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Autore: Tinkerbell92    14/05/2014    8 recensioni
Quello strano spazio infinito che Rackham e Tessa possono modellare a seconda dei propri desideri è certamente frutto di uno strano sogno.
Non c'è altra spiegazione: eventi troppo strani accadono nel luogo in cui i due ragazzi s'incontrano ogni giorno per giocare al Gioco delle Maschere.
Ma se invece quegli eventi tanto assurdi fossero in qualche modo collegati ad una dura realtà? Quanto potrebbe essere doloroso il "risveglio"?
(Visto che non c'è tra le tematiche disponibili del sito, aggiungo qui la voce "Onirico")
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Contest di Scrittura indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio  

Pacchetto GRIGIO - Onirico, Angst, Introspettivo
Prompt: MASCHERE
Risultato: PRIMA CLASSIFICATA


Bottoni e tulipani



Siamo soli, tu ed io, Tez, seduti al centro esatto di un nulla rosso e bianco.
- Perché ci troviamo qui?
 Ti volti sorridendo, con i tuoi occhi grandi e verdi, il volto pallido e un po’ smunto e la dentatura imperfetta. Non so perché, ma mi rendo conto di aver appena fatto una domanda stupida.
- Veniamo qui ogni giorno, Rack – rispondi un po’ sorpresa, dandomi una leggera pacca sulla spalla – Non ti piace più?
- No, non intendevo questo – sussurro, abbassando lo sguardo – Solo… mi sembra un po’ strano… perché non c’è niente, oltre al terreno rosso e al cielo bianco?
 Mi osservi con aria divertita, le tue labbra sottili e chiarissime si allargano ulteriormente, mettendo in mostra i canini sporgenti: - Cosa vorresti ci fosse, allora?
 Sparo la prima cosa che mi viene in mente: - Un campo di tulipani.
 Come per magia, la terra rossa ed inconsistente scompare, lasciando il posto ad un ampio prato costellato di tulipani cremisi.
 Il tuo sguardo si illumina: sono i tuoi fiori preferiti. Forse il mio desiderio non è stato del tutto casuale.  
 Io farei di tutto per renderti felice.
- Facciamo il Gioco delle Maschere, Rack? – domandi all’improvviso, accendendo d’entusiasmo il tuo volto innocente e sincero.
 Ti scompiglio, con un sorriso, i capelli chiarissimi e appuntiti che ti sei tagliata il giorno del tuo diciottesimo compleanno per far dispetto a tua madre: - Non pensi che io sia troppo vecchio per giocare?
 Sai che sto cercando di stuzzicarti, infatti, con un risolino, prendi qualcosa da dietro la schiena, per poi nasconderci dentro il viso.
 - Quante volte devo dirtelo? Otto anni di differenza non sono tanti, Rack. Forza, dimmi: chi sono?
 Ti osservo per un po’, poi provo a sondare cautamente il terreno: - Sei un tulipano… la tua maschera è a forma di tulipano.
 So che non è mai facile indovinare con te, la tua fantasia è davvero sconfinata.
 Ti sporgi verso di me, il volto ancora celato dalla maschera rossa: - E poi?
- E poi… - provo a pensarci su – Sei un tulipano molto grazioso, tutti gli altri tulipani fanno la fila per corteggiarti.
- Può darsi – rispondi ridacchiando – Ma poi scappano perché si rendono conto che sono un tulipano pazzo…
- … perché non guardi gli altri tulipani ma le rose – aggiungo, cercando di trovare i dettagli assurdi che ti piacciono tanto – Perché sei convinto di essere una rosa tu stesso.  
- In realtà, sono convinto di essere una margherita – mi correggi – Ma ci sei andato vicino. Comunque, hai scordato la cosa più importante, Rack.
- E cioè?
 Ti sfili la maschera, mostrandomi il sorriso che tanto amo: - Sono un tulipano felice.

 Continuiamo ad incontrarci ogni pomeriggio al campo di tulipani e, puntualmente, dal nulla, tiri fuori delle strane maschere, chiedendomi di indovinarne la storia.
 Non potrei mai stancarmi di osservarti mentre ridi della mia scarsa fantasia e cerchi di aiutarmi ad uscire dai miei schemi mentali troppo rigidi.
 Non riesci a capacitarti che la mia mente sia così poco aperta rispetto alla tua.
 Cerco di prepararmi delle storie assurde per la prossima maschera, quando, all’improvviso, mi rendo conto di essere solo.
 Aggrotto la fronte confuso, facendo correre lo sguardo per ogni angolo del rosso deserto fiorito, il petto attanagliato da un’ansia opprimente.
 Dove sei, Tez? Perché mi hai lasciato qui da solo? Non ti diverti più a giocare con me? Ti sei stancata della mia poca fantasia? Ti prego, Tez, non farmi questo! Mi sto impegnando, te lo giuro! Non puoi lasciarmi così… ho faticato tanto ad inventarmi delle strane storie! Non vuoi sentirne nemmeno una?
 Il cielo si tinge di nero, la pioggia comincia a cadere. Gocce gelide ed incolore colpiscono la mia pelle come frammenti di ghiaccio.
 Ho bisogno di un riparo… ho bisogno di coprirmi…
In un battito di ciglia, mi ritrovo al coperto, sotto le fronde di un grande salice, avvolto nella mia vecchia giacca grigia, quella con i bottoni bianchi, che non ricordavo nemmeno di avere.
 Da quanto tempo non indossavo questa giacca? Perché è comparsa così all’improvviso?
 Non ricordo nemmeno mi piacesse tanto come in questo momento. Sì, penso che riprenderò ad indossarla, mi fa sentire bene. Quasi vorrei non toglierla più.
 La pioggia continua a cadere.

 - Tez!
 Ti vedo arrivare verso di me, sorridendo. Sembri più in carne rispetto l'ultima volta che ci siamo visti.
 Ho passato nove giorni rintanato sotto il salice, avvolto nella mia giacca grigia. Non mi sono nemmeno reso conto che il cielo ha cambiato colore ed è tornato bianco.
- Tez dove sei stata? Perché mi hai lasciato solo tutto questo tempo?
 Ti getti tra le mie braccia ridendo, incurante del mio tono brusco e dell’ansia che mi sta divorando.
 Credevo di averti persa, credevo ti fossi stancata di me.
- Guarda! – strilli con entusiasmo, mostrandomi una bambola di pezza così realistica da far quasi impressione.
- Prendila, Rack! Prendila in braccio! – insisti – Forza, prendila!
 Non ricordavo ti piacessero tanto le bambole, ma l’ultima cosa che vorrei è spegnere il tuo entusiasmo, così serro le mani attorno alla vita del giocattolo, affondando le dita nelle morbide pieghe del vestitino a quadri.
 Gli occhi della bambola sono grandi come i tuoi, anche se il colore dell’iride, azzurro pallido, ricorda tanto quello dei miei. Il volto paffuto è incorniciato da una massa lanosa di capelli scuri.
- Si chiama Pauline – m’informi raggiante – Non è bellissima? Guarda, ha molto di noi: i tuoi capelli, il mio sguardo, il tuoi occhi, il mio pallore… ha anche il mio sorriso, ma sono sicura che se aprisse la bocca avrebbe i denti come i tuoi…
- Hai ragione – concordo sorridendo – E giocherà anche lei al Gioco delle Maschere?
 Scuoti la testa con vigore, giocherellando distrattamente con i capelli di Pauline: - Lei è troppo piccola. Ma quando crescerà glielo insegneremo.
 - Certo.
 Improvvisamente, aggrotti la fronte, osservandomi in modo strano: - Quella giacca è nuova?
- No – rispondo, sfiorando uno dei bottoni con l’indice – Non la usavo da tempo…
- Me la fai provare?
 Un brivido mi corre lungo la schiena, anche se non riesco a comprendere il motivo del mio disagio.
 Indossi la giacca, decisamente troppo grande per te, e sorridi, pavoneggiandoti.
 Ed io mi sento in colpa.  

 Quella giacca non ti sta bene, Tez. Non ti fa stare bene.
 Continui a ripetermi che è solo un’impressione, ma è evidente che da quando ha cominciato ad indossarla appari sempre più smunta e gracilina.
- E’ solo una giacca, Rack! – sbotti all’improvviso un giorno, mentre rigiri nervosamente tra le dita lo stelo reciso di un tulipano – Non può mica farmi ammalare!
- Quando la indossi sei diversa – provo a giustificarmi, senza alzare lo sguardo – Hai un aspetto diverso…
- Io mi sento bene invece – ribatti mettendo il broncio – Mi dà sollievo…
Non mi sembra di averti mai vista così di cattivo umore. Forse è il caso che la smetta di farmi prendere dalla paranoia…  
Noto improvvisamente un dettaglio piuttosto rilevante: - Dov’è Pauline?
 Capisco di aver toccato un tasto dolente non appena il tuo volto si fa scuro.
- Me la vogliono portare via – sibili rabbiosa – Hanno detto che non posso più tenerla.
- Chi l’ha detto?
 Dai un’alzata di spalle e, cambiando improvvisamente umore, ti copri il viso con un candido velo di tulle, simile a quello delle spose: - Chi sono?
 Un po’ titubante, scosto il velo afferrandone i lembi con le dita… e trattengo a stento un grido.
 La maschera che indossi è diversa dalle altre: raffigura il tuo volto, sì, ma ancora più pallido e scavato, le occhiaie sono tanto scure da apparire quasi nere. E le labbra… Dio, che orrore quelle labbra! Violacee e rigide, sembrano due lividi sovrapposti.
- Perché? – ansimo sconvolto, rifiutando la visione di quel volto cadaverico, la tua maschera di morte.
 Come se nulla fosse, scoppi a ridere e ti getti tra le mie braccia, fragile e pallida come un uccellino privo di piume precipitato dal nido.
- Perché mi hai mostrato una cosa simile? – sibilo infastidito – Come hai potuto? Non hai proprio idea di quanto tenga a te, Tez?
- Sei arrabbiato? – domandi, scostandoti appena dal mio petto e guardandomi dritto negli occhi con fare impertinente.
- Certo che lo sono! – rispondo duramente, ignorando le tue espressioni irrisorie – E’ stato uno scherzo di pessimo gusto!
- Sei noioso. Sembri mia madre…
- Forse perché ho davvero qualcosa in comune con lei – ribatto, compiacendomi della curiosità che illumina improvvisamente il tuo sguardo.
- Cos’avete in comune? – domandi con un ghigno – Siete entrambi privi di fantasia e senso dell’umorismo?
-No, Tez – replico in tono fermo, evitando di pensare alle conseguenze di una simile confessione – Entrambi ti amiamo, anche in modo diverso.
 L’espressione di sorpresa stampata sul tuo volto un po’ mi aiuta a sbollire il nervosismo, anche se presto un nuovo fuoco esplode all’interno del mio petto, alimentato dalla consapevolezza di aver infranto un proposito che mi ero imposto, quello di non confessarti mai apertamente il mio amore.
 - Tu mi ami, Rackham?
 Ormai hai disciolto l’abbraccio e mi fissi seria, inginocchiata sul prato cremisi, i pugni stretti in grembo. Mi sento avvampare.
- Io… ti amo, Tez.
 La frittata è fatta, tanto vale prendere coraggio e andare fino in fondo. Anche se so benissimo che potrebbe essere una sicura via per perderti per sempre.
 Non rispondi. Non batti ciglio. Semplicemente, ti getti di nuovo tra le mie braccia ed afferri con forza le mie labbra con le tue.
 A quel punto, il tempo comincia a bloccarsi, accelerare, rallentare… tutto di seguito e al contempo tutto in una volta, mentre sento le tue dita ossute serrarsi sui miei capelli arruffati ed il tuo corpo scheletrico muoversi contro il mio.
 Vorrei riuscire ad essere delicato, ho come l’impressione che le tue fragili membra potrebbero sbriciolarsi al semplice tocco delle mie mani robuste e nodose, ma la mia mente ormai è un turbinio di pensieri ed emozioni, mi impedisce di controllare qualsiasi movimento.
 E’ come se, goffo ed impacciato, provassi a maneggiare un sottile calice di vetro. E proprio come il vetro, ti distruggi all’improvviso, svanendo in tante minuscole schegge trasparenti.  

 E’ tutto diverso, Tez. Tutto sbagliato.
 Che senso ha incontrarci ogni giorno, se ogni volta che provo ad avvicinarmi a te mi scontro con un freddo muro invisibile?
 Come possiamo giocare al Gioco delle Maschere, se parli sempre più di rado? Cosa sta succedendo? Ti sei spaventata per la mia dichiarazione? E allora perché mi hai baciato?
 Di tanto in tanto indossi qualche strana ed inquietante maschera, ma non sembri intenzionata a giocare. Sembra più un nuovo modo tutto tuo per comunicare con un invisibile interlocutore. Interlocutore di cui, scontato dirlo, mi riscopro tremendamente geloso.
- Lui ha forse più fantasia di me? – domando un giorno, visibilmente scocciato. Prenderei a pugni il muro di vetro che ci divide se soltanto servisse a qualcosa.
 Mi degni appena di uno sguardo, il volto coperto dal una stranissima maschera colorata di viola e verde. Non rappresenta nulla, l’unica cosa che la caratterizza sono i due colori.
 Non indossi più la mia giacca, al momento le tue fragili nudità sono celate da un singolo velo bianco, avvolto attorno al corpo. Non saprei dire se sia più pallido il velo o il colore della tua pelle.
- Tez! Ti prego, Tez, parlami! Perché mi eviti così? Non mi ami? Non mi vuoi più bene?
- Io ti starei evitando? – sfili la maschera con un movimento lento e fluido – No, Rack, io ti amo e vorrei tanto poter stare con te. Ma adesso non è possibile. Almeno per ora…
- Che significa? – ansimo sconvolto, i palmi schiacciati contro il nostro invisibile divisorio – Perché parli così?
 Ti limiti a sorridere, dando un’alzata di spalle. Sembri quasi più adulta, più matura.
- Non è colpa di nessuno, Rack, a volte succede. Mi spiace solo che dovrai aspettare ancora un bel po’, prima di rivedermi…
-Aspettare quanto? – ormai la mia voce è ridotta ad un rantolo disperato – Io non capisco…
Poggi la tua mano candida e ossuta contro il vetro, facendola coincidere con la mia: - Non è ancora il momento, Rack. Non avere fretta, prima o poi mi rivedrai, te lo prometto. Ma non adesso. Non vorrai lasciare Pauline da sola, no?
- Tez, ti prego…
Il paesaggio attorno a noi comincia a farsi scuro, il cielo bianco assume una tonalità livida e grigiastra, riversando su di noi gelide gocce di pioggia. Gocce che, sotto i miei occhi inorriditi, trafiggono la tua pelle delicata, sciogliendola come neve al sole.  
 - Tez!
 Per l’ultima volta, le tue labbra si piegano in un sorriso: - Non avere paura, Rack…
- Tez!
 - Ti amo.
 Il muro di vetro scompare all’improvviso, facendomi cadere in ginocchio nel punto in cui, fino ad un secondo prima, c’era una piccola pozzanghera bianca, tutto ciò che restava di te.
 I tulipani spariscono, mi ritrovo immerso in un terrificante oblio nero pece.
 Urlo, piango, provo addirittura a strapparmi i capelli, senza risultato.
 Nemmeno la giacca grigia, che di solito mi dava sollievo, mi aiuta a sentirmi meglio. Nulla può farmi sentire meglio.
 Con un grido di rabbia, sfilo bruscamente l’indumento e lo scaglio lontano, lasciando che un vortice scuro lo inghiotta nella frazione di un secondo.
 Dove sei, Tez? Che cosa significa questa oscurità? Che cosa significa questo senso di vuoto che provo?
 Una fitta lancinante allo stomaco mi costringe ad accasciarmi al suolo, mentre, con un rantolo, mi porto la mano davanti alla bocca e sputo qualcosa di piccolo e bianco. Un bottone.
 Il panico mi assale, mentre mi accorgo di essere ancora avvolto nella dannata giacca grigia, che sembra ormai un tutt’uno con la mia pelle.
 Vorrei provare a strapparla via, ma sono troppo occupato a sputare altri bottoni, fino a ritrovarmi una candida montagnola stretta tra le mani tremanti.
 Mi gira la testa, ho paura, non capisco cosa stia succedendo. Spalanco la bocca per gridare, ma non fuoriesce alcun suono.
 Il nero che mi avvolge comincia a turbinare, un vento caldo, quasi bruciante, sferza il mio corpo inerme senza pietà. Mille lampi di luce viola mi feriscono gli occhi, costringendomi ad abbassare lo sguardo suoi bottoni che ho sputato, i quali, all’improvviso, si tingono di rosso.
 Un ultimo pensiero attraversa la mia mente, prima che una morsa nera si chiuda attorno a me.
 E’ il tuo sorriso, Tez.

 Passano i secondi, i minuti, le ore. Continuo ad aspettare un dolore che non arriva.
 Finalmente, trovo il coraggio di aprire gli occhi, guardando le mie mani chiuse attorno ai bottoni rossi, che si restringono velocemente fino a formare un’unica macchiolina cremisi.
 No, un momento, non è una semplice macchia, ha un lungo gambo verde che attraversa tutto il mio palmo: il gambo di un tulipano.
 Sono un po’ disorientato: il nero oblio è sparito del tutto, lasciando il posto ad un luogo strano ma in qualche modo famigliare.
 Non mi trovo nel campo di tulipani: il cielo è azzurro, non bianco, mentre il suolo non è costellato di tanti piccoli fiori rossi, quanto più ricoperto da fitti ciuffi d’erba smeraldina.
 Sono adagiato su una sedia a rotelle, proprio di fronte ad una candida lapide di marmo adornata con incisioni dorate che, al momento, non riesco a decifrare.
 Ci sono altri tulipani posti ai piedi della pietra rettangolare, dove due bambini piccoli – il maggiore dei due avrà massimo cinque anni –stanno giocherellando coi fiori con le manine grassocce, ridacchiando e commentando con frasi incomprensibili.
 Alzo lo sguardo confuso e… per un attimo mi si blocca il respiro.
 Tez! Eccoti finalmente!
-Dove sei… - comincio a balbettare, quando mi accorgo che, in realtà, non sto guardando per davvero il tuo volto, ma la tua foto. Incastonata nel marmo bianco della lapide.
 E, all’improvviso, tutto si fa più chiaro, tanto che non mi sorprendo nel vedere le mie grosse mani coperte di pelle rugosa, non mi sorprendo nel vedere il volto della donna che mi sorride benevola.
 Dimostra circa una trentina d’anni, il volto pallido è incorniciato da una massa voluminosa di capelli castani ed suoi occhi sono belli e grandi. Grandi come i tuoi, Tez, ma con le iridi celesti uguali alle mie.
 Mi aiuta ad avvicinarmi alla lapide, in modo che possa adagiare il tulipano in mezzo agli altri, tra le occhiate curiose dei due bambini.
 Il bianco del marmo, il rosso dei fiori. I colori del luogo del mio sogno ad occhi aperti.
Riesco a leggere la prima riga incisa sulla pietra, anche se ormai la conosco a memoria: “Tessa Banks in Taylor -  Amata moglie e madre”
Ti conobbi in una clinica per tossici quando avevi solo diciotto anni. Eri seduta nel vecchio cortile, quello sul retro, che nessuno curava da anni ed era ormai ridotto ad un ammasso di erbacce e sterpaglie.
 Avevi i capelli corti e appuntiti, sì, ma non li avevi tagliati per fare dispetto a tua madre, quella donna tanto gentile e paziente che adesso riposa accanto a te: erano stati gli effetti della droga a farti prendere le forbici in mano e distruggere la tua bella chioma bionda.
 Non mi ci volle molto per affezionarmi a te.
 Ci incontravamo spesso in quel giardinetto abbandonato, dove ti divertivi a mostrarmi le Tavole di Rorschach che avevi rubato alla psicologa della clinica, costringendomi ad inventare una storia basata sulle immagini che vedevo.
 Fummo entrambi dimessi un paio d’anni dopo il nostro primo incontro, apparentemente guariti, apparentemente pronti ad incominciare una nuova vita insieme.
 Il giorno del nostro matrimonio pensai che nulla avrebbe potuto intaccare la nostra felicità, ma mi sbagliavo: bastò un maledetto periodo di depressione ad innescare un lento processo distruttivo che portò entrambi alla rovina.
 Nemmeno la nascita della nostra bambina riuscì a migliorare le cose, anzi: dopo aver saputo che entrambi avevamo ricominciato a drogarci, il tuo medico informò gli assistenti sociali, che cercarono immediatamente di portarcela via.
 Fu una fortuna se tuo padre riuscì ad ottenerne l’affidamento… a proposito di lui, mi ha chiesto di scusarlo per non esser passato a farti visita, oggi: la schiena dolorante l’ha costretto a letto tutto il giorno.
 Ancora mi domando perché non siamo riusciti ad essere forti come lui, Tez.
 Eravamo davvero così fragili? Così disperati da identificare nuovamente la droga come un appiglio, un sollievo, una bella giacca che ti tiene al caldo durante i freddi giorni di pioggia?
 Ci rendemmo conto troppo tardi di aver fatto per la seconda volta una grandissima stronzata. O meglio, me ne resi conto soltanto io, quando, in preda ad uno dei miei soliti deliri, precipitai dalle scale di casa, restando paralizzato agli arti inferiori.
 Tu, purtroppo, non avesti mai il tempo di comprendere il tuo errore: ti trovammo riversa sul divano del salotto, gli occhi sbarrati, le dita ossute ermeticamente serrate attorno ad una boccetta di pillole ormai vuota.
 Avevi trentotto anni, ma ricordo che, in quel momento, mi venne spontaneo ripensare alla ragazzina che, vent’anni prima, avevo incontrato nel vecchio giardino.
 E poi arrivarono il dolore, la disperazione, il vuoto. Arrivarono per non andarsene mai.
 Per fortuna riuscii a trovare sollievo in qualcosa di buono, qualcosa di sano…
- E’ ora di andare, papà.  
 Pauline serra le dita attorno ai manici della carrozzella, mentre i suoi bambini, Alex e Danny, cinguettano un “Ciao nonna”, per poi alzarsi e cominciare a rincorrersi lungo il viale che porta all’uscita del camposanto. Un sorriso affiora spontaneo sulle mie labbra.
 Mi manchi molto Tez, farei qualsiasi cosa per poterti stare accanto, ma hai ragione: non è ancora il momento.
 Pauline aveva appena quindici anni quando ci lasciasti, fu il suo pensiero ad aiutarmi a trovare la forza per andare avanti.
 Ora mi basta guardare il suo sorriso per capire che, forse, sono davvero riuscito a combinare qualcosa di buono nella mia incasinatissima vita.
 Ci rivedremo, Tez, lo so, ma sono in attesa di quel giorno da una quindicina d’anni: credo di poter aspettare ancora un po’…



Angolo dell'Autrice: In realtà questa volta non ho molto da dire. Grazie a tutti per aver letto! :)
Tinkerbell92
  
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