Premonizione e potere: l’avvento di Alec
Volturi.
Alec non si sarebbe mai
definito una persona ordinaria,
neanche prima del morso, prima di diventare un vampiro. Non era mai
stato un
bambino convenzionale, pur non avendo poteri di alcun genere,
c’era sempre
stato qualcosa nella sua mente che lo distingueva dai normali esseri
umani: era
spietato, impietoso e provava una certa soddisfazione nel veder altre
persone
soffrire, soprattutto coloro che davano fastidio a sua sorella Jane.
Non era
stato sempre così e, a distanza di secoli, riusciva ancora a
portare la memoria
al giorno in cui il mondo cambiò, la sua visione di esso
mutò, facendolo
divenire un cumulo di individui banali e inetti ai suoi occhi.
Era la notte del 15 aprile
dell’ 813, il cielo era buio e la
luna era coperta dalle nuvole, un temporale minacciava di imperversare
da un
momento all’altro e qualche tuono si era già fatto
sentire nel silenzio della
stanza che condivideva con Jane e altri otto ragazzi
nell’orfanatrofio di Salem;
aveva guardato Jane per qualche minuto, mentre dormiva beata al suo
fianco e
poi si era messo a fissare la finestra, aveva visto tre fulmini
scendere dalle
nubi nere prima di riuscire ad addormentarsi. Era stata un sonno
turbato,
strane figure l’avevano popolato, facendolo agitare sul
letto, fino a svegliare
la sorella, che non se n’era curata più di tanto,
pensando fosse un semplice
incubo. Così era stato per un po’, c’era
gente che gridava, correva e moriva,
era uno dei sogni ordinari di Alec, tra i più banali che gli
capitasse di fare;
poi la scena era cambiata. La visione delle immagini non era esterna,
lui
divenne il protagonista, il ragazzino che faceva gridare e accoltellava
delle
persone che non avevano volto, né voce vera e propria: era
più una litania
ripetitiva, quasi fastidiosa, che alimentava una furia cieca di cui non
comprendeva la causa. Poi comparve un uomo, aveva un volto familiare,
un
collega di suo padre forse, sì, il signor Gliscow o
Glascow… non ricordava
bene. Sua figlia era morta in un incidente qualche giorno prima, Alec e
Jane
avevano assistito al funerale per volere del padre. Quella persona lo
aveva
fissato lugubre per tutto il tempo, quasi fosse certo che al ragazzino
non
importasse nulla della figlia, il che era vero, non la conosceva
neppure… e
Alec non fingeva, non ne sentiva il bisogno, non provava pena per la
madre in
lacrime, né per il fratellino che non capiva
l’accaduto, né tantomeno per il
capofamiglia. Era indifferente: l’empatia non faceva parte
della sua persona.
E
ora
quell’uomo gli era davanti, la stessa espressione lugubre di quel
giorno, lo stesso
disprezzo negli occhi… c’era qualcosa in
più! Odio, forse… i suoi occhi
esprimevano odio, no… rabbia! Era infuriato e sembrava
esserlo nei suoi
confronti. Vide il suo volto girarsi e ne seguì la
traiettoria e la vide: la
figlia giaceva, accatasta sulle decine di corpi che aveva pugnalato e
dilaniato. Non si era neanche accorto che ne facesse parte, non era che
un
gioco per lui. Lo sguardo di quell’individuo tornò
su di lui e poi lo vide fare
un passo e un altro e un altro ancora. Alec indietreggiò
allo stesso ritmo del
suo aggressore, finché la sua schiena non sbatté
contro qualcosa in pietra. Si
girò, si aspettava di trovare un muro dietro di
sé, ma non fu così: vi era una
lapide.
L’incisione
scritta
narrava:
Janeth
Glascow
799-809
Figlia
amata, che rimarrà nel cuore dei suoi cari.
Assassino:
Alec Volturi
Aveva
sbarrato gli occhi incerto, chiedendosi perché fosse
accusato di un omicidio
che non aveva commesso e perché non c’era il suo
cognome sulla lapide, ma una
parola che non gli apparteneva.
Si
era
girato di scatto, sentendo una mano fredda toccarlo, ma non aveva avuto
il
tempo di dire nulla, i suoi sensi sembravano essersi annullati del
tutto e
mentre il mondo perdeva la consistenza e si sentiva perso, il signor
Glascow
rideva sguaiatamente, ma Alec non poteva sentirlo. La sua risata
sembrava più
l’eco di una creatura maligna che lo faceva sentire impotente
e inutile.
Si era svegliato,
trattenendo a stento un urlo e aveva
guardato Jane, l’aveva sfiorata. Toccare la pelle chiara
della gemella era
bastato a calmarlo.
Da quel giorno, non era
più stato un ragazzo normale: il suo
potere venne fuori, identico a quello del sogno, ma non era lui a
esserne
colpito. Quella notte aveva avuto una premonizione, anche se non se ne
poteva
rendere conto e con il nascere e l’accrescersi delle sue
capacità, erano venute
fuori anche quelle di Jane. I due gemelli erano talmente legati da
andare di
pari passo anche in questo, Alec non sapeva se anche Jane avesse avuto
un
incubo che l’aveva avvertita di tutto ciò e non
aveva mai posto domande per non
dover raccontare. Si fidava della gemella e forse solo di lei si
sarebbe fidato
in tutta la vita, ma non voleva ammettere di aver provato paura. Erano
sempre stati
soli, solo loro due, anche durante la condanna al rogo per stregoneria,
finché
non era arrivato Aro: lì tutto era mutato…
“Alec, che ci
fai qui?” Il filo dei suoi pensieri fu
interrotto da Felix che entrò nel suo campo visivo. Fece una
smorfia infastidita
e balzò giù dal muretto del terrazzo; il castello
di Volterra in cui vivevano
era grande, perché l’altro vampiro non poteva
scegliere un altro posto?
“Avresti una
risposta se te la porgessi io la domanda?”
Felix ghignò,
consapevole che fosse meglio non fare domande
inopportune. C’era sempre stato un tacito accordo fra loro: non m’irritare e tutti i pezzi del tuo
corpo
rimarranno al loro posto.
“È
strano vederti lontano da Jane.” disse solo, intendendo
molto di più con le sue parole. C’erano numerosi
significati nascosti e domande
non dette: hai qualcosa da nascondere? Non ti fidi come prima di lei?
Non siete
poi così legati?
Nessuna di queste domande
fu posta.
Alec non rispose.
“La battaglia
contro i Cullen ci aspetta, andiamo. Forse Aro metterà le
mani su Alice, stavolta.” aggiunse Felix, sogghignando.
“Non
è nulla di speciale.” Fu la risposta lapidaria di
Alec.