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Autore: Lawliet    14/05/2014    0 recensioni
La prima vita è credere in ciò che imparerai che non è così.
La seconda vita è senza radici.
La terza vita vuole essere una montagna volante.
La quarta vita è leggera leggera, che quasi non sai cos'è, e il suo nome non riesci nemmeno a pronunciarlo che in un soffio già sparisce.
Della quinta vita non capisci un tubo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A leaf is falling from home

Because he wants to be alone

Where he travels is unknown

Because his fall is yet unshown

His clinging brother does not roam

He only watches freedom's poem

 

 

 

La prima vita è credere in ciò che imparerai che non è così.

 

E’ un viale alberato a senso unico, di prati nel cielo dalle ombre dorate. Non vi sono tante persone, ma camminano piano, e sono alte, di un alto che non spaventa, ma protegge dalla pioggia.

E’ familiare, tanto che riconosci uno a uno le pietre del selciato. E’ tanto familiare che hai dato un nome a ogni grossa radice che spuntava dal terreno, e ti piaceva vederle e sapere che fossero lì, a trattenere tutto, a fermare la realtà.

Ti sei accorto della scomparsa di alcune radici quando ormai non disegnavi più da tempo il sole rotondo in alto a destra sul foglio, e hai girato a sinistra.

 

La seconda vita è senza radici.

 

Ti chiedi dove le abbiano portate, ti chiedi perché le abbiano portate via. Non ha senso, no? Un viale alberato senza radici, ma che idiozia.

Dove le avete messe?

Tiratele fuori.

Ormai il vento soffia, è il tramonto, fa freddo, vi prego.

Tiratele fuori.

Non vedo più la strada, voglio tornare a casa, ma ora non so dove andare.

Tiratele fuori.

Ridatemele, mi sono perso, ridatemele, sono mie.

 

La terza vita vuole essere una montagna volante.

 

Per non essere mangiata dal lupo, Cappuccetto Rosso dice di sapere la strada anche se non ha la minima idea di che sentiero debba prendere. Le sembrano tutti inghiottiti dal buio, alcuni pieni di spine, altri di nebbia; non vede bene cosa nascondano.

Ma le hanno detto che se non prende nessuna strada è peggio: il lupo è in agguato, avvertirà la sua paura e la mangerà. Cappuccetto Rosso deve prendere una decisione, ma sembra che ogni scelta abbia dei risvolti spaventosi.

 

Mangiata subito o dopo, Cappuccetto Rosso?

Se proprio si deve essere mangiati, bisogna correre. Fa stancare il lupo, e magari riuscirai a correre abbastanza a lungo da diventare vecchia, e allora il lupo morirà anche lui o tu diventerai troppo secca per essere mangiata.

Corri, Cappuccetto Rosso.

 

E allora corre, con lei, lui, chiunque perso nel bosco come lei che la voglia seguire. Altri hanno preso strade diverse; non fa niente: si rivedranno fuori dall’intrico di rami e ombre ingannevoli, o forse no – chi può dirlo? Forse anche il bosco mangia.

Cappuccetto Rosso esce dal bosco, ma dopo tanto tempo.

Intorno a lei non vede nessuno dei suoi vecchi compagni, limitandosi a scorgerne qualcuno in lontananza. Ha il cappuccio lacerato, sporco, scolorito, e lo sguardo a terra.

Dei passi si avvicinano, e quei passi hanno delle mani, e quelle mani hanno degli occhi. Quegli occhi hanno l’impressione di riconoscere Cappuccetto Rosso, e quelle mani si avvicinano per scostarle il cappuccio, ma una volta scostato il cappuccio, quei passi non risuoneranno più. Quelle mani ora giacciono riverse a terra, la terra che quei piedi non calpesteranno più.

Vicino alle scarpette graffiate e sciupate di Cappuccetto Rosso, un respiro si è fermato.

 

Cappuccetto Rosso non c’è più, per uscire dal bosco ho preso il suo posto.

Niente più oro riflesso negli occhi, niente più radici sul tuo liscio cammino, ora hai attraversato un bosco da sola, ora sei convinta di non averne bisogno.

C’era una volta Cappuccetto Rosso, viva felice e contenta Cappuccetto Rosso.

 

La quarta vita è leggera leggera, che quasi non sai cos’è, e il suo nome non riesci nemmeno a pronunciarlo che in un soffio già sparisce.

 

E’ di passaggio, vola via in un istante, quasi fosse spinta da un’urgenza a cui non riesci a dare origine né nome.

Sono esseri fantastici. Lo sono tutti, ognuno a modo loro, e tutti prima o poi ti lasciano. Ti prendono, scavano un solco da qualche parte – di solito preferiscono sistemarsi dietro le tue costole – e ci si installano. Dovresti pretendere l’affitto, da quanti ce ne sono, ma sei così contento di averli dentro di te. Movimentano un po’ tutto, capisci, perché gli organi in fin dei conti sono monotoni, rendono il corpo una casa utile e funzionale, ma non è che sia un capolavoro di interior design.

Come le radici, capita che i tuoi piccoli inquilini se ne vadano. Ma non è Michael Jackson che lo dice, e nemmeno la voce dei Ramones. Non è come lo cantano loro, non è un cuore di vetro gettato dal quarto piano e scoppiato a contatto con l’asfalto.

 

Per inciso, i cuori non sono di vetro come hai sempre creduto. Se si spezzano, sì, è impossibile ricomporli esattamente com’erano, perché qualche scheggia mancherà sempre – oh, magari qualche frammento è finito nel fegato, o un altro più intraprendente sarà addirittura arrivato nella caviglia – e c’è il caso che questa implosione ti soffochi per un po’. Tagliente, il vetro. Fastidioso quando si conficca in posti indesiderati.

Ma i cuori non sono di vetro, e non fanno dei frontali fatali.

Sono elastici.

Credimi.

Il male orrendo che sentivi alcune volte era solo lo schiocco di un elastico che si era teso troppo ed era tornato indietro. L’avrai fatto anche tu da bambino, no? Fa un po’ male, la frustata di un elastico teso sulla pelle. Però, a meno che non lo si torturi troppo, l’elastico resta lì. Martoriato, ovvio. Stanco di essere un gioco. Ma sopravvive e non si rompe.

 

E questo l’hai capito le prime volte che ti sei rialzato e dentro di te non sentivi il tintinnio disordinato di schegge di vetro.

E sono stati i piccoli esseri che ospitavi dentro di te a fartelo notare.

 

“Ma qui è tutto a posto.”

“Ne siete proprio sicuri?”

“Guarda, caro, sarà anche il tuo corpo, ma noi ci stiamo dentro e lo vediamo molto bene. E’ tutto ok, e non ti preoccupare, il tuo è un elastico bello resistente. Ci potremmo anche andare in altalena.”

 

Non si rompe, certo che no.

 

“Allora funziona tutto?”

“Certo, quante volte te lo dobbiamo dire?”

“Mi spiace, è che credevo-“

“Lo sappiamo cosa credevi. Possiamo restare qui a dargli un’occhiata, se vuoi. Possiamo restare per tutto il tempo che vuoi.”

“Non saprei. Magari prendetevi una vacanza. Sì, andate temporaneamente da qualche altra parte, che io qua dentro faccio pulizia. In fondo ci state da un sacco di tempo e non vi ho mai visto con un piumino per la polvere in mano.”

“Noi la polvere la mettiamo sotto il tappeto.”

“Eh. Appunto. Vedrò di sistemare tutto e poi vi richiamerò.”

“No, non richiamerai tutti noi.”

“Vedremo.”

 

Non li hai richiamati tutti.

Hai tenuto la minima parte di loro, quella più efficiente e pulita. Insomma, il corpo alla fine appartiene a te. E dopo tutti questi anni hai dei criteri d’affitto.

Pochi, ma buoni, e ti fidi di loro.

Facendo le pulizie l’hai notato: erano quelli che ti hanno piantato dei semi dentro e non te ne sei accorto, perché l’hanno fatto mentre tutti gli altri ti distraevano con le loro luci e i colori e le loro feste allegre; erano gli inquilini più silenziosi e rispettosi, che si facevano largo nel loro modo dimesso ma a fronte alta. E i loro semi sono diventati piantine, e le piantine si sono trasformati nei tuoi alberi preferiti – assomigliano tanto agli alberi alti con l’ombra dorata, te li ricordi – e hanno messo radici.

Oh, come ti piacciono le radici.

 

“Voi restate.”

 

Della quinta vita non capisci un tubo.

 

Sai che ci sei arrivato quando ti chiedi se il buco della ciambella sia un’entità o un vuoto, e poi ti dai dello stupido per essertelo domandato perché tanto il gusto della ciambella non cambia.

Eri una misera fogliolina perduta a cui sono state strappate le radici, catapultata dal vento in un bosco buio dove chiamare casa era sentire una triste eco senza risposta, che sognava e sapeva dov’era l’infinito perché l’ha ospitato per anni dentro di sé.

Sei partita dritta, e ora se ti guardi indietro vedi salite, discese, curve, ponti, bivi e sentieri.

Hai perso la tua prospettiva sul mondo perché, come quello che ha causato la distruzione di Atlantide e lo spostamento dei poli, è caduto un meteorite che ti ha cambiato il cielo e non ti faceva più riconoscere le tue stelle, ma ora ti ci sei adattata, e ti piace vedere luce dove prima c’era solo il velo smerigliato della tua miopia.

 

Ti piacciono le strade.

 

Ti piace iniziarle, perché è ancora tutto da scoprire, e a te piace scoprire stelle nuove.

Ti piace percorrerle e ripercorrerle, perché non sono mai le stesse.

Ti piace sostare in un posto riparato che ti protegge sia dal caldo che dal freddo.

Ti piace quella strada perché è tua, e la puoi descrivere in mille modi, ormai, e non importa più che abbia radici, perché le uniche radici che contano – ormai lo sai – sono quelle che ti sono state impiantate dentro tempo fa.

 

Le radici invisibili non possono essere sradicate. Come la mettiamo ora, eh, vento assassino?

 

E poi le strade sono vive.

Sì, alcune volte è un po’ difficile conoscerle, perché non hai mai visto una strada come quella, la prima volta che ci passi. Magari sei cauto, non si sa mai, può darsi che dopo un bel ponte di legno intagliato a foglie di acanto ci sia una palude di sabbie mobili, chissà, tutto può essere in strade nuove.

 

Ma quando hai trovato una strada che ti piace, oh, ci staresti sempre.

Di giorno, farfalle, bruchi nel prato. Di notte, melodia e parole, ma con il profumo di quel prato.

Una volta, convogli di suono puro. Un’altra, uno specchio d’acqua sconcertante.

Mai uguale, mai diversa, ti porta via ma è sempre con te, chissà come si fa a fermarla, questa strada che ti porta al mare, chissà se è fermarla che si deve.

 

Ogni giorno percorri questa strada.

 

Ogni giorno regali acqua ai suoi fiori per vederla viva e bella.

 

Ogni giorno ti dici che vorresti farlo anche domani.













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"Due giorni dopo, quando la donna slovena partì, Jasper Gwyn le lasciò una lista da lui compilata di tredici marche di whisky scozzese. –Cosa sono?-, chiese lei. –Bei nomi. Te li regalo."

Io so solo regalare parole.

Come Jasper Gwyn.

  
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