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Autore: LazySoul    12/05/2014    1 recensioni
Nella mente offuscata dall’alcool mi comparve un’immagine particolarmente piacevole di un caldo giorno estivo, le finestre aperte, le tende gonfiate dal vento fresco, luce ovunque e lei, la ragazzina, che con una salopette e i capelli legati passava un rullo sulla parete, imbiancandola. E lei rideva, spensierata, felice...
Lei. Daffodil.
Ancora faticavo a credere che si chiamasse davvero così. All'inizio avevo pensato ad un pessimo scherzo o che fosse semplicemente una ragazzina appassionata di Wordsworth...
[Storia partecipante a: Amore in salsa contest (multifandom e originali)]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Daffodil

Nickname sul forum e su EFP (se diversi, inseriteli entrambi): LazySoul 
Titolo: Daffodil
Pacchetto: Hummus
Fandom: Originale
Genere: Sentimentale, Romantico, Introspettivo

Note/Avvertimenti: Nessuno
Note dell’autore: Le parole e la citazione che fanno parte del pacchetto le ho sottolineate

 

 

 

Daffodil

 

 

I wandered lonely as a cloud

That floats on high o’er vales and hills,

When all at once I saw a crowd,

 A host, of golden daffodils

[…]

 

The Daffodils, William Wordsworth

 

 

C’era tensione nell’aria quella sera. Allo stesso modo in cui c’era stata i due giorni precedenti.

Me ne stavo mezzo sdraiato su quel divano quasi completamente distrutto dagli anni e continuavo a fissare con insistenza la porta della camera da letto a una decina di passi da me.

Il mio più grosso problema si trovava oltre quella soglia, ben avviluppato in una calda coperta e addormentato.

Strinsi con maggior forza la bottiglia di birra che tenevo in mano, muovendo il polso e facendo scontrare il liquido ambrato contro le pareti di vetro.

Il salotto era disseminato di oggetti, vestiti, giornali vecchi, una spazzola mezza nascosta da un pacchetto vuoto di patatine, sacchetti di plastica e carta, quaderni, libri e scarpe.

In poche parole, una vera discarica.

Eppure non mi infastidiva tutto quel disordine; lo trovavo familiare ed appagante.

Anche se lo stesso non si poteva dire del problema che dormiva in camera da letto, che ogni giorno sfidava le leggi della natura e della fisica, pur di riuscire a rimettere tutto a posto.

Mi portai la birra alle labbra, sentendone il sapore leggermente amarognolo.

La notte era ancora giovane, erano da poco passate le dieci e avrei potuto passare il resto della serata a bere e a guardare la televisione grossa come una scatola da scarpe, oppure sfruttare quel silenzio per riflettere sullo schifo che era la mia vita.

Ridacchiai, piano e in solitudine, pensando a quanto fosse assurdo vivere per poi crescere e morire. Sapevo che era l’alcol a farmi pensare certe cose, ma non potevo fare nulla per contrastare l’annebbiamento completo della mia mente, così lasciai che continuasse ad incastrarmi nei suoi discorsi privi di senso.

Quella notte si stava bene, anche se era Dicembre inoltrato, non faceva troppo freddo e il gelo degli spifferi era contrastato dai termosifoni accesi.

Indossavo un vecchio maglioncino fatto a mano da mia madre con sopra ricamata una renna col naso rosso. Non l’avrei mai indossata per uscire, ma in casa mi confortava il calore della lana, anche se il leggero pizzicare  del tessuto contro la pelle nuda mi irritava.

Pochi giorni e sarebbe arrivato il Natale, la neve, le vacanze, i regali e quella magia che avvolgeva ogni istante rendendolo speciale.

Non mi aveva mai entusiasmato come periodo dell’anno, forse perché avevo sempre sentito che mi mancava qualcosa durante quella festività, qualcosa che nulla e nessuno avrebbe potuto restituirmi: una famiglia unita.

Mia madre e mia sorella, Penelope, erano le uniche persone che mi avevano sempre amato senza chiedere nulla in cambio, ma per un ragazzo crescere senza la figura di un padre era davvero difficile. Forse lo era stato anche per loro, in tal caso erano state maledettamente brave a mascherare la loro irrequietezza...

Mamma era morta da cinque anni, e non passava giorno in cui non pensassi a lei, anche solo per pochi secondi. Quando ero ubriaco però le dedicavo interi minuti di pensieri, spesso privi di un vero senso logico. Era il mio modo personale per celebrare e ricordare la donna che mi aveva amato senza mai fare un passo falso, facendosi amare a sua volta.

Mia madre era l’unica donna a cui avessi permesso di spezzarmi il cuore, ma sapevo che come minimo un’altra donna avrebbe avuto lo stesso onore: mia sorella.

E forse, anche qualcun’altra...

Il mio sguardo si posò immediatamente sulla porta della mia camera da letto e sentii una strana sensazione allo stomaco.

Il mio più grosso problema; quella ragazzina che dormiva nel mio letto perché non aveva altro posto dove andare, mi avrebbe mai spezzato il cuore volontariamente?

Presi un’altra sorsata di birra e gettai la testa indietro, appoggiando la nuca contro lo schienale del divano.

Sul soffitto bianco sporco si diramavano sottili crepe color della pece che, partendo dagli angoli giungevano fino al piccolo lampadario al centro. Forse avrei dovuto riverniciare un giorno o l’altro.

Nella mente offuscata dall’alcol mi comparve un’immagine particolarmente piacevole di un caldo giorno estivo, le finestre aperte, le tende gonfiate dal vento fresco, luce ovunque e lei, la ragazzina, che con una salopette e i capelli legati passava un rullo sulla parete, imbiancandola. E lei rideva, spensierata, felice...

Lei. Daffodil.

Ancora faticavo a credere che si chiamasse davvero così. All’inizio avevo pensato ad un pessimo scherzo o che fosse semplicemente una ragazzina appassionata di Wordsworth.

E invece si chiamava davvero così, anche se ormai avevo preso l’abitudine di chiamarla Duffy, come l’ammazza vampiri che guardavo alla televisione anni fa.

Tornai a guardare la porta e ad immaginare la ragazzina, arrotolata tra le coperte, coi capelli scuri sparsi sul cuscino e le labbra socchiuse, come in attesa di un bacio.

Per quanto odiassi il suo carattere era successo l’impensabile; mi ero affezionato a lei.

Era stata Penelope a portarla da me, chiedendomi di ospitarla per un mesetto. Non mi aveva detto altro, mi aveva semplicemente rifilato quella mocciosa, parlando di problemi che doveva risolvere prima di venirla a riprendere.

Sapevo che mia sorella si era trovata un impiego come assistente sociale e non mi ci era voluto molto per fare due più due, anche se ancora non ero a conoscenza dei particolari, sapevo a grandi linee, e solo grazie a quelle poche parole che ero riuscito a carpire da Duffy, che aveva avuto problemi col padre affidatario e che per questo aveva chiesto aiuto a mia sorella, che l’aveva quindi portata da me mentre le cercava un’altra casa.

Non ero in una situazione economica abbastanza prosperosa per permettermi molte comodità, figuriamoci ospitare una ragazzina in casa per un mese, ma non avevo potuto fare altro che accettare.

Mia sorella era più grande di me di cinque anni e non mancava mai di sottolineare come lei fosse più matura e coscienziosa di me, come se la differenza di età le avesse conferito poteri sovrannaturali e non le doti tipiche della maggior parte delle trentenni.

E mentre lei aveva uno stipendio fisso e amava il suo lavoro, io mi ritrovavo ancora a girare hamburger nel McDonald a tre isolati da casa mia e a pulire i piatti da Carluccio’s durante i week end.

Bevvi un altro sorso di birra e misi i piedi sul tavolino basso davanti al divano, allungando il più possibile le gambe.

Non ero una pertica come alcuni miei amici, ma ero sempre andato fiero del mio metro e ottanta scarso.

La prima volta che avevo visto Duffy, mezza nascosta dietro mia sorella avevo subito pensato che  mi stessero prendendo in giro: quella ragazzina di diciassette anni appena compiuti da due mesi era troppo alta per la sua età. Io e lei eravamo infatti alti uguali, non un centimetro di meno, né uno di più.

Da quel momento in poi avevo cominciato a sentirmi basso e la sensazione non era affatto piacevole.

Per fare spazio ai miei piedi infagottati in un paio di calzettoni da trekking feci cadere un paio di libri scolastici di Daffodil e un taccuino di pelle che aveva dimenticato Penelope l’ultima volta che era venuta a trovarci, una settimana prima.

Ormai il tempo era scaduto, lo sapevo io, lo sapeva Duffy.

Era per questo che i rapporti tra noi si erano all’improvviso raffreddati e tesi.

Non che avessimo instaurato chissà che grande rapporto di amicizia, ma spesso l’avevo consolata se aveva avuto degli incubi, avevo asciugato le sue lacrime... e poi c’era quel piccolo, anzi microscopico bacio che ci eravamo dati due sere prima e che continuava a tormentarmi.

Insomma, avevamo otto anni di differenza e lei era troppo giovane per potermi piacere sul serio, eppure ero stato io ad iniziare quel bacio.

Ancora non mi capacitavo dell’accaduto.

Quella sera avevamo mangiato pesce e patatine, che avevo scoperto essere il suo piatto preferito subito dopo la pizza, poi avevamo deciso di guardare un film alla televisione. Io stavo preparando i popcorn e lei faceva zapping alla ricerca di qualcosa di decente da vedere, quando l’avevo sentita gridare.

Correndo da lei l’avevo trovata a fissare con gli occhi sbarrati la televisione, dove la cronaca stava trasmettendo un servizio a proposito di una donna trovata morta in casa sua, la reporter diceva che l’anziana signora era stata colta da un infarto e che non si trattava di omicidio, anche se all’inizio le forze dell’ordine l’avevano sospettato.

«Era la mia vicina di casa», disse piano Daffodil, portandosi una mano contro la bocca, forse per trattenere altre urla.

Calde lacrime le scorrevano sul viso e io, dopo avergliele asciugate e averla rassicurata mi ero ritrovato a baciarla.

Ripensandoci a mente lucida non avrei saputo dire cosa mi fosse preso in quel momento. Semplicemente mi ero ritrovato troppo vicino a quelle labbra imbronciate e particolarmente rosate a causa del pianto, gli occhi azzurri che spiccavano rispetto alle guance arrossate dalle lacrime e un desiderio folle di consolarla.

Era stato bello baciarla, con il sottofondo dei popcorn che cominciavano a scoppiettare nel microonde, la televisione che blaterava senza senso e le mie mani sul suo viso.

Aveva ricambiato il bacio e mi era parsa così padrona di se stessa durante quella breve effusione, che per un istante mi era sembrato di avere davanti una donna e non una ragazzina di diciassette anni.

Era stato bello abbracciarla guardando il film, imboccarla, stringerla contro di me e sentire ogni tanto le sue labbra contro le mie.

Era stato bello, facile e mi aveva riempito di calore.

Se esistesse davvero l’anima potrei dire che la mia e la sua quella sera si fossero finalmente conosciute e unite.

Peccato che, una volta sveglio mi ero reso conto di quanto tutto fosse stato sbagliato nei suoi confronti.

Duffy era solo una ragazzina e io dovevo ospitarla per un mese, non averci una breve avventura e illuderla che tra di noi ci potesse essere di più.

Il giorno dopo quel bacio avevo fatto di tutto per farmi odiare e allontanarla da me.

Continuavo tutt’ora a rendermi odioso nei suoi confronti, sapendo che avrei finito per spezzarle il cuore se le avessi lasciato la possibilità di affezionarsi ancora di più a me.

Ero pronto a farmi spezzare il cuore da Daffodil, ma non volevo che anche il suo restasse danneggiato.

Mi portai la birra alle labbra e feci una smorfia, notando come fosse ormai finita.

Appoggiai la bottiglia vuota sul tavolino basso e mi sdraiai sul divano, il mio giaciglio da un mese ormai, da quando Duffy si era presa il letto e la mia camera.

Trovai sotto il tavolino la coperta pesante che usavo di notte e me le misi addosso, facendo attenzione a coprirmi il più possibile.

Chiusi gli occhi, facendo qualche respiro regolare per addormentarmi il più possibile, quando sentii dei rumori.

Oltre la porta della camera sentivo Duffy che si muoveva nel sonno e mormorava qualcosa.

Stavo cercando di decidere se fosse il caso di andare a vedere se stesse bene, quando la sentii urlare e ogni dubbio venne spazzato via.

In pochi secondi ero già da lei e cercavo in ogni modo di svegliarla.

Piangeva nel sonno e implorava qualcuno di avere pietà, di lasciarla.

«No! Non mi toccare! No!»

La scossi con più forza: «Daffodil! Svegliati! Duffy!»

I suoi occhi azzurri, stanchi ed appannati dal pianto si fissarono nei miei.

Prima che potessimo rendercene conto eravamo abbracciati, dimentichi dell’odio che avevo cercato di alimentare in lei nei miei confronti.

Non avrei potuto lasciarla sola, non in un momento simile, così la strinsi ancora di più, facendole posare il viso contro il mio petto ed accarezzandole la schiena.

Indossava un pigiama lilla con sopra disegnati dei coni gelato e, per quanto la tenuta fosse infantile, la trovai davvero bella. Non era la prima volta che la vedevo in pigiama, ma non l’avevo mai abbracciata con addosso solo quello.

Sapevo che non indossava il reggiseno, ma sperai che almeno avesse le mutande, se no avrei rischiato di impazzire.

«Va tutto bene, Duffy. Ci sono qua io, non permetterò a nessuno di farti del male...»

Lei continuava a piangere e a stringere nelle mani il mio maglioncino di lana.

«Adam», sussurrò contro il mio petto, tra un singhiozzo e l’altro.

«Ssstt. Tranquilla, Duffy. Andrà tutto bene»

Era già successo che si svegliasse in lacrime, ma ogni volta non avevo avuto la possibilità di abbracciarla in quel modo. Solitamente era sempre sotto le coperte, una protezione che mi impediva di sentire come avrei voluto il suo corpo contro il mio, oppure era coperta da strati e strati di maglioni a causa del freddo...

In quel momento, anche se era alta come me e si mostrava sempre piena di coraggio e forza, mi sembrava proprio la diciassettenne che era.

«Non lasciare che accada di nuovo», mi sussurrò contro il maglione, prima di staccarsi e guardarmi dritto negli occhi.

Il suo viso era arrossato non solo per le lacrime, ma anche per l’essersi sfregato ripetutamente contro la lana che mi proteggeva dal freddo.

«Vuoi che ti prepari qualcosa?», le chiesi, sentendo chiaramente la fitta al petto nel vedere come i suoi occhi fossero arrossati e spaventati.

«Mi sento così...», fu scossa da un singhiozzo e si portò la mano alla bocca: «C-così sporca».

Guardandola negli occhi lessi più di quanto mi aspettassi e mi irrigidii di colpo, riuscendo finalmente a collocare in un loro piano logico tutte le stranezze di quella ragazzina.

Quel padre affidatario che avrebbe dovuto proteggerla a quanto pare aveva abusato di lei.

Scoprendolo capii quanto quella ragazzina fosse fragile e bisognosa d’affetto e, anche se dentro di me mi si scioglieva il cuore al pensiero di tenerla con me e di proteggerla dal resto del mondo, sapevo benissimo che non potevo.

Avrei finito per spezzarle il cuore, ma avrei preferito rimanere l’unico ferito da quella storia, piuttosto che trascinare nel dolore anche lei, che non se lo meritava affatto.

«Una doccia potrebbe...?»

«Sì, ti prego».

Non mi aveva neanche lasciato finire la frase e, incredibilmente, mi ritrovai a sorriderle, per rassicurarla almeno in parte.

La lasciai sola, correndo in bagno e aprendo l’acqua della doccia, aspettando che arrivasse quella calda.

Mi dispiaceva di non poterle offrire una grossa vasca da bagno dove potersi immergere, ma era meglio di niente.

Sentii se l’acqua era calda, scottandomi quasi per quanto lo era, prima di voltarmi e tornare da lei.

Ci incontrammo a metà strada: «La doccia è...»

«Non mi lasciare sola!», esclamò, impedendomi nuovamente di concludere la frase e stringendosi al mio corpo come se senza non potesse vivere.

«Mi dispiace, ma ora devi fare la doccia e...»

«Non andartene, ti prego, non andartene», la sua presa aumentò e mi spinse, quasi di forza fino al bagno.

La lasciai fare, convinto che si sarebbe presto resa conto di ciò che stava facendo e che mi avrebbe chiesto di uscire e di aspettarla in salotto.

Cosa che non accadde.

Si spogliò del pigiama guardandomi dritto in faccia e non ebbe neanche un attimo di esitazione. Sapevo che era orgogliosa e testarda, ma vederla in un momento così difficile sfoggiare tutto quel coraggio, mi fece sentire ancora più inutile e debole.

Fece scivolare lentamente a terra i pantaloni e potei dolorosamente constatare come sotto non portasse nulla.

«Lavami, per favore», la sua voce era così bassa, piena di dolore e di bisogno che non potei fare altro che assecondarla.

La trattai come se fosse stata mia sorella, Penelope, o la figlia che non avevo.

Anche se mi eccitava starle così vicino, anche se vederla così fiduciosa nei miei confronti mi faceva sentire emozioni mai provate prima, mi imposi di non fare lo stupido e di prendermi cura di lei senza sembrare un maniaco sessuale.

«Dormi con me», mormorò, appena finii di asciugarla e di rivestirla col pigiama lilla.

Mi imposi di non pensare a nessun doppio senso o doppio fine che si potesse nascondere dietro quelle parole così innocenti ed annuii.

La accompagnai fino alla camera, facendola sdraiare, prima di seguirla tra le coperte del letto da una piazza e mezza.

Rimanemmo a guardarci negli occhi nella penombra della stanza per qualche minuto, senza toccarci, prima che lei parlasse: «Ti va di abbracciarmi?»

Mi stavo innamorando di lei e di quel suo modo diretto e ingenuo di chiedermi ciò che sapeva l’avrebbe fatta sentire meglio.

«Certo», la avvolsi tra le mie braccia, facendole appoggiare il viso contro il mio petto.

«La prima volta avevo tredici anni», mi sussurrò contro il maglioncino, facendomi rabbrividire per ciò che le sue parole significavano: «Non sapevo perfettamente cosa stesse facendo. Mi fidavo di lui, pensavo che fosse qualcosa di... giusto. Ma faceva così male che, ingenuamente, pensai che fosse come quando mi rimproverare con qualche sberla: che avessi fatto qualcosa di sbagliato e che quindi mi stesse punendo per quello. In realtà il mio unico errore era essere femmina».

La strinsi maggiormente a me, sentendo l’odio che traspariva dal suo tono di voce e le baciai la fronte.

«Quando tua sorella, Penelope, veniva per i controlli l’anno scorso, facevo di tutto per rimanere sola con lei e poterle parlare, ma lui l’aveva capito. Mi metteva in castigo, puniva o picchiava regolarmente, soprattutto quando era ubriaco, ma a letto mi portava solo il venerdì sera, come se fosse stata una tradizione da rispettare. I week end li passavo a lavarmi in tutti i modi possibili, sfregando all’infinito la pelle, ma continuando comunque a sentirmi sporca. Un mese e mezzo fa ho visto Penelope nella libreria dove lavoravo part-time e non ci pensai due volte a dirle ciò che in realtà succedeva. Sono felice di essere qui con te, Adam».

Ci fu una breve pausa, poi la sentii ridacchiare, piano: «All’inizio pensavo che avresti preteso anche tu, i venerdì sera, di toccarmi. Ero terrorizzata, sai?», affondò maggiormente il viso contro il mio petto: «Ora invece mi chiedo se non mi piacerebbe esser toccata da te».

Non potevo credere a quello che stava succedendo.

Non potevo essere innamorato di quella ragazzina. Provavo già nei suoi confronti affetto e un forte istinto di protezione, ma non potevo lasciarmi coinvolgere oltre. Lei se ne sarebbe andata, presto, e io non volevo soffrire e farla soffrire.

Scostò il viso quel tanto che bastava per guardarmi dritto negli occhi e cominciò ad accarezzarmi la guancia: «Quando ci siamo baciati mi è piaciuto. Non pensavo che stare con un uomo in quel modo mi sarebbe mai potuto piacere... ma quella sera ho pensato seriamente di chiederti più di qualche effusione, per sapere come ci si sente ad essere... anche solo per finta, anche solo per una volta... amata».

Le sue parole mi scavarono una voragine nel petto.

Avrei voluto cercare quel bastardo che le aveva fatto tutto quel male e distruggerlo con le mie mani, picchiarlo a sangue e sparargli in testa.

«Dici che... per una notte, potremmo fingere di amarci? Ti dispiacerebbe?»

La sua domanda, così innocente e priva di malizia mi fece irrigidire: «Non penso che...»

«Non sto parlando del sesso», specificò con calma, sorridendo appena: «Non voglio complicare la situazione più di quanto non lo sia già».

Mi baciò piano sulle labbra, prima di ritrarsi, aggrottando appena le sopracciglia: «Vorrei solo essere una ragazza qualsiasi di diciassette anni che passa la notte con un ragazzo più grande. Voglio fingere di essere vergine e restia a concedermi, voglio... semplicemente baciarti per un po’, parlare, sentirmi vicina a te e farmi abbracciare. Pensi che sia possibile?»

Come avrei potuto anche solo pensare di dirle di no?

Era così bella, anche se continuava ad avere quello sguardo sconvolto, come se il sogno fosse ancora lì, a pochi passi da lei, nascosto sotto il letto e pronto a saltare fuori per farle ancora del male.

Le accarezzai il viso, sentendo la pelle delle guance appena screpolata dalle lacrime di poco prima: «Tutto quello che vuoi, Daffodil».

«Solo Duffy per te, Adam», sussurrò, baciandomi piano sulle labbra.

Fu difficile non ascoltare il mio corpo e spingerla a concedersi a me, ma ancora più difficile fu pensare a quanto una ragazza così bella e dolce avesse sofferto in vita sua.

La baciai a lungo, piano, in modo profondo e passionale. Allo stesso modo in cui ogni ragazza dovrebbe essere baciata per la prima volta.

Mi persi nei suoi occhi a lungo, la ascoltai mentre mi parlava della scuola e di un certo Gabe, che era dell’ultimo anno e che le era sempre piaciuto, anche se non era mai riuscita ad andare a dirglielo.

Possibile che fossi geloso del sorriso che le suscitò il pensiero di quel ragazzo?

«Una volta pensai seriamente di andare da lui per dirglielo, sai? Ma poi, immaginandomi la scena  mi sentivo sempre più in imbarazzo. E se lui avesse deciso di uscire con me? Se fosse diventato il mio ragazzo e dopo un po’ avrebbe voluto conoscere mio padre? E se avesse capito quanto sono sporca in realtà? Alla fine ho deciso di lasciar perdere, evitando di soffrire, ma continuo ad avere un po’ di rimpianti...»

«Non devi sentirti sporca, Duffy. Sei una delle persone migliori che abbia mai incontrato e non voglio che parli così di te stessa. Chiaro?»

Annuì, prima di baciarmi di nuovo e di stringersi maggiormente tra le mie braccia.

Restammo in silenzio a lungo, tanto che pensai si fosse addormentata, prima di sentirla irrigidirsi appena: «Adam? Tu non hai la ragazza, vero?»

Sorrisi appena del suo tono preoccupato, quasi si sentisse in colpa nei confronti di un'inesistente fidanzata per ciò che stava succedendo tra di noi.

«No, non ho la ragazza».

«Bene», mi sorrise, tornando a a stringersi a me.

«Buona notte, Adam, e... grazie di tutto».

«Buona notte, Duffy».

 

 

Quella mattina mi svegliai prima del solito, godendo per lunghissimi istanti della sensazione di un corpo femminile contro il mio.

Lo stesso corpo che la sera prima avevo lavato e coccolato a lungo, nella speranza di cancellare dalla sua mente il ricordo di altre mani.

Mi faceva male pensare a quello che Duffy aveva dovuto sopportare nella sua vita e sperai che Penelope stesse facendo di tutto per mettere in prigione quel bastardo che avevo osato provocarle tutto quel dolore.

Non si sarebbe mai più fidata ingenuamente di qualcuno, avrebbe impiegato il doppio tempo degli altri prima di instaurare un sincero rapporto di fiducia con un uomo e per sempre l’avrebbe perseguitata il ricordo di quello che era stata costretta a sopportare.

Passai una mano tra i suoi capelli, pettinandoglieli all’indietro, mentre sospiravo piano.

Avrei dato qualsiasi cosa per poterla tenere con me per sempre; in quel letto, abbracciati ed ignari del Mondo fuori dalla porta.

«Buongiorno» la sentii sussurrare con la voce impastata.

I suoi occhi azzurri, non più offuscati da lacrime o resi opachi da ricordi dolorosi, mi scrutarono a lungo, permettendomi di godere della vista del colore delle sue iridi, così simile a quello della mia macchinina preferita quando avevo cinque anni.

«Buongiorno», la salutai a mia volta, sorridendole.

Anche il suo viso si illuminò, provocandomi una fitta di dolore misto ad orgoglio allo stomaco.

Si sollevò a sedere per prima, lanciando un’occhiata alla sveglia sul comodino: «Lavori questo sabato?»

«Sì, solo di sera però».

Lei annuì distrattamente: «Giusto», sussurrò, prima di abbassare lo sguardo ed incontrare il mio: «Ti va di fare una passeggiata? Dopo pranzo magari...»

«Dove vorresti andare?», le chiesi, alzandomi a sedere a mia volta, così da poterla guardare in faccia senza problemi.

«Non lo so... magari in centro... mi piacciono le luci natalizie», ammise, prima di farmi l’occhiolino: «Le trovo molto romantiche».

Se prima ero rilassato e curioso, ora ero teso e sorpreso.

I primi giorni insieme li avevamo passati in silenzio, dopo una settimana avevamo cominciato a litigare come dei bambini per ogni cosa, dopo due eravamo tornati ad ignorarci pacificamente, dopo tre invece i litigi erano tornati, ma conditi da momenti pieni di comprensione reciproca e di accettazione. Ora, alla fine della quarta settimana, eravamo ad un passo dall’innamorarci l’uno dell’altra.

E non potevo permettere che ciò accedesse.

Se Penelope avesse scoperto che eravamo diventati così intimi mi avrebbe ucciso, anche se nelle nostre vene scorreva lo stesso sangue.

«Non sono sicuro che sia una buona idea», mi costrinsi a dire, imponendomi di non lasciar trapelare quanto io stesso avrei voluto passare una giornata romantica e allegra insieme a lei.

Quella luce spensierata che aveva in viso fino a pochi secondi prima era scomparsa, sostituita da un’espressione di delusione: «Perché?»

«Tra poco te ne dovrai andare e...»

«È questo il problema? Hai paura di affezionarti a me?»

La sua schiettezza, come ogni volta, mi lasciò senza parole ed affascinato.

«Non voglio farti del male», ammisi, guardandola dritto negli occhi, cercando di farle capire quanto fossi preoccupato per lei.

«Me ne stai facendo», mormorò, senza distogliere lo sguardo: «È per quello che ti ho raccontato? È per questo che... ? Oddio, sono stata così stupida! E pensare che credevo di piacerti almeno un po’! Mi sono bruciata ogni opportunità quando ti ho detto cosa mi è successo, vero? O forse non ne ho mai avute?»

Le presi il viso tra le mani, le sue parole continuavano a rimbombarmi dentro, accusandomi e ferendomi in modi che non pensavo possibili.

Non aveva affatto capito; io in realtà l’avrei tenuta lontana anche se il suo passato fosse stato roseo ed allegro. Quello che le era successo non aveva niente a che vedere con quello che stava nascendo tra noi due. Niente.

«Un giorno non molto lontano tu te ne dovrai andare a vivere con una nuova famiglia. Quando questo accadrà non voglio che tu sia triste di lasciarmi. Non voglio che ti ferisca l’idea di non vedermi più... capisci perché dobbiamo smetterla di alimentare questa... cosa che c’è tra noi?»

Speravo che non cominciasse a piangere, perché vedere le sue lacrime mi avrebbe solo fatto sentire un verme in colpa..

«Il pensiero di non vederti più già mi ferisce. È troppo tardi».

Le sue parole strapparono in modo netto e preciso tutte le mie convinzioni e i limiti che mi ero imposto di rispettare nei suoi confronti.

Chiusi gli occhi, nel vano tentativo di contenere la forte sensazione di vertigine che mi aveva colto all’improvviso, ma davanti a me, nel buio della mia mente vidi solo il corpo nudo di Duffy la sera prima quando, dopo essersi tolta il pigiama, mi aveva chiesto di lavarla.

Una bocca calda e morbida sfiorò appena la mia, aumentando la vertigine.

Due mani forti e sicure afferrarono il mio viso, fermando il giramento di testo continuo ed impedendomi di scostarmi come avrei voluto.

«Non ci provare», sussurrò, prima di tornare a baciarmi.

Aprii gli occhi, incontrando i suoi azzurri, fissi nei miei, mentre le nostre labbra continuavano a sfiorarsi piano.

«Cosa stiamo facendo?» le chiesi, sentendomi come una donnicciola che piagnucolava, ma non potendo fare altrimenti. Il pensiero che un giorno si pentisse di avermi baciato e detto quelle parole mi lacerava dall’interno.

Spinse maggiormente la bocca contro la mia, chiudendo per un attimo gli occhi, ma io m’imposi di non ricambiare il bacio, sperando che si accorgesse di quanto fosse tutto sbagliato.

Se Penelope avesse saputo che ci stavamo baciando in quel momento sarebbe entrata in casa mia come un tornado e mi avrebbe messo in castigo per il resto della mia vita.

Duffy aprì di nuovo gli occhi, incantandomi con l’azzurro delle sue iridi, pieno di supplica e di un bisogno che, sfortunatamente, non avrei potuto ignorare in quel momento.

«Ti prego. Baciami», mi disse contro le labbra, sporgendosi maggiormente verso di me, fino a quando i nostri corpi non entrarono in contatto, permettendomi di sentire la consistenza dei suoi seni contro di me.

A quel punto qualcosa scattò dentro di me, tanto che potei sentire chiaramente un ‘click’ nella mia mente e l’istante dopo le mie mani erano sul suo viso, mentre le mia labbra avevano cominciato a muoversi contro le sue.

«Così?», le chiesi, anche se la mia domanda era retorica, mentre con una mano afferravo il tessuto del suo pigiama e lo scostavo dalla spalla, in modo da poterle accarezzare la clavicola: «Vuoi che ti baci così?»

Affondai la lingua dentro la sua bocca, beandomi della sensazione delle sue dita affusolate che mi accarezzavano i capelli, spettinandomeli.

Rimanemmo a lungo a baciarci, alternando lunghi affondi profondi con piccoli sfioramenti a fior di labbra, fino a quando non sentii chiaramente il suo stomaco brontolare per la fame.

Mi scostai da lei ridendo, mentre le sistemavo alcune ciocche di capelli dietro le orecchie e la fissavo dritto negli occhi.

«Fame?»

«Tu che dici?», brontolò, distogliendo lo sguardo.

«Fai l’offesa?», le chiesi, mordendole piano l’orecchio, prima di soffiarle sul collo, vedendo comparire la pelle d’oca subito dopo.

Continuavo ad essere convinto che stessimo sbagliando e che avremmo finito col soffrire entrambi come non mai, dato che la distruzione di tutti i nostri sogni sembrava imminente.

Ma non ce la facevo più a fingere che lei fosse una ragazzina qualunque.

Lei era Daffodil: la mia Duffy e non ero disposto a lasciarla andare via.

Non in quel momento, almeno.

Senza nessun preavviso mi ritrovai le sue braccia intorno al collo e il suo sorriso ad un centimetro dal mio, mi sfiorò il naso col suo, prima di sussurrare: «Chi arriva per ultimo in cucina è un pollo!»

Meno di un istante dopo era già in piedi, lontana e pronta a correre via.

Il mio cervello, forse ancora addormentato, ci impiegò un paio di secondi prima di elaborare e, quando mi riscossi e la seguii a ruota, mi ritrovai in netto svantaggio.

Una volta in cucina, si voltò verso di me, ridendo: «Ciao, pollo».

La raggiunsi e non ci pesai due volte prima di cominciare a farle il solletico all’altezza della pancia.

Non mi ero mai divertito tanto con una ragazza che non fosse mia sorella ed ero pronto a scommettere che anche a lei non capitasse molto spesso di lasciarsi andare in quel modo con qualcuno.

«Basta!», strillò, tra una risata e un’altra, mentre si raggomitolava su se stessa e cercava di allontanarmi: «Adam! No!»

Le solleticai ancora un po’ il fianco destro, prima di baciarla a fior di labbra: «Cosa desidera per colazione?», chiesi, facendole un piccolo inchino ed un occhiolino.

I suoi occhi brillavano di una luce allegra che non avevo mai visto: «Wow, ho un pollo al mio servizio».

La minacciai, sporgendo la mano verso la sua pancia, di nuove torture imminenti, ma lei sollevò prontamente le mani: «Mi arrendo! Non ti chiamerò più “pollo”, contento?»

«Certo che sì», le spettinai i capelli, prima di aprire il frigo e di tirare fuori del latte.

Duffy intanto aveva tirato fuori due tazze e i cereali con scaglie al cioccolato fondente che tanto amava.

Per il resto della colazione continuammo a lanciarci lunghe occhiate ammiccanti o imbarazzanti sorrisi zuccherosi, tanto che un qualsiasi spettatore sarebbe facilmente rimasto con i denti tutti cariati da tutta quella dolcezza.

Eppure mi piaceva, mi faceva sentire così bene, pieno d’affetto e pronto a donarlo tutto a lei.

Il pensiero che, più presto di quanto entrambi avremmo voluto, sarebbe arrivata mia sorella a portarla via era stato momentaneamente scacciato dalla mia e dalla sua mente.

Potevamo passare la giornata a fingere che non avessimo nessun dei tanti problemi che avevamo, ma questo non voleva dire che ignorandoli sarebbero scomparsi da soli.

«Questo giro in centro lo vuoi fare, allora?»

Valse la pena dire quella frase per il modo in cui mi guardò dopo.

Non avrei mai pensato di poterlo dire, ma mi ero innamorato di lei e non c’era più nulla da fare.

 

 

«Quella fetta di torta ai lamponi era davvero la fine del mondo!», esclamò mentre posavamo sul tavolo della cucina le borse con gli acquisti, la maggior parte scorte di cibo per la domenica e la settimana a venire.

All’ora di pranzo eravamo andati in un piccolo ristorantino a mangiare e il dolce era stata la sua parte preferita, soprattutto perché si era divertita ad imboccarmi ed a sbagliare appositamente la mira per sporcarmi ovunque.

«Sì, anche se è ha potuto gustarla più il mio naso che la mia bocca», dissi con un finto tono stizzito, internamente felice che si fosse divertita tanto.

Dovevo presentarmi al lavoro nel giro di quindici minuti e, anche se stavo cercando in tutti i modi una scusa per restare con lei, sapevo che alla fine sarei andato, dato che le bollette non si pagavano da sole.

«Te la cavi da sola per la cena?», le chiesi, con tono triste.

Accidenti al mio secondo lavoro e alle migliaia di piatti che avrei dovuto lavare quella sera!

«Certo, non ti preoccupare», mi baciò a fior di labbra, scostandosi troppo presto e lasciandomi insoddisfatto.

Mi dissi che avrei dovuto aspettare fino al mattino dopo per avere un altro bacio, ma il pensiero mi uccideva, così non ci pensai oltre e afferrai nuovamente il suo viso, avvicinandolo al mio, fino a quando le sue labbra non incontrarono nuovamente le mie.

Sapeva vagamente di menta, grazie alla gomma da masticare che aveva preso dopo la veloce merenda fatta più di un’ora prima e la sua bocca era morbida e sicura come sempre, mentre prendeva le redini del bacio e mi spingeva verso il tavolo.

Invertii quasi subito le posizioni, imprigionandola contro il frigorifero, mentre le mie mani si facevano fin troppo audaci e si appoggiavano a coppa sui suoi seni, sentendone la consistenza soda e maledettamente eccitante.

Non lasciai la presa, massaggiandoli appena, prima di allontanarmi di qualche passo: «Devo andare».

Che cosa mi era preso? Perché non riuscivo a calmare il battito impazzito del mio cuore?

Cosa mi stava facendo quella ragazzina?

«Ti aspetto sveglia», sussurrò, allontanandosi dal frigo, mentre cominciava a svuotare le borse della spesa.

«Non è necessario», le dissi, anche se l’immagine di lei, sdraiata nel letto, sveglia e pronta a stringermi per tutta la notte mi sciolse il cuore.

«Ho voglia di aspettarti e lo farò», disse con tono autoritario, facendomi sorridere: «Sissignora».

Le feci il saluto militare, ottenendo come risposta un sacchetto di pop corn in testa.

Uscendo di casa ridevo come uno stupido e sentivo lei fare lo stesso dalla cucina.

 

 

Dopo aver passato tre ore a lavare piatti, pentole, posate, padelle, bicchieri e qualsiasi altro tipo di contenitore avevo ormai esaurito tutte le forze rimaste.

Rientrando in casa trovai tutto buio e un po’ ne rimasi deluso.

Speravo infatti di trovarmi Duffy in salotto, davanti alla televisione, col suo pigiama lilla con sopra disegnati coni gelato e quel suo stupendo sorriso stampato in faccia.

Sospirai piano, dirigendomi in camera da letto ed ignorando il brontolio dello stomaco che m’informava di essersi accorto di non aver mangiato cena.

Ma prima di dare retta ai miei bisogni fisiologici dovevo assicurarmi che Duffy fosse tranquilla, al sicuro nel mio letto.

Entrato in camera mi bloccai di colpo, rimanendo impietrito sul posto.

Il letto era vuoto e sfatto, proprio come l’avevamo lasciato quella mattina.

Aggrottai le sopracciglia e l’occhio mi cadde sul pavimento tra il termosifone e l’armadio, dove un tempo si trovava la valigia di Daffodil, ma che ora era vuoto.

Il cuore cominciò a battermi all’impazzata, prima che cominciassi a correre in ogni stanza alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che testimoniasse la sua attuale presenza nel mio appartamento.

Una volta in cucina il cuore perse un battito alla vista di un foglio bianco piegato a metà ed appiccicato con una calamita al frigorifero.

Quel pomeriggio ero certo che non ci fosse.

Lo afferrai, ignorando la calamita che, cadendo, era finita sotto il tavolo.

 

Adam,

ho trovato una famiglia per Daffodil, mi dispiace che tu non ci fossi quando sono venuta a prenderla. Lei era molto triste di non averti potuto salutare, così le ho permesso di scriverti una lettera: l’ha lasciata sul comodino in camera tua.

Grazie per esserti preso cura di lei.

Mi dispiace di non averti aspettato, ma la sua nuova casa non è proprio dietro l’angolo, quindi ci dobbiamo mettere in viaggio al più presto.

Ti chiamo al più presto per dirti com’è andata.

Un abbraccio,

Penelope

 

Lasciai cadere il foglio, rimanendo per secondi infiniti a fissare il frigorifero bianco davanti a me. Lo stesso frigorifero contro cui l’avevo baciata quel pomeriggio.

Il pensiero che lei mi avesse lasciato una lettera mi tormentava, mentre mi chiedevo se dovessi leggerla o meno, sapendo perfettamente che in qualsiasi caso avrei sofferto come un cane.

La sua nuova casa era lontana...

Come avrei fatto ad andare a trovarla? Come...

Strinsi forte le mani a pungo e mi diressi verso la camera da letto come un automa.

La lettera che mi aveva lasciato Duffy era caduta accanto al letto, era per questo che prima non l’avevo notata.

La raccolsi e mi sedetti sulle coperte, tenendola tra le mani qualche minuto, prima di aprirla e leggerla.

 

Caro Adam,

vorrei tanto ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me e per questa giornata perfetta che abbiamo trascorso insieme.

 

Smisi di leggere per un attimo, cercando di calmare il mio respiro corto e il mio cuore impazzito, prima di togliermi le scarpe e di sdraiarmi sul letto, venendo avvolto dal profumo vagamente floreale di Daffodil.

 

Tua sorella ha detto che la mia nuova famiglia è irlandese. Non sono mai stata in Irlanda e il pensiero di lasciare l’Inghilterra non mi rende particolarmente felice, ma so che non posso fare altrimenti.

Sono certa che ti starai insultando al pensiero di avermi fatto illudere inutilmente, ma non devi.

È stato bello quello che abbiamo condiviso e so che un giorno ci rincontreremo e potremmo finalmente amarci come ora non possiamo. Sì, io ti amo e so che per te è lo stesso, l’ho letto nei tuoi occhi ieri sera mentre mi lavavi via la sensazione di sporco che un tempo pensavo non mi avrebbe mai abbandonato ma che ora, grazie a te, mi sembra solo un brutto ricordo.

E se dovessimo essere tanto sfortunati da non vederci mai più, ricorderò questo mese come il periodo più bello della mia vita e la tua anima come la perfetta compagna della mia.

Perché anche la polvere del nostro amore è qualcosa, confrontata al nulla del mondo. (1)

Ti amo e ti amerò come non ho fai fatto in vita mia e non trascorrerà giorno in cui non penserò a te e alle tue calde mani sulla mia pelle.

Aspettami,

la tua Duffy

 

Alla fine era riuscita a spezzarmi il cuore pure lei.

Dovevo solo rimanere in attesa che tornasse a ricongiungerne le parti distrutte.

Sperando che quel momento arrivasse presto.

 

 

 

 

 

The end

(1) citazione di Sergio Quinzio

  
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