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Autore: marani    15/05/2014    1 recensioni
Domanda: l'amore è sempre una cosa buona? Di slancio, verrebbe proprio di rispondere sì. Ma qualche volta non è esattamente così. Ed è in quei casi che difendersi si tramuta in una lotta senza pietà. Specie se chi dice di amarci ha poteri che nessun altro essere umano possiede.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scinti N.d.A.: a seconda della lunghezza dei capitoli originari, ne metterò uno o più nella classificazione che ne fa questo sito. Ah, è una storia bella lunga. Per cui, se siete patiti delle flashfic... non so se vi conviene addentrarvi. Però potreste provarci, perchè no? Buona lettura!


LA SCINTILLA


L’amore ha denti e artigli
che sanno lacerare a sangue
e causare ferite
che non rimarginano mai


CAP. 1

Vicenza, 1987

Non so ancora bene come cominciò il tutto.
E’ sempre così, ogni cosa pare avere una fine, un epilogo chiaro, netto. Il chiudersi di una storia d’amore, la conclusione di un rapporto di lavoro. Ma al contrario è ben difficile dire quando le cose hanno inizio. Di solito ce ne si trova in mezzo e si tenta inutilmente di andare indietro con la memoria, senza trovarne capo. Andare per gradi, forse, può essere utile per ricordare meglio. Il mio nome è Giulia, per cominciare, e sono una ragazza di venticinque anni. Una ragazza come tante è la definizione più veritiera che potrei affibbiarmi senza tema di imbarazzo. L’essermi da sempre appassionata di computer mi ha agevolato non poco nel trovare un impiego, nonostante lo scetticismo di mio padre, fin dai tempi ingenui e nebulosi post-diploma delle superiori. A differenza delle mie coetanee, dibattute tra il restare a casa a sfogliare riviste zeppe di pettegolezzi su attori e cantanti famosi o noiosi impieghi di commesse.In genere in negozi di abbigliamento giovane, pulsanti di musica techno e luci allucinate. Precarie attività commerciali che, a seconda delle mode e delle imposte da pagare, sbocciavano e appassivano come effimeri fiori lungo le vie del centro cittadino.
E fu proprio mio padre l’artefice involontario della mia futura professione, quel Natale di ormai sette anni orsono. Quando sotto il tradizionale albero carico di decorazioni e dolciumi mi fece trovare, avvolto nella classica carta dorata, uno dei primi esemplari di Commodore 64. E’ un computer, per chi non se lo ricorda o non ne ha mai sentito parlare. Un computer della prima generazione, si suol dire oggi, ed effettivamente lo era, con tutti i limiti che questo voleva significare. A quel tempo comunque era come se un uomo delle caverne si ritrovasse tra le mani all’improvviso un’arma da fuoco, o anche solo arco e frecce. Adesso fa un po’ sorridere scorgere gli stessi modelli di computer far bella mostra sulle bancarelle di qualche fiera di modernariato, a fianco di panciuti frigoriferi rossi della Coca-Cola e buffi omini Michelin, resi goffi e obsoleti dal galoppare della tecnologia e del design. Vestigia di un passato non così remoto da aver suggerito di conservarli (in fondo siamo sempre figli dei figli del boom economico del ‘60) ma tali da costare ormai un occhio della testa al fine di rientrarne in possesso, al pari di sedie Luigi XV e statuine in gesso di Lenci. Così, dopo i primi preistorici videogame sul C 64 (chi non ricorda il mitico “Space Invaders”, con improbabili astronavi seghettate che rovesciavano sulle basi semoventi una pioggia di “trattini” letali?) passai alla grafica psichedelica degli Amiga, prima di approdare a proposte di pc sempre più economici e potenti. I miei interventi sulla macchina non avevano alcunché di geniale o di creativo, ben s’intende, ero solo l’equivalente elettronico di una buona analista contabile o, al massimo, di un ragioniere. Metodo e calcolo, in due parole. In ogni caso fui allettata, dopo un paio di impieghi di transizione, dalla proposta della Biblioteca Civica di passare (cominciare a passare, ad essere sinceri) su archivio elettronico anni, decenni, forse secoli di archiviazione manuale. Nel tentativo di sostituire (gradualmente, mai parola fu più auspicata e azzeccata) l’oceano di schedule vergate con mano tremante e svolazzante da una legione di segretari, ormai defunti a parte il nostro signor Pesavento, attuale burbero responsabile di tutto ciò che entra e soprattutto esce dalla biblioteca. Anche se gli altri addetti alla gestione dell’istituzione libraria pongono spesso spiritosi dubbi sul fatto che anche il vetusto Pesavento non sia già passato a miglior vita da tempo, e che sia il suo improbo attaccamento al lavoro a portarlo ogni santo giorno a presentarsi puntuale alle 8,00. Con l'mmancabile completo grigio e i gilè di lana scura.
Ma queste, come ripeto, sono le tipiche spiritosaggini comuni ad ogni ambiente di lavoro, quando la convivenza tra individui eterogenei porta i più dotati di ironia (o forse di cinismo) a dispensare battute non sempre azzeccate su questo o quel collega. Ce ne sono, di persone, in una biblioteca come la nostra. Non tante come in una grande azienda od in un istituto scolastico, immagino, ma comunque abbastanza da formare una piccolo drappello vociante quando ci si riunisce tutti insieme, magari in occasione di qualche rara cena di lavoro. Occasione aborrita dai più, e appunto per questo rara, visto che non si riesce mai a “obbligare” tutti alla presenza. C’è sempre qualcuno che ha un impegno dell’ultimo minuto (inderogabile) o l’allenamento di chissà quale sport (fatalità) proprio nel giorno fissato per la cena. C’è da capirli, è ovvio, se nell’ambiente di lavoro non sboccia spontaneo anche un legame di amicizia (ed è un po’ arduo che nasca in tutti contemporaneamente con la medesima intensità) è soprattutto una rottura di scatole rubare una sera alla famiglia, agli amici o anche solo al telequiz del giovedì sera per passare altre tre, quattro ore a parlare della biblioteca, del Consiglio che rilascia permessi col contagocce e dei cronici problemi dei magazzini. Sì, perché nonostante ad intervalli regolari tra gli antipasti e il caffè qualcuno salti fuori con la classica frase: “oh beh, ragazzi, adesso basta parlare di lavoro!..”, alla fine gira e rigira sempre lì si ricade.
Ci si ritrova al completo solo in queste poche occasioni, dicevo, mentre durante il giorno si ha l’occasione di vedere la maggior parte dei colleghi solo singolarmente o a coppie. O a piccoli gruppi mentre tentano di entrare tutti insieme in quella che qualche ottimista ha battezzato “stanza-caffè” (vano caffè sarebbe stato più appropriato, visto che tra macchina del caffè, il ronzante frigorifero per le bibite estive, rigorosamente portate da casa e di conseguenza siglate per il riconoscimento, e scatoloni di filtri del caffè e bustine di zucchero e bicchierini, in due ci si intralcia e in tre ci si blocca). Come in tutte le stanze o vani o angoli caffè di tutto il mondo è sempre affollato di uomini che discutono dell’ultima partita di campionato e donne che commentano la precedente serata televisiva, ed è molto raro, quasi improbabile trovarlo deserto a lungo (e questa è una prima cosa da tenersi a mente per il proseguo del racconto).
Tutto questo preambolo (lo so, sono prolissa, se te lo fanno notare i tuoi fratelli prima e poi le tue compagne di scuola qualcosa di vero ci deve essere) per dire che dopo un mese buono di lavoro non sapevo bene quali e quante persone erano impiegate nella biblioteca, né tantomeno i loro nomi o le loro qualifiche. Sì, avevo parlato con le signore della segreteria, la Amalia e la Luigina, così piccole e rotondette e iperattive che era facile confonderle, e la segaligna Maria Luisa, sempre burbera al punto giusto, come se la piega verso il basso della bocca le fosse stata tatuata alla nascita. Poi il già citato signor Pesavento, che da una vita immemorabile incatenava la sua vecchia bicicletta alle fioriere che delimitavano l’ingresso, salvo poi fare il diavolo a quattro quando gli studenti frequentatori della biblioteca parcheggiavano le loro decine di ciclomotori e vespe. Tra gli addetti alle sale c’era la mia amica Sara, con cui spesso e volentieri uscivo nella pausa pranzo, anche se lei era perennemente assillata dalle diete e dai chili (chili?... grammi in più!) e quindi il più delle volte finivamo a guardare le vetrine dei negozi del Corso (chiusi) o sedute, nella bella stagione, sui gradini della piazza a parlare dei fidanzati o dei fidanzati o dei fidanzati (chiaro, no?). Il mio sacrificio nel non pranzare era dettato soprattutto dalla solidarietà verso un’amica ossessionata, più che da un vero e proprio bisogno di mantenere la linea, e comunque Sara mi avrebbe rinfacciato fino alla nausea il mio egoismo se solo avessi pensato di divorarmi qualche succulento panino mentre lei si sorbiva il suo yogurt quotidiano. Yogurt magro, ovviamente.
Colleghi di Sara nell’accogliere, accudire e soprattutto sorvegliare gli studenti (che come tutti gli studenti del mondo avevano sempre volumi di voce e voglia di scherzare ben superiori a quanto i muri vetusti di una biblioteca possano sopportare) erano il gioviale Walter, un venticinquenne paffutello e riccioluto. Sempre intento a sgranocchiare qualche snack al cioccolato che teneva in tutte le tasche possibili (perenne diavolo tentatore del precario equilibrio alimentare di Sara, che lo cacciava, urlando per quanto sia possibile in una sala di biblioteca, dandogli del senza cuore e dell’insensibile). E l’antipaticissimo (questo andrebbe scritto tutto in maiuscolo) Ugo Maniero, un viscido e anonimo quarantenne con la detestabile abitudine di soffermare un po’ troppo le sue mani affusolate (e per questo ripugnanti) sulle braccia o sulla schiena di qualche occasionale interlocutrice del gentil sesso. Qualunque interlocutrice, pareva, essendo di gusti abbastanza ampi. Il suo tocco non era mai troppo prolungato o troppo esplicito da giustificare una reazione irritata o risentita, ma dava comunque molto fastidio. Forse anche questa era una sua squallida abilità. Ne parlavamo a lungo, con Sara e le studentesse, e il senso di ripugnanza era comune. Non parliamo poi di come era lesto ad alzare lo sguardo se qualche ragazza in gonne saliva la rampa di scale che lui stava discendendo, o di come si soffermava (fingendo di riordinare libri) nel punto migliore per una visuale panoramica dell’interno di qualche camicetta sbottonata per il caldo estivo. E vi assicuro che da giugno in poi, specie nelle sale ai piani più alti, l’afa è decisamente insopportabile.
Degni compari del Maniero c’erano poi quelli dei magazzini, un’accozzaglia (a parte qualche eccezione) di rozzi sempre pronti alle battute più salaci (rigorosamente a sfondo sessuale) quando per qualche ricerca particolare ci si doveva addentrare nei poco luminosi sotterranei della biblioteca, dov’era situato il magazzino, ormai al limite del collasso per problemi di spazio. Per quanto poco impressionabili si possa essere, davano comunque un brivido alla schiena quei polverosi e silenziosi scaffali di libri, sempre troppo in penombra.
Poi c’erano i lettori, e gli esterni, e i ragazzi del tirocinio, e i ragionieri dell’amministrazione. Insomma, non mi sembrò per nulla strano non aver mai visto quel ragazzo
(Andrea...)
prima di quel caldo mattino di fine giugno.
- Credo che tu debba ridare le impostazioni di stampa -
Alzai lo sguardo. Sulla porta del minuscolo ufficio che divido solitamente con Sara, c’era un ragazzo. Aveva un’età indefinibile. Un folto ciuffo di capelli neri gli ricadeva sulla fronte. Portava un buffo gilè di velluto su una camicia bianca di stoffa indiana lavorata. I suoi occhi avevano...un’espressione smarrita, quasi dispiaciuta, come se invece di un consiglio d’informatica avesse dovuto comunicare, che so?, di avermi versato il caffè sul vestito. Non mi stava guardando. Fissava invece il monitor del computer che avevo poco dietro di me.
- Prego? - riuscii a dire, colta di sorpresa.
- Il computer... - indicò - non stampa. Devi aprire Scelta Risorse e reimpostare la stampante. Lo fa, a volte, è uno dei misteri dei computer. Forse succede quando lo spegni in un dato modo...o forse quando si sveglia male... -
Un velo di divertimento attraversò per un attimo il suo sguardo, che tornò subito quasi malinconico.
Mi girai verso lo schermo, muovendo automaticamente il mouse. Sì, effettivamente avevo dato l’ordine di stampare l’elenco degli autori in ordine cronologico dal 1975 al 1977, e poi mi ero riimmersa subito nelle carte sparse sulla mia scrivania. Non avevo fatto assolutamente caso al fatto che la macchina non aveva sputato nessun foglio di carta, né bianco né stampato, dopo un po’ ci si fa l’abitudine ai rumori e alle elaborazioni del computer, a volte si crede che abbia stampato salvo poi constatare che non l’ha fatto. Quello che mi lasciava perplessa era che sullo schermo non era apparso nessun messaggio che confermasse l’impossibilità a stampare, dal quale si potesse dedurre che era un problema di Scelta Risorse. E la mancanza di qualsiasi comunicazione da parte del computer impediva appunto che si potesse pensare ad un errore di stampa. Potevo semplicemente aver lasciata aperta la lista degli autori per consultarla, o per modificarla, senza nessuna esigenza di stamparla. Voglio dire, per quello che si vedeva sullo schermo solo io potevo sapere se avevo mandato in stampa il documento o no. O almeno così credevo. D’altra parte non sono così ferrata sulla parte hardware o software o come cacchio si chiama per sapere se qualcuno più esperto di me potesse trarre comunque informazioni sullo stato di quel complicato scatolone futuribile. Fin che funziona lo uso, digito, apro e chiudo programmi, magari perdo un pò di tempo con qualche stupido giochino, ma se per qualche misterioso motivo il tutto dovesse andare in tilt (o in bomba, come insegna il gergo) beh... chiamo aiuto.
Aprii Scelta Risorse reimpostando la stampante e, dopo un breve attimo di riflessione, il computer mi diede l’ok a stampare.
-...g-grazie... - mormorai girando la testa verso il ragazzo - ma come hai fatto a...-
La stanza era vuota. Il ragazzo non c’era più, come se non fosse mai esistito.
Dalla soglia fece capolino Sara, con un pacco di libri tra le braccia. Indicai il corridoio dietro di lei:
- ...quel ragazzo... sai chi è ? -
Lei fece un passo indietro scrutando a destra e sinistra:
- Di quale ragazzo parli ? - rispose con un’espressione perplessa sul volto - in corridoio non c’è nessuno... -


CAP. 2


Quella notte feci un sogno. Ero in una strada di una città sconosciuta, sotto una bufera di neve turbinante e gelida. Vagavo senza sapere dove andare, ed ad ogni angolo mi sembrava che qualcuno mi seguisse, solo che non appena voltavo lo sguardo indietro l’impressione spariva. Come se la presenza misteriosa si ritraesse appena un attimo prima di essere scorta. All’improvviso scorsi Sara ferma davanti a me, immobile, che mi dava le spalle. Mi avvicinai senza riuscire a chiamarla, e mentre alzavo un braccio verso le sue spalle fui presa da un’angoscia terrorizzante. La mia mano si avvicinava inesorabilmente alla mia amica ma tutto il mio essere era spaventato dall’idea di vederla girare e guardarla in faccia. La toccai e lei si voltò: era proprio Sara. Stavo per dirle qualcosa quando la sua faccia... vibrò...per un istante... tramutandosi poi nel volto del ragazzo apparso improvvisamente nel mio ufficio, e misteriosamente scomparso. I suoi occhi avevano sempre quell’espressione a metà tra lo smarrito e il rattristato:
- Non puoi stampare senza di me...io sono il sogno...- disse con un lieve sorriso -...e tu sei una persona speciale...-
Poi i suoi occhi, fissi nei miei, cominciarono ad ingrandirsi, sempre di più, sempre di più, fino a che il mondo intero ne fu pieno e...
Mi svegliai di scatto, con un lamento, e rimasi immobile, tra le lenzuola intrise di sudore, ad ascoltare il ticchettìo di un temporale estivo sui vetri della finestra.


CAP. 3


- Un ragazzo con dei lunghi capelli scuri... e poi che altro? -
Con un’espressione divertita e incuriosita Sara si protese attraverso la marea di carte che ingombrava la mia scrivania. Io scossi le spalle, lottando disperatamente con la memoria alla ricerca di qualche particolare ulteriore. Era una sensazione assolutamente spiacevole, nella mia mente vedevo il ragazzo misterioso in piedi sulla porta dell’ufficio, vedevo i suoi capelli neri e folti, vedevo naturalmente il suo sguardo smarrito...ma poi basta, come se un difetto di vista, un alone di luce m’impedisse di scorgere altro.
- Non lunghi... più che altro un gran ciuffo...- risposi a disagio - e poi... e poi... uno sguardo triste...-
La fronte di Sara si corrucciò in un moto di disappunto:
- Oh bè, non mi sembra gran che, come indizio...possibile che sia tutto qui quello che ricordi? Voglio dire, è un bel manzo, o è uno sgorbio, ha la barba, o qualcosa di particolare? -
Scrollai nuovamente le spalle. Non riuscivo a capire perché non ero in grado di ricordare altro e, soprattutto, perché ci tenessi così tanto a scoprire l’identità del ragazzo. In fondo era uno qualsiasi, impiegato o addirittura studente, che si era fermato un attimo per un piccolo aiuto. Una gentilezza senza importanza. Eppure qualcosa mi rendeva inquieta, come una spina fastidiosa nell’anima...
Alle spalle di Sara comparve Maria Luisa, la responsabile dell’amministrazione, grigia e anonima nel suo cardigan, il solito crocchio di capelli a morderle la nuca. Il taglio della bocca era un arco rovesciato, come sempre.
- Giulia, dovresti fare un salto giù...- disse mentre ci scrutava con fare indagatorio, certa che avessimo impiegato parte del Sacro Orario di Lavoro per chiacchierare delle nostre faccende private. Beh, a dire il vero, un po’ era così... - ha chiamato Portogruaro... la dottoressa Artico... hanno confermato i titoli della lista inviataci lunedì via fax... ci sarebbe da organizzare la spedizione, far preparare il pacco, sentire il corriere... le solite cose, puoi occupartene tu? -
Le sorrisi senza alcuna speranza di ammorbidirne il cipiglio:
- Certo, signora, me ne occupo immediatamente...- feci un cenno di saluto a Sara e afferrai la borsetta. Uscii dalla stanza lasciando la mia giovane amica a sorbirsi la solita predica della tizia sulle responsabilità che si hanno in una struttura del genere e via di seguito e imboccai la scala verso l’uscita (il nostro cubicolo-ufficio, come quello di tutti i novellini, è situato all’ultimo piano: più nuovi si è più scale, e fatica, si fa...). Salutai distrattamente un paio di ragazze delle medie, colorate e vocianti, poi lo vidi. Era un paio di rampe sotto di me, e mi fissava. Le sue mani si muovevano velocemente, con piccoli gesti concentrici, come se stesse torcendo un minuscolo pezzo di carta. Accelerai il passo come per raggiungerlo (stupendomi di questa reazione, non certo da me) quando dalla sala lettura sbucarono cinque o sei ragazzi, in jeans tagliati al ginocchio e t-shirt dei più violenti gruppi heavy-metal, intenti a spintonarsi e sghignazzare. Cercando per di più di farlo silenziosamente, e proprio per questo riuscendovi alquanto poco. Mi presero in mezzo e le risate idiote e gli ammiccamenti si fecero più marcati. Fulminai i più scapestrati con un’occhiataccia, cercando di sgusciarne fuori, e ripresi la discesa, convinta che il misterioso ragazzo fosse altrettanto misteriosamente scomparso. Invece era fermo nello stesso punto dove l’avevo visto, e sembrava proprio che stesse aspettandomi. Improvvisamente, assolutamente inatteso e con una violenza che mi strappò una smorfia, lo stomaco mi si strizzò. Annaspai mentre il cuore partiva a mille, nel tentativo di uscirmi dal petto. Il ragazzo sembrò non accorgersi di niente, ed esibì un ampio sorriso:
- Devo esserti sembrato molto maleducato a sparire così, ieri... - la sua voce era tranquilla ed avvolgente, quasi ipnotica - ma mi sono ricordato che avevo lasciato un tizio in attesa, al telefono... - il sorriso si fece ancora più divertito. Solo il sorriso, però, i suoi occhi mi fissavano appena un po’ tristi - ...difatti aveva riattaccato. Ciao, io mi chiamo Andrea...-
Con la testa confusa ed ovattata (ero veramente allibita di quella mia reazione, tanto che metà del mio cervello si stava chiedendo quali fossero i sintomi di un ictus o di un colpo apoplettico, e l’altra che figura avrei fatto a crollare al suolo come un sacco di patate di fronte a quell’estraneo) strinsi la sua mano tesa con la mia che sentivo (e probabilmente avevo) di ghiaccio. Mi sentii mormorare a fatica il mio nome, qualcosa che assomigliava ad un “i-iace-re, iulia...”. Lui non sembrava fare assolutamente caso al mio comportamento e continuò:
- Immagino che anche tu sia nuova, qui. Io non ho ancora ben capito com’è strutturato questo edificio, e mi sto orientando a poco a poco. Beh, penso che non mancherà occasione di incontrarci e di scambiare qualche parola, prossimamente. Ora devo correre, quelli giù del magazzino mi hanno preparato alcuni volumi che mi sono stati richiesti, ed è meglio liberare il montacarichi...- di nuovo il caldo sorriso -...piacere, Giulia, e non farti scrupoli a chiamarmi se il tuo computer dovesse fare le bizze. In fondo
(sei una persona speciale)
L’ultima parte della frase fu coperta dal singhiozzare del clacson di un tram nella via sottostante, ma fui percorsa come da una scarica elettrica. Mi era sembrato di capire che avesse detto proprio così.
- P-prego?!? - balbettai. Lui fece ruotare gli occhi spazientito:
- Questo traffico cittadino...- commentò - ...è davvero una croce. Niente di speciale, ho detto che a me fa piacere aiutare le persone. Tutto qua, ok? Adesso vado, ci vediamo...-
Si allontanò nel corridoio che si apriva sul pianerottolo, e sparì alla vista. Poi notai quella piccola cosa sulla balaustra della scala. Vicino a dov’era fermo Andrea era posato un piccolo cigno fatto di carta leggerissima, bianca. Ecco cos’era quel movimento delle mani... una minuscola creazione di carta, un origami. Lo presi fra le dita, osservando la maestrìa con cui era piegata la carta, e me lo infilai in una tasca della borsetta, senza pensarci. Poi rimasi immobile mentre lo sfarfallìo nello stomaco e il tambureggiare del cuore diminuivano gradualmente. Mi sentivo la faccia in fiamme.
Ero spaventata, e preoccupata, da quella strana sintomatologia. Man mano che tornavo alla normalità non riuscivo a far altro che star lì a rimuginare su quella frase coperta dal clacson. “Sei una persona speciale” non assomigliava neanche lontanamente a “mi piace aiutare la gente... o le persone”. Come aveva detto?
Ripresi lentamente a scendere le scale, poco sicura della stabilità delle mie gambe, cercando di associare a qualche tipo di malessere quello che mi era successo (indigestione? sbalzo di pressione?) ma l’unica cosa a cui poteva avvicinarsi era... E’ così assurdo, ma sembrava la reazione che avevo quando prendevo una forte cotta per qualche ragazzo.
A quindici anni. Alle scuole medie.


CAP. 4


La sera, era un venerdì, tornai a casa stanca ed ancora un po’ scossa dallo strano episodio. Entrai nel piccolo appartamento in cui abito da sola da ormai tre anni, boccheggiando per la rovente temperatura che la giornata afosa aveva accumulato, nonostante mi fossi premurata di chiudere tutte le imposte. Accesi la lampada sul mobile in entrata e mi accorsi subito che la segreteria telefonica lampeggiava ritmicamente: messaggi in arrivo. Il numero rosso indicava il numero 3. Tre chiamate?, pensai mentre sistemavo l’agenda e i giornali sul mobile d’entrata, mia madre, Ricky e chi altro? Sara, forse. Pigiai il tasto per riavvolgere il nastro e far partire automaticamente le registrazioni dirigendomi verso il bagno, tanto il volume della segreteria mi avrebbe consentito di ascoltarla sin da lì. La prima voce era quella prevista e titubante di mia madre, da sempre in imbarazzo ad interagire con una macchina, che mi chiedeva come stavo, mi informava sull’esito di alcuni esami clinici di sua sorella e infine mi mandava i saluti suoi e di mio padre. Feci scorrere l’acqua fredda dal rubinetto e mi bagnai il viso, assaporando quel sollievo. Dopo il secondo fischio per l’appartamento si sparse la voce allegra e sonante del mio lui. Sto da due anni con Enrico, Ricky per tutti. Come potrei descriverlo? Apparentemente è tutto il contrario del ragazzo con cui starei (incoraggiante come inizio, no?). Non fraintendetemi, sto bene, molto bene con lui, e credo di non mentire a me stessa se aggiungo che lo amo. Ma è comunque diverso dai canoni che pensavo mi attirassero in un uomo, alla luce delle mie esigenze e delle storie passate. E’ un pezzo di ragazzo notevole, per dirla con la mia amica Sara, e a prima vista dà la classica impressione del tutto muscoli e niente cervello. Impressione che ha avuto per un po’ anche la sottoscritta, quando l’ho conosciuto durante una settimana bianca sull’Altopiano, e impressione che penso permanga ancora adesso in molte persone che conosco, non ultime un paio di mie amiche. Naturalmente è uno sportivo iperattivo, e mi tocca dividerlo con il tennis, le arrampicate in roccia, gli allenamenti del calcio il martedì e il giovedì sera (sereno, diluvio universale o tormenta di neve va bene lo stesso), le piste di sci e le escursioni della domenica mattina in mountain byke. Come disse la mia amica Silvana, in una di quelle sere rigorosamente-senza-uomini in cui si sparla un po’ di tutto e si esagera con i grappini (sì, fra donne si fanno anche queste cose, a volte), meglio dividerlo con il tennis che con le partite di calcio in tv tre sere alla settimana. O, peggio, con la commessa del negozio di abbigliamento del centro. Convengo.
Io in quanto a sport, a parte delle goffissime discese a spazzaneve tre o quattro volte l’anno, poco o niente. Anzi niente. Sono la classica tipa che grida istericamente agitando le mani quando la palla arriva un po’ troppo forte durante un’improvvisata partita di pallavolo sulla spiaggia. Oh beh, ognuno ha i suoi gusti. Tornando a Ricky, lui è sempre molto attivo, sempre molto abbronzato, sempre molto pettinato, sempre molto sicuro di sé. E lo descrivo così continuando a non trovarci nulla di male. Anche perché dopo averlo conosciuto meglio, nonostante numerose resistenze da parte mia a rivederci in città, diffidente primo per una mia storia precedente finita male e secondo perché mi dava l’impressione del tipo tutto muscoli e niente... ci siamo capiti... mi sono resa conto a poco a poco che in realtà lui sembra essere molte cose. Sembra ma non è. La sua passione per lo sport può farlo sembrare un manzo privo di sensibilità, ma è dolce, e si prende cura di me, ed è bello parlare con lui, anche se i nostri punti di vista sono spesso diversi. E forse è un bene, in fondo non c’è controprova che un partner perennemente sintonizzato sui tuoi gusti sia tutto rose e viole. Questo significa che a turno io devo ascoltare le potenti frequenze tachicardiche della musica techno che si spara in macchina e lui sorbirsi i cd di cantautori italiani le sere che passa a casa mia, per esempio. Oppure qualche volta io devo barattare l’ultimo film d’azione tutto cazzotti e sparatorie per gustarmi la volta seguente un bel filmone romantico che mi faccia uscire dal cinema con le guance rigate di lacrime.
E’ poi è onesto, e ha dei valori (e di questo parleremo un po’ più avanti). In fondo è una bella persona e, anche se a parole sembrerebbe riduttivo descrivere così l’uomo che si dice di amare, io credo che essere belle persone non sia cosa da poco, tutt’altro. L’amore vero, quello che deve durare tutta una vita, non può essere solo ardenti fiammate di passione, perché è risaputo che non possono bruciare a lungo. E che consumano le persone. L’amore vero è un caldo, continuo tepore che scalda il cuore quel tanto che basta a farti sentire il profumo della vita. Riuscendo a far sbiadire le paure (forse non riesce a farle sparire, ma neanche la passione lo fa) e facendoti sentire, nonostante tutto, in equilibrio col mondo. Almeno, così è come la vedo io.
La sua sicurezza e il suo modo di fare estroverso, poi, lo fanno sembrare un po’, come dire... un po’ fanfarone. Ma anche questa è una sensazione superficiale, perché non l’ho mai sentito vantarsi di nulla (dimenticavo, viene da una famiglia piena di soldi) se non di qualche performance sportiva, con gli amici in pizzeria. E nonostante io cerchi periodicamente di spiegare tutto ciò alle persone che mi stanno vicine, non sempre sortisco l’effetto desiderato. Solo per Sara io dovrei portarmelo immediatamente all’altare. Mio padre invece non vede di buonissimo occhio le sue incursioni in casa, quando scherza ad alta voce con mia madre, o ingaggia furibonde lotte sul divano con il mio fratellino minore (che stravede per lui) o pontifica scherzosamente a tavola su questo e quel politico. Naturalmente lo “scherzosamente” pare riesca a vederlo sempre e solo io. Mah...
Tornando al messaggio lasciato dal mio lui, mi dava appuntamento verso le otto e mezzo (questo voleva dire tra poco più di mezz’ora, quindi un tempo infinitamente breve per una donna che si sente da buttare dopo un’afosissima giornata di lavoro) per raggiungere la compagnia alla solita pizzeria e poi decidere dove finire la serata.
Innervosita dal breve tempo a mia disposizione decisi di volare di nuovo in bagno per una doccia ed un restauro indispensabili, quando la segreteria lanciò il suo terzo (ed ultimo) fischio. Subito dopo, il nulla. Nessuna voce, nessun rumore. Mi bloccai al centro del salotto, a disagio. “Qualcuno che ha trovato la segreteria inserita e ha preferito riagganciare”, avrei pensato in qualunque altra sera. Ma non quella sera. La segreteria scattò, dopo aver esaurito il suo muto messaggio, e il rumore amplificato dal silenzio della casa mi fece trasalire. Con i battiti che acceleravano (inspiegabilmente) nel petto, riavvolsi il nastro, feci avanzare velocemente i messaggi di mia madre e di Ricky e mi chinai con l’orecchio sull’apparecchio. Il silenzio ripartì e non era un silenzio. Non una mancanza di suono, per capirsi, ma il “rumore” del silenzio. Corrucciai la fronte per aguzzare... l’udito e quasi alla fine del nastro mi sembrò di sentire... un mormorìo, impercettibile e confuso. Guardai di lato: il volume della segreteria era al massimo. Riavvolsi il nastro e riascoltai, ancora e poi ancora. Non riuscivo a decifrare niente, poteva trattarsi addirittura di un difetto della cassetta. Il cuore mi rimbombava nelle orecchie.
Poi mi venne un’idea: feci sputare fuori la cassetta e la infilai, con mani non troppo ferme, nel piccolo rack stereo sul mobile in cucina. Rovistai freneticamente nei cassetti di casa fino a che non trovai le cuffie con cui, quando ero studentessa, ascoltavo i corsi di inglese. Le infilai e feci ripartire per l’ennesima volta la registrazione (senza troppo chiedermi cosa diavolo stessi facendo) alzando più possibile il volume: il fruscio del messaggio vuoto mi riempì la testa, poi, proprio alla fine, all’improvviso una voce sussurrò il mio nome.
Il nastro si fermò (con un TLAC assordante) e proprio in quel momento, mentre cominciavo a tremare senza riuscire a controllarmi, il campanello suonò due volte.
Era Ricky. Avevo ascoltato e riascoltato la segreteria per ben 35 minuti.
  
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