Serie TV > Supernatural
Segui la storia  |      
Autore: Lucy_lionheart    19/05/2014    3 recensioni
Secoli e secoli fa, la razza angelica e quella demoniaca sono cadute durante la loro ultima grande battaglia; i superstiti sono precipitati sulla Terra, mischiando il loro etereo al fisico, in attesa di essere nuovamente abbastanza forti per rinascere nella loro vera natura.
Anno 2014, Knightscore. Sotto la pelle della normalità cittadina, vivono i diversi. Sono uguali a noi, in tutto e per tutto, ma non appartengono alla razza umana. Tra di loro c'è anche Jimmy Novak, ventenne che ogni giorno sente sempre di meno di appartenere al suo nome e sempre di più a quello di Castiel, angelo di cui è l'incarnazione. Le doti che gli deriveranno da ciò lo condurranno ad un forzato isolamento, ma le cose inizieranno a mutare quando incontrerà Dean Winchester. In quel momento i pezzi di una scacchiera di cui non aveva mai pensato di far parte si muoveranno e si ritroverà coinvolto in un mondo che Knightscore non mostra, spezzato da guerriglie tra diverse bande organizzate di angeli, demoni e creature violente.
Castiel si ritroverà a lottare: per se stesso e per la vita che non aveva mai vissuto prima d'ora.
{ destiel }
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Balthazar, Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 1. Revolve.

















Jimmy Novak aveva da poco compiuto venti anni. Non c’erano stati però festeggiamenti particolari per quella nuova decade ottenuta: qualche chiamata, certo, e un regalo ricevuto pochi giorni dopo tramite corriere, un libro, a voler essere precisi, da parte del suo migliore amico.  Che era anche l’unico.
Vedendolo da una decina di passi di distanza, non era evidente nessuno motivo per la quale il ragazzo fosse poco avvicinabile, anzi: Jimmy aveva un bell’aspetto, composto da una fisionomia regolare un viso squadrato dove i colori –il blu acceso degli occhi, il castano scuro dei capelli e il leggero rossore delle labbra- si accostavano l’uno all’altro con una perfezione resa ruvida dalla barba che corta gli cresceva sulla mascella, creando su quel volto un’ombra un poco scura.
Certo, il suo non era una carattere che si potesse definire socievole; tutt’altro, Jimmy era chiuso e chiuse erano anche le sue labbra, guidate da una voce che era capace di non farsi sentire per ore e ore, forse anche per un giorno intero. Non era neanche avvezzo al ridere e neppure al sorriso, che esso fosse sarcastico o semplicemente soddisfatto. A chi se lo ritrovava di fronte e decideva di osservarlo, poteva apparire come un ragazzo più vecchio del dovuto, tanta era la serietà che gli costringeva il volto e aggrottava le sopracciglia scure, facendo risaltare ancora di più gli occhi grandi, da bambino.
Il problema di Jimmy viveva proprio lì, in quelle iridi di cielo. Ma questo nessuno che lo incrociasse lo poteva intuire, immaginare, pensare.
Lo sapevano solo lui, due sue conoscenze fidate e chi era come la ragazza che adesso sedeva davanti a lui, intorno al tavolo da pranzo.
« Allora.. puoi dirmi di nuovo come ti chiami?»
Lei abbassò lo sguardo sporco di lacrime secche. Dimostrava diciassette anni, forse sedici, e ogni cosa nel suo essere appariva come dissonante dal comune: i capelli spettinati, appiccicati ai lati del viso, le labbra tremanti e bluastre, il trucco colato e i vestiti rovinati, vecchi, o meglio… gocciolanti. Erano infatti le gocce quelle che scorrevano giù lungo la sua gamba sinistra, correndo fino alla caviglia e attraversando il collo nudo del piede, ciò che la giovane stava osservando.
« Per favore.» Ripeté Jimmy, con un tono profondo e calmo. « Serve che tu me lo dica.»
« Helena. »
Sussurrò lei, lasciando uscire fuori quelle poche lettere macinate dai denti che non avevano smesso di battere con violenza per un solo attimo. Jimmy la osservò ancora un altro po’, passando in rassegna tutti gli elementi di quel corpicino scosso, fino a fermare la sua attenzione sui segni rossi che, come una collana, giravano attorno al suo collo, nell’impronta malevola di due mani.
« Chi è stato a farti questo? »
Helena non rispose, ma tremò ancor più forte, gli occhi arrossati ricolmi di puro terrore. Jimmy, allora, batté piano l’indice sul quotidiano che stava in mezzo a loro, aperto sul tavolo.
« E’ come si dice qui? E’ stato tuo padre, Helena?»
« S.. S…» Non riuscì a finire di parlare, abbattuta da un singhiozzo che le fece saltare il petto verso l’alto e tossire via acqua sporca. A seguire non si pulì il viso, ma rimase con le mani premute sul petto, lo sguardo vuoto e impaurito.
« Te ne prego.» Pianse, alzando finalmente lo sguardo su Jimmy. « Hanno detto che puoi aiutarmi. Fallo, te ne prego! Io- io non ho fatto nulla!»
« So che sei innocente.» Disse il ragazzo, guardandola negli occhi intensamente. « Sei solo una vittima.»
L’adolescente ebbe al sentire quelle parole un sussulto di sorpresa, primo dopo una lunga serie di spaventi e tossi.
« D… Davvero?»
« Davvero, Helena.» Si fermò un attimo a prendere un respiro profondo. « Hai una seconda possibilità.»
Le labbra cerulee di lei si piegarono in un sorriso entusiasta a cui lui non rispose; poi un leggero soffio di vento irruppe ed  eruppe nella stanza.

Jimmy Novak fu di nuovo solo.

Restò in quell’esatta posizione, lo sguardo fisso sulla sedia di paglia intrecciata sui cui era stata seduta la ragazza, per qualche minuto, fino a quando un lungo sospiro non gli abbassò le spalle di una buona dose di centimetri e  tutto sé si abbandonò sullo schienale scomodo.
“E’ fatta”, pensò, e quel pensiero parve infondergli la forza necessaria per alzarsi e dirigersi verso il tavolo. Le mani raccolsero il giornale, appartenuto a tre giorni prima, e  sfilarono la pagina sulla quale era stato lasciato aperto. C’era, stampata molto in grande, la foto di una ragazza, presa da un ritratto in casa o forse dal profilo di facebook. Aveva i capelli puliti e ricci, lì, e il trucco era perfetto, ma nessuno avrebbe potuto negare che non si trattasse di colei che fino a poco prima era seduta nel salotto dell’appartamento di Jimmy.
Sopra di essa torreggiava, in caratteri scuri e evidenti, il titolo dell’articolo:

“ Padre affoga figlia adolescente.”

La notizia di cronaca nera urbana, poi, dava ulteriori dettagli di quell’episodio raccapricciante: l’uomo, quarantanove anni, divorziato, nel primo pomeriggio aveva fatto irruzione nel bagno, dove la figlia diciassettenne, Helena, quel giorno sotto la sua supervisione,  si stava pettinando i capelli.  Colto non da un raptus d’ira, ma dalla ragione di un agire programmato ormai da tempo, aveva prima tentato di strangolarla usando le proprie mani e poi, dopo averla indebolita, proceduto chiudendole la testa in un sacchetto di plastica e affogandola nel wc.
Ad attirare l’attenzione dei vicini –che a seguire riportavano sgomente e incredule testimonianze- erano state le urla della giovane e il suono ripetuto dello scarico.
Quali erano state le colpe di Helena? Essere figlia di un uomo che in realtà non era il suo vero padre biologico, certo, e altre mille piccoli, stupidi motivi per cui non meritava la fine che aveva avuto.
Jimmy  piegò con cura la pagina e si diresse verso la camera da letto, una piccola stanza adiacente al bagno che ospitava un armadio, un letto da una piazza e mezzo e una scrivania.  Il primo cassetto, quello che aprì, era ricolmo di mille simili dell’articolo che teneva tra le dita, articoli vecchi, altri recentissimi.
Venivano da lui da sempre.

Il primo spirito era venuto a parlargli quando aveva circa cinque anni; allora Jimmy non l’aveva identificato come tale, per lui era solo il signore strano che lo seguiva ovunque e che gli altri, per strane ragioni, non potevano vedere. Ne erano venuti anche altri, uno dopo l’altro, tutti volti e nomi diversi che in comune avevano due fatti: essere invisibili a tutti, fuorché lui, e chiamarlo con un altro nome. Castiel.
Raccontare la cosa ai genitori era servito a poco. Urlare e avere reazioni esagerate, invece, lo aveva fatto sedere sul primo divanetto dello studio di uno psichiatra infantile e, subito dopo, in ospedale. Ma da nessuno dei test risultava che il piccolo Jimmy era autistico, così come nessuna di quel milione di pillole colorate che doveva prendere aveva fatto andare via i signori invisibili. L’unica cosa che funzionava, per quello, era dire loro che potevano andare via.
Jimmy l’aveva scoperto quando, a sette anni, un uomo con un foro rosso in mezzo alla fronte lo aveva seguito dalle prime ore del mattino a quelle inoltrate della notte, in cui il bambino gli aveva urlato, esasperato, di andare via.
“ Posso?” era stata la risposta. Il Jimmy di allora l’aveva guardato con aria confusa e l’uomo aveva quindi spiegato: “Se sei tu a dirmelo, io posso andare via. E’ quello che voglio, andare via. Non voglio più stare qui. Ma solo tu puoi decidere”.
Da lì la situazione si era evoluta: ogni volta che uno spirito gli appariva davanti, Jimmy puntava il dito verso la finestra e con tono imperioso diceva “Puoi andare via!”, e lui se ne andava. Le cose erano migliorate: aveva fatto credere ai suoi genitori che non vedeva più nulla e tutto era passato, così le medicine erano diminuite e diminuite fino a cessare.
Peccato solo che una bugia come quella, tenuta da un bambino, non potesse durare più di molto.
Nel preciso momento in cui il cassetto venne richiuso con uno scatto, la tasca dei pantaloni di Jimmy iniziò a vibrare con enfasi. Il telefono venne recuperato in fretta e sempre in fretta lanciò uno sguardo al nome dell’emittente della chiamata, riconoscendo proprio ciò che si aspettava.
« Balthazar.»
« Oh, Cassie. Allora?»
Jimmy Novak, altresì Castiel, non batté ciglio sentendosi chiamare così. Piuttosto lanciò uno sguardo all’orologio sopra la sua testa e strinse i denti.
« Sono in ritardo.»
« Okay, ma non è questo che ti ho chiesto. Devo dire tutta la domanda o non è già facilmente intuibile?»
« Ho lezione tra dieci minuti. Devo scappare.»
Non diede tempo al suo interlocutore di ribattere e chiuse la chiamata, correndo verso la tracolla e la giacca. Mentre s’infilava quest’ultima, un trenchcoat che certo aveva visto giorni migliori, passò di fronte al lungo specchio inchiodato al muro del corridoio e davanti a esso si fermò qualche attimo. Gli occhi scivolarono sulla sua figura, dalla testa fino ai piedi, per poi risalire; la scrutarono con attenzione e si fermarono ad esplorare quelle stesse pupille e la pelle del volto che le circondava.  Nello specchio si rifletté l’amarezza che gli strinse le labbra un momento prima di fuggire via dal vetro e dall’appartamento.
Jimmy corse giù per tutti e quattro i piani di scale, evitando la vecchia ringhiera traballante, raggiungendo in un batter di ciglia il portone. Ma proprio mentre stava per aprirlo, l’istinto gli disse di voltarsi.
Timidamente affacciata dalla ringhiera, in piedi sul mezzo piano che aveva appena superato, c’era una bambina di circa sei anni, dalla pelle scura ed occhi grandi che lo erano altrettanto. Il petto infante e piatto era nudo, coperto solo dai capelli d’ebano e un collana che forse lei stessa aveva fatto, intrecciando piume e qualche piccolo ossicino d’animale; intorno alla vita aveva un gonnellino  cucito con pelle animale e con una stoffa semplice e ruvida. Era scalza e tendeva continuamente le caviglie nude in alto, alzandosi sulle punte.
Jimmy le sorrise, muovendo la mano nella sua direzione.
« Buongiorno, » la salutò, parlando a voce bassissima. « ancora qui, mh? »
La piccola pellerossa non rispose e si voltò, scappando via. I suoi passi non fecero il minimo rumore.
Atteso qualche minuto, Jimmy poté finalmente uscire.

Le strade di Knightscore City  erano quasi sempre piene. I turisti le affollavano in ogni stagione e ad ogni ora, camminando in gruppo dietro guide che sventolavano ombrelli o bacchette ricolme di fiocchi colorati, oppure avventurandosi di loro spontanea iniziativa e trasformandosi in più paia di gambe che muovevano passi incerti dietro enormi cartine geografiche. Andavano alla caccia dei più angoli storici, che, meravigliando chi non sapeva, spuntavano in mezzo ad edifici del ventesimo o del ventunesimo secolo, di giardini verdeggianti nella quale vivevano bianche statue di marmo e che si nascondevano dietro i grattacieli.
Più di molte altre città, Knightscore era stata resa dai suoi conquistatori una curata riproduzione dell’Europa.  I francesi che ai tempi l’avevano occupata avevano provveduto a spandere in ogni angolo possibile la loro cultura, portando però numerosi –e mai rivelati per orgoglio-  tratti e caratteristiche da quella della loro invidiata vicina Italia. Quando il luogo era passato in mano agli inglesi, l’avevano trovato un posto talmente piacevole che non avevano avuto voglia di cambiare nient’altro se non il nome.
Così i viaggiatori che la visitavano, potevano ora vedere una cattedrale le cui decorazioni erano indubbiamente all’italiana, ora una chiesa dove si affacciavano, rabbiosi, gargouille francesi e non mancava chi, puntiglioso, si fermava a dibattere se certe guglie fossero una copia di un palazzo fiorentino o di uno parigino.
La zona in cui abitava Jimmy era stata tirata su di sana pianta agli inizi dell’Ottocento. Attraversata solo da chi la popolava –per lo più studenti o vecchi signori che vi abitavano da chissà quanto- e turisti che avevano perso la strada, si trovava nella traversa di una grande via che, se seguita, portava dritta nel cuore del centro storico. Si trattava di un posto tranquillo, dove se qualcuno faceva rumore, era certo che fosse il bar a metà strada, oppure il gruppo di studenti un po’ troppo festaioli che stavano al terzo piano del palazzo di fronte a quello in cui viveva Jimmy.
Non negava di aver avuto un gran fortuna ( una delle poche capitategli, ma lasciamo perdere) a scovare l’appartamento che ora era suo: luogo calmo, vicino ai servizi indispensabili –un supermercato ed una farmacia-, al centro e al suo polo universitario. Certo, il prezzo dell’affitto era un po’ troppo alto se pagato da solo, ma non era che avesse un’altra scelta. Non lui, per cui ciò che aveva appena passato era all’ordine della quotidianità tanto quanto camminare verso il dipartimento di Lettere Antiche con un passo deciso e la cintura dell’impermeabile che batteva continuamente contro i jeans, o quanto fermarsi per attraversare la strada e veder passare, nel mentre, un uomo in bicicletta.
Succedeva ogni giorno; esattamente intorno a quell’ora, dall’angolo della strada arrivava quel tipo. Jimmy non aveva mai fatto caso al suo volto, perché quando lo vedeva passare era ormai già di spalle, ma ogni volta si soffermava a notare il bambino di pochi anni che stava seduto dietro di lui, in un piccolo seggiolino di plastica azzurra e a cui il guidatore, a gran voce, raccontava storie o canzoni. L’ultima volta che aveva sentito uno stralcio del loro discorso, l’uomo stava inventando una specie di storiella che altro non era che il testo di “Immigrant song”. Il bambino era troppo piccolo per capire, ma stava attento, attratto dalla voce dell’altro.  Davanti a quella scena, Jimmy si ritrovava ogni volta a sorridere e a perdere minuti preziosi che avrebbe dovuto recuperare camminando ancor più velocemente.
Erano ormai sette mesi che frequentava l’università locale e quindi sette mesi che non faceva ritorno alla sua vera casa. Sette mesi in cui aveva superato esami e visto arrivare nell’aula che il suo corso di laurea era solito occupare con più frequenza diversi professori. Erano cambiate le materie e gli insegnamenti, ma a parte ciò per Jimmy la lezione di quel giorno era stata identica a quella del primo. Si era seduto tra le prime file, dove i posti occupati scarseggiavano e aveva annotato sul block-notes le spiegazioni e le nozioni impartite, senza mai distogliere lo sguardo dalle pagine.  Durante l’intervallo, quando i suoi compagni fuggivano dalle aule e si ricolmavano la stanza di risate e chiacchiere e odore di caffè, lui rimaneva seduto, limitandosi a buttare uno sguardo al telefono.
Tutti, bene o male, avevano stretto più amicizie, formando gruppi più o meno vasti; tutti tranne Jimmy. Era capitato che qualcuno gli venisse a parlare, certo; spesso si era trattato di una qualche ragazza, che, preso coraggio, si era avvicinata e gli aveva chiesto il suo nome, osservata a distanza da un coretto di amiche. Jimmy in quei casi rispondeva, annuiva quando lei si presentava e, da lì a poco, la conversazione finiva col cadere e la poveretta col sentirsi a disagio.
 L’ultima volta che era accaduto la ragazza si chiamava Annie  e dopo qualche minuto aveva iniziato a passarsi le mani tra i capelli, chiedendo poi, con voce imbarazzata, se tra di essi vi fosse qualcosa, visto che Jimmy non faceva che fissarli con aria seria. Il ventenne aveva distolto lo sguardo e risposto in fretta che no, non c’era assolutamente nulla, abbandonando al silenzio la biondina.
In realtà qualcosa vi era eccome, ma non si trattava affatto di una foglia o un piccolo insetto: erano numeri, disposti in gruppi da due e separati da un punto.
 Una data.
Jimmy le vedeva aleggiare sopra la testa di chiunque fosse lì dentro, sulla testa delle persone che incrociava per strada, su quella dei suoi vicini. Alcune riportavano anni molto futuri, altre erano terribilmente vicine e gli facevano raggelare il sangue.  Era per colpa di queste che Jimmy restava in solitudine o non aveva invitato Annie a sedersi accanto a lui.

Non poteva fare amicizia con lei quando sapeva che esattamente tra quarantuno anni, tre giorni e otto ore spaccate sarebbe morta e che lui, oltre a non fare nulla per evitarlo, non avrebbe neanche potuto avvertirla.

« Per vostra fortuna, » disse con un tono più alto  il professore, facendo fermare penne e bocche, « la docente di storia antica non potrà essere presente. Le due ore di lezione successive a queste sono annullate.»
Si sollevò un coro di commenti festosi e sorrisi, mentre tutti gli studenti, rallegrati da quella bella notizia, si mettevano i giacchetti e raccoglievano in fretta e furia penne e quaderni, parlando quasi tutti di cosa andare a fare in quelle due ore libere in una giornata dal clima meravigliosamente soleggiato, una specie di preludio all’estate. Jimmy si limitò ad alzarsi e andare via, senza neanche rimettersi il trenchcoat, che mai si era tolto di dosso.
Facendosi docilmente spazio in una folla di persone, fumo di sigarette e numeri, raggiunse l’uscita, ma proprio quando il suo piede toccò l’ultimo gradino delle larghe scale in marmo, sentì una voce chiamarlo:
« Castiel! »
Riconoscendola dalla prima sillaba, si voltò immediatamente, rivolgendo un sorriso non troppo pronunciato alla ragazza dai capelli rossi e la carnagione lattea che gli si stava velocemente avvicinando, saltando due a due i gradini.
« Anna.» La salutò, rilassando i muscoli delle spalle quando gli fu accanto. Anna Milton era una delle due uniche persone di cui Jimmy –Castiel- si fidava;  non l’aveva mai fatto apertamente, ma non c’era dubbio che lei fosse la sua migliore amica. Si conoscevano dai tempi del liceo e insieme si erano trasferiti dalla cittadina di provincia in cui abitavano a Knightscore.  Anna si era inscritta al corso di laurea di Letterature Comparate e i momenti in cui la incrociava per i corridoi erano senza dubbio i suoi preferiti all’università.
« Come va?» Chiese, infilando la mano nella tasca dei jeans chiari che fasciavano le gambe sottili. « Balthe mi ha detto che stamattina avevi visite. »
« E’ raro che non ne abbia. » commentò Jimmy, lasciando vagare un poco gli occhi per poi tornare a lei. « Comunque si è tutto risolto. Digli che mi spiace di avergli attaccato in faccia. »
« Posso anche farlo, ma lo sai che continuerà a fare lo spocchioso e borbottare in francese fino a quando non sarai tu di persona a scusarti! »
Risero un poco entrambi su quella perfetta e veritiera immagine, Anna in modo divertito e Jimmy più pazientemente.
« A proposito!» Esclamò lei tutto ad un tratto, andando immediatamente a cercare qualcosa nella borsa capiente. La mano sinistra ne uscì dopo qualche minuto: stringeva un oggetto di pochi centimetri, dalla quale penzolavano due auricolari. Un mp3.
« Questo è da parte mia e di Balthe, per il tuo compleanno.»
Jimmy rimase qualche attimo con la mascella leggermente calata e dovette sbattere gli occhi un paio di volte prima di riprendersi dalla sorpresa.
« Non… non dovevate. » Riuscì a tirare fuori, la lingua accartocciata dall’imbarazzo. « Balthazar mi ha già fatto un libro e-»
« Sh, zitto! » Lo zittì Anna, mettendo il regalo nelle sue mani e una cuffia nel suo orecchio. « Quello serviva solo per farti avere qualcosa nel giorno del tuo compleanno. Ci abbiamo messo delle ere a scegliere che canzoni caricarci sopra.»
Jimmy sollevò l’angolo sinistro delle labbra in un mezzo sorriso. Conoscendo i due amici, poteva solo immaginare quanto tempo avessero passato a bisticciare su quali canzoni inserire e quali no, accusandosi a vicenda di scegliere secondo i loro gusti musicali e non quelli di Jimmy.
« Grazie.»
« Di nulla!» Rispose Anna, felice di vedere che il dono era stato accettato. « Ora devo scappare a lezione. Per la riunione facciamo come al solito?»
« Domani sera alle otto e mezza a casa di Balthazar?»
Domandò a sua volta. Anna annuì e buttò un occhio ai corridoi, riconoscendo alcuni dei suoi compagni rientrare.
« Scappo.» Avvisò, sventolando la mano e salendo di sbieco un paio di gradini, gli occhi sempre puntati su Jimmy. « Tu ascolta un po’ di musica mentre torni a casa! Tieni la testa occupata! Ciao!»
Jimmy ricambiò il saluto e seguì con lo sguardo la schiena dell’amica fin quando non sparì dietro l’angolo. Ancora con l’auricolare messo esattamente come l’aveva lasciato Anna, uscì dall’università e s’incamminò verso casa. Curioso di sentire cosa avevano preparato per lui, decise di seguire il monito lanciatogli e accese l’mp3, già impostato su riproduzione casuale. Un accordo di basso girò nelle sue orecchie.
Quella canzone l’aveva sentita l’ultimo giorno di liceo; era seduto nel chiosco di un bar, insieme a Balthazar e Anna, che era andata a comprare del gelato.
“ Si chiama Revolve” aveva detto l’amico, notando che aveva teso le orecchie in ascolto. “ E’ vecchia di qualche anno, non di più. Il gruppo ha fatto molto successo ultimamente.”
Jimmy mise tutta la sua attenzione sulle parole della prima strofa, attento e curioso, attirato.

" A revolution has begun today for me inside
The ultimate defence is to pretend
Revolve around yourself just like an ordinary man
The only other option is to forget "

Non fece in tempo a formulare un qualche pensiero personale su quelle prime parole, che la sua attenzione fu nuovamente colta da qualcosa.
L’uomo con la bicicletta gli era appena passato a fianco.
Non l’aveva mai incrociato due volte nello stesso giorno; forse perché mentre lui tornava dalla passeggiata, Jimmy era a lezione. Avrebbe voluto sorridere davanti a quell’immagine come faceva ogni volta, ma ad attirarlo fu ben altro.
Le date dell’uomo e del bambino stavano cambiando. I numeri vorticavano e vorticavano.
Quando si fermarono, con loro si fermò anche il cuore di Jimmy.
I due orologi segnavano un minuto e cinque secondi.

Prima ancora che la sua mente potesse reagire e i suoi occhi vedere il camion che arrivava alle loro spalle, le gambe di Jimmy scattarono in una corsa disperata.






















                                                                                                                                    ――― "   The evolution is coming,
                                                                                                                                     a Revolution has just begun. "
























____________________________________________________________________________________________________________________



Note dell'autrice.


Perché io sono furba e ovviamente inizio una long durante il periodo d'esami. Claps me.
Tralasciando la presentazione idiota, che dire? In questo primo capitolo ho voluto concentrarmi su Cas, anche se ho lasciato moltissime cose solo in una leggera sfumatura; non voglio svelare tutto e subito, proprio no!  Per chi si appassionerà -spero che succeda- ci sarà un po' da penare.
Ho intenzione di dare ad ogni capitolo il nome di una canzone: in questo caso si è trattato di quella che è per me la chara-song di Castiel in questa mia au: "Revolve" dei 30 seconds to mars ( sono una echelon, mea culpa! )
Anche il titolo della fanfic stesso riprende una canzone degli U2, "Vertigo" che trovo adattissima con tutta la storia. ♥
Come penso si sia capito, la città in cui si svolge la storia è inventata di sana pianta, ma è totalmente ripresa da Firenze, nella quale al momento sto vivendo per via dell'università ( yeeeeeah, vita da fuorisede )!
Un ringraziamento speciale va al signore con la sua bicicletta che mi passa davanti ogni mattina e che racconta episodi di storia toscana, un po' boccacceschi e un po' danteschi, al suo bel bambino. Sappi che tutto questo è merito tuo e che tuo figlio è adorabile!
Infine, non so quando aggiornerò; come ho detto ho gli esami e per questo non sarò per nulla regolare fino a luglio e me ne dispiace-! C'è di buono che ho già tutta la storia delineata in testa e quindi non dovrei avere momenti morti, ahahaha!
Che dire? Spero di aver incuriosito qualcuno al punto di portarlo a commentare, preferire, ricordare o seguire questa cosetta partorita in un pomeriggio fiorentino e in un viaggio di tre ore in treno.

Un bacio-!
See-Ya!


_lucy
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Supernatural / Vai alla pagina dell'autore: Lucy_lionheart