cenno del capo si era congedata dal dottor Mariotti ed era uscita per tornare a casa.
Nessuno le aveva domandato dove fosse stata, convinti che avesse passato il pomeriggio assieme ai due ragazzi.
In realtà aveva pianto a lungo in autobus, durante il viaggio di ritorno, ma poi appena prima di salire in casa si era sciacquata il viso ad una fontanella per apparire calma e tranquilla davanti agli occhi di chi amava.
Durante la cena, però, la calma apparente che provavano a recuperare si era rotta.
Patrizia aveva comunicato la decisione di iscriversi a Giurisprudenza per seguire le orme del padre, e Antonello le aveva inaspettatamente urlato addosso, dicendo che la sua scelta era emotiva e non razionale.
Erano volate urla forti che Gaia non comprendeva, perché da quando il padre era morta era quella la prima volta che i suoi cari si attaccavano in un modo tanto forte, soprattutto in un momento così particolare come la cena, quando l'assenza di Alfio si faceva più forte.
- Basta..- Aveva sussurrato la ragazzina mentre li sentiva urlare.
- Basta.- Aveva detto più forte.
- BASTA!- Era stato alla fine il suo di urlo, così violento che tutti avevano taciuto.
- Basta! Basta smettetela. Papà è morto da neanche un mese e già sembrate voler distruggere tutto quello che ci è rimasto! Patrizia è libera e papà sarebbe felice di vederla studiare Giurisprudenza. Dovete smetterla! Basta Antonello, tu non sei papà, non sei responsabile di noi! Basta! - Era corsa in camera sua e si era buttata sul suo letto piangendo, mentre quelli rimasti in cucina si guardavano increduli.
Tra le lacrime aveva fissato la foto del padre appesa sopra il suo letto, e mentre piangeva si era a suo modo arrabbiata anche con lui.
- Dove sei? Dove sei andato?! Avevi detto che ero piccola, lo avevi detto poche ore prima! E i piccoli hanno bisogno dei loro genitori, io ho bisogno di te!-
Aveva smesso di parlare quando i singhiozzi erano diventati troppo forti, si era sdraiata e aveva continuato a piangere, a tratti ad urlare, a far uscire tutto il suo dolore.
Il calendario in camera sua diceva che ottobre era iniziato, che di lì a pochi giorni la terra avrebbe compiuto il sedicesimo giro intorno al sole dal momento della sua nascita.
Ma lei di anni addosso se ne sentiva molti di più, come se nel momento in cui lui era morto fosse cresciuta ed invecchiata tutto insieme. Eppure non abbastanza da finir di vivere, da raggiungerlo.
Ma nessuno oltre a lei lo sapeva, perché per tutti Gaia Olivietti era nata il 10 ottobre 1963 e il 10 ottobre 1979, a trentatré giorni dalla morte di suo padre, avrebbe compiuto semplicemente sedici anni.
Si addormentò cercando disperatamente di immaginare la vita dei suoi genitori sedici anni prima, quando lei era ancora nascosta nel ventre di sua madre ma loro già l'amavano.
Perché l'amore sicuramente andava oltre la possibilità di vedere, toccare o parlare con qualcuno.
E allora, forse, da qualche parte suo padre ancora l'amava, e lei poteva continuare ad amarlo come prima.
Si nascose sotto le coperte, fingendosi invisibile proprio come invisibile era diventato il suo papà.
Doveva esserci, di notte, nei sogni, un posto in cui due invisibili potevano vedersi e stare assieme.
Almeno per quella notte, almeno per quel sogno.



Spazio ;Sun

Doveva essere una shot ma è troppo lunga, quindi sarà una mini-long di tre capitoli. I prossimi due arriveranno, spero, le prossime due domeniche.
Credo sia la cosa più angst che abbia mai scritto, ma la canzone di Cristiano de André, figlio di Fabrizio, mi ispirava tanto e soprattutto ultimamente sono successe cose poco belle, tali che, forse, avvertivo anche internamente il bisogno di scrivere questo racconto.
Niente, io spero davvero vi piaccia e mi diciate cosa ne pensate, so che è lunga ma io mi auguro valga la pena di leggerla.
Vi mando un grosso bacio e ci sentiamo domenica prossima.

;Sun <3

   
 
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