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Autore: Beauty    21/05/2014    3 recensioni
Cosa succederebbe se le principesse delle favole vivessero nel mondo reale?
A Garden Hill, vivono vite differenti Blanche (Biancaneve), Evelyn (Cenerentola), Jasmine, Ariel, Annabelle (Belle), Caroline (la Bella Addormentata), Esmeralda, Marion (Lady Marian), Roxanne (Cappuccetto Rosso), Penn (Rapunzel) e le sorelle Elsa e Anna. Vite comuni, fra lavoro, università e amici, con i vari problemi, i vari sogni e le varie speranze. Una festa di Halloween in cui niente andrà per il verso giusto farà incrociare queste dodici vite, riportandole sulle tracce di un omicidio dietro al quale si celano storie dimenticate e loschi personaggi, dove nulla è come sembra e che, apparentemente, sembrano collegate all'azione del serial killer che terrorizza Garden Hill, da tutti conosciuto come "il Lupo". E, a mano a mano che le cose si faranno più complicate e pericolose, il lieto fine sembrerà essere sempre più lontano...o forse no?
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 5

 

C’era una volta (quarta parte)

 

There’ll be actual real live people

It’ll be totally strange

But wow, am I so ready for this change.

Cause for the first time in forever

I’ll be dancing through the night.

Cause for the first time in forever

I won’t be alone.

 

[Kristen Bell, For the first time in forever]

 

Villa von Schneider, Gillyflower Avenue n. 26, esterno

 

Evelyn varcò il cancello della casa dei von Schneider che mancavano cinque minuti a mezzogiorno e mezzo. Era in perfetto orario, ma aveva rischiato di fare tardi e di consegnare il pranzo freddo perché Tamara aveva fatto la spia dall’Ape Regina, e non appena Lucrezia aveva saputo che il figlio dell’imprenditore austriaco assassinato era stato al Grand Hotel si era scapicollata fuori dal suo ufficio ed era entrata nelle cucina come se fosse stata Willy Coyote all’inseguimento di Beep Beep. Era stata una scena che aveva avuto anche del comico, in quanto la signora Marsh aveva lo sguardo spiritato e continuava a guardarsi in giro come se si aspettasse un attacco nucleare da un momento all’altro. Aveva preso a saltellare istericamente intorno al tavolo dove Marge stava triturando le verdure sbraitando che avrebbe licenziato tutti quanti se non avessero consegnato il pranzo a Villa von Schneider in orario, che doveva essere tutto perfetto e che se solo qualcuno dei vicini avesse osato lamentarsi lei…

In genere le minacce di Lucrezia erano sempre in grado di ridurre tutti alla sottomissione – nonostante si tendesse a pensare il contrario, la sua matrigna manteneva sempre le promesse, in ogni senso –, ma quella visione era stata talmente assurda che Jack e Pavel avevano dovuto uscire dalle cucine in tutta fretta e andare a nascondersi in uno dei bagni per sfogare tutta la loro ilarità senza essere visti, e Marge si era morsa la lingua per non scoppiare a ridere in faccia alla proprietaria.

Comunque, quella notizia non aveva fatto altro che inasprire ancora di più il carattere di Lucrezia, la quale aveva sfogato tutto il suo nervosismo su Evelyn. Ora la ragazza si ritrovava non solo con le mansioni di tutti i giorni e in aggiunta anche il dover aiutare a preparare il salone da ballo per sabato sera, ma le toccava pure consegnare di persona il pranzo a casa von Schneider.

Non l’aveva mai fatto – consegnare i pasti a domicilio in genere era compito di Pavel –, ma non era per quello che era preoccupata: anche se era infantile, dopo la figuraccia di quella mattina avrebbe voluto evitare di incontrare di nuovo Sebastian von Schneider. Era sicura che non appena se lo fosse ritrovato davanti sarebbe avvampata fino alla radice dei capelli e il ricordo della sua gaffe l’avrebbe perseguitata fino a che non fosse uscita da quella casa.

Il giardino della villa era sorprendentemente ben curato, sebbene si notasse che fosse trascorso del tempo dall’ultima volta che qualcuno aveva abitato in quella casa: Evelyn non aveva trovato una selva di erbacce e piante rampicanti come si era aspettata, ma diversi giardinieri erano al lavoro per estirpare le ultime spine di rovi o sostituire le piante secche che spuntavano qua e là. Poco più in là del cancello sorgeva un labirinto costruito da siepi, e ancora più avanti vi era invece un campo da tennis privato, a pochi metri da una fontana che, almeno per il momento, non faceva zampillare acqua. A Evelyn tornò alla mente la descrizione presente in un romanzo italiano che suo padre le aveva regalato a quindici anni, di ritorno da un viaggio a Roma, Il giardino dei Finzi Contini. E a pensarci bene, Sebastian von Schneider le aveva ricordato molto l’Alberto del libro.

Passò velocemente accanto a due giardinieri che stavano chiacchierando con una donna con addosso una divisa da cameriera, venendo ignorata, e proseguì spedita sino alla porta d’ingresso.

 

Ospedale The Yellow Lily, Garden Hill

 

Marion entrò nel reparto con ancora la sigaretta accesa in bocca, venendo prontamente redarguita da un infermiere sul fatto che non si potesse fumare là dentro. La ragazza lo sapeva, ma le era passato di mente: spense la sigaretta di malavoglia, gettandola in un cestino della spazzatura.

Aveva iniziato a fumare quando aveva sedici anni, poco dopo che zio Richard era stato ferito ed era entrato in coma. Era stato un periodo d’inferno, quello: zia Prudence non faceva altro che piangere dalla mattina alla sera, e a complicare ancora di più le cose ci si metteva zio John che, oltre a essersi accaparrato la proprietà delle banche del fratello, non faceva altro che tormentare la cognata e litigare con lei su chi dovesse prendersi cura della nipote. Quanto a lei…beh, non sapeva che fare: non era in grado di aiutare la zia, le mancava zio Richard, e non voleva assolutamente andare a stare con zio John. La notte dormiva pochissimo, e finiva sempre con lo svegliarsi in lacrime, tanto che per farla stare buona zia Prudence si era ridotta a darle della camomilla e dei sonniferi per farla riposare, ma con scarso successo. Se fosse andata avanti così, avrebbe finito per avere un esaurimento nervoso.

Era stato per quello, credeva, che aveva iniziato a fumare. Lo supponeva, almeno, dato che non ricordava con esattezza il perché avesse cominciato. Forse non l’aveva neppure deciso consciamente. Un pomeriggio stava tornando a casa da scuola e si era trovata di fronte a un negozio che vendeva giornali e tabacco; diverse sue compagne di classe fumavano e, anche se Marion sapeva che lo facevano solo per sentirsi grandi, aveva letto che le sigarette potevano avere anche un effetto antistress. Non se n’era neppure accorta, e nel giro di due minuti si era ritrovata di fronte al commesso con in mano tutti i pochi spiccioli che aveva in tasca, chiedendo un pacchetto di Marlboro e un accendino.

La prima sigaretta era stata…strana. Marion aveva avvertito un bruciore intenso alla gola e ai polmoni, gli occhi le lacrimavano, ma l’aveva fumata tutta, seduta su una delle panchine dei giardini pubblici di Garden Hill. Aveva tossito e le era rimasto un sapore amaro in bocca, ma ne aveva accesa un’altra, e poi un’altra ancora: arrivata alla quarta sigaretta, si era sentita quasi bene, rilassata e serena come non lo era da giorni, e per un attimo si era anche convinta che sarebbe andato tutto per il verso giusto, che zio Richard si sarebbe risvegliato presto e che ogni cosa si sarebbe aggiustata per il meglio.

Non era stato così, naturalmente, ma da allora lei non aveva più smesso di fumare. Non era accanita come molte altre persone che conosceva, anzi, trascorreva anche una settimana di fila senza accendere una sigaretta, ma quando era nervosa, triste, o qualcosa andava male, non riusciva a resistere, e faceva fuori anche un intero pacchetto in una giornata.

Percorse il lungo corridoio sentendo il rimbombo dei propri tacchi sul pavimento come se stesse camminando sul vetro. Il reparto dove zio Richard giaceva da dieci anni era di gran lunga il più silenzioso di tutto l’ospedale, forse anche più di quelli oncologici: c’erano pochi infermieri e tutti scarsamente affaccendati, a meno che non si trattasse di lavare i malati o sistemare qualche flebo: d’altronde, che esigenze potevano avere delle persone che dormivano?

Proprio così, dormivano. Marion si era abituata a pensare che, in quei dieci anni, Richard King non avesse fatto altro che dormire: un sonno lungo e profondo, ma dal quale non era certo che si potesse risvegliare. Le prime volte, quando lei e la zia andavano a trovarlo, la speranza che potesse riaprire gli occhi era più viva di adesso, ma ogni volta Marion usciva dall’ospedale in lacrime. Non le era mai piaciuto quell’ambiente, con le pareti asettiche e l’odore di disinfettante, e ancora di meno le piaceva dover sfilare di fronte a tutte quelle camere dai cui vetri non vedevi altro se non persone distese a letto con gli occhi chiusi, persone che dormivano da chissà quanto tempo, e chissà quando e se si sarebbero risvegliate. No, gli ospedali non le piacevano, ma credeva che su ciò avesse influito anche il suo passato: era stato in un ospedale che si era risvegliata a otto anni, era stato in un ospedale che le avevano comunicato che mamma e papà non c’erano più, in ospedale che aveva pianto da sola fino a che gli zii non l’avevano portata via. L’ospedale era dolore, niente di più e niente di meno.

Marion raggiunse velocemente la stanza di zio Richard: era una delle ultime in fondo al corridoio, e il banchiere King era l’unico paziente sistemato all’interno di essa. La ragazza bussò contro lo stipite della porta aperta, più per abitudine che per altro, e fece un istintivo sorriso che l’uomo non vide.

Richard King era un uomo di quarantasette anni, ancora tutto sommato giovane, con un viso gentile incorniciato da dei capelli castano chiaro e una barba leggera e curata, ma il suo stato l’aveva reso pallido e con le occhiaie nere perennemente stampate sotto gli occhi chiusi. Un tempo, ricordò Marion, quegli occhi erano castani e sempre allegri: suo zio non aveva nulla a che fare con il prototipo del banchiere serio e senza scrupoli come quelli che se ne vedevano nei film – e come di fatto era anche zio John, se si ometteva quel serio; prima che gli sparassero, e quando lei era ancora una ragazzina, lui era l’anima della famiglia, e non riusciva a risultare severo neppure quando indossava il completo con giacca e cravatta neri e imbracciava la ventiquattrore per andare in ufficio. Era un tipo allegro, solare, sempre con la battuta pronta ma al contempo sapeva essere molto autorevole, senza tuttavia incutere paura o ricorrere a minacce. A Marion piaceva stare con lui, così come con zia Prudence: ma se lei era quella con cui poteva parlare di tutto, quella che la coccolava e le rimboccava le coperte prima di addormentarsi, quella che accorreva quando piangeva o aveva avuto un incubo, zio Richard era un bonaccione, quello con cui potevi ridere e scherzare ma nel contempo anche quello su cui potevi contare. Era molto diverso da zio John: se lei combinava qualche marachella o prendeva un brutto voto, il secondogenito subito alzava la voce o tentava di allungarle uno schiaffo, mentre invece suo fratello maggiore risolveva sempre le cose con calma. Di fronte a una disobbedienza, la faceva sedere sul divano e le spiegava dove aveva sbagliato e perché non doveva fare più una cosa del genere; se tornava a casa con un brutto voto, invece di sgridarla o metterla in punizione cercava di darle una mano a comprendere quali errori aveva commesso e fare in modo di non ripeterli.

Marion pensava sempre che sarebbe stato un ottimo genitore, insieme alla zia, se la loro bambina non fosse morta dopo poche ore che era venuta alla luce.

- Ciao, zio!- salutò con allegria simulata, afferrando una sedia e ponendola accanto al bordo del letto, prima di accomodarsi.- Sono Marion.

Parlava spesso con lui, anche se non le poteva rispondere. I medici avevano detto a lei e alla zia che se un malato in stato comatoso aveva qualcuno che chiacchierava con lui, allora aveva il 10% di possibilità in più di svegliarsi rispetto ad altri che invece non avevano nessuno. Finora non era accaduto nulla ma, se Marion all’inizio faticava a comunicare con lui, e anzi scoppiava a piangere dopo poche parole senza risposta, ora le veniva abbastanza facile conversare.

- Scusa se non sono venuta l’altro giorno, ma…beh, lo sai, fra il lavoro, l’università e tutto il resto, quasi non riesco nemmeno a respirare!- proseguì, prendendogli la mano.- Oggi mi hanno rubato la borsa, sai? Un maledetto su una moto…sono andata dalla polizia con Annabelle, sai, quella mia amica, te ne avevo parlato…ma mi hanno detto che mi devo rassegnare…- si umettò le labbra, pensierosa. Quello non era esattamente il migliore argomento di cui conversare, soprattutto visto e considerato che si era sempre imposta di parlargli solo di cose allegre. Cambiò velocemente discorso.- La zia sta bene. Anche il suo lavoro procede alla grande, è sempre piena di pazienti…presto dovremo mettere delle brande in casa, ogni volta che entro trovo sempre qualcuno in attesa in salotto!- fece una breve risata.- Ha detto che verrà da te stasera, dopo che avrà terminato. Ha una nuova pettinatura, sai? Si è decisa a togliersi quell’orrenda permanente, e ora ha i capelli lisci che porta sempre sciolti sulle spalle. Le stanno infinitamente meglio secondo me. Appena la vedo dovrò parlarle del vestito che vorrei indossare…ah, non te l’ho detto, c’è una festa di Halloween sabato prossimo! Visto che devo andarci, ho chiesto anche ad Annabelle di venire…

 

Negozio Arendelle, Orange Blossom n. 7

 

La signora Woods si era presentata al negozio per ben tre volte in due giorni, e quella era la quarta. Anna rimase in disparte in un angolino dietro al bancone, con le braccia incrociate, vedendola andare via salutando cordialmente e raccomandandosi di non mancare sabato sera.

Beh, era proprio in quell’ultimo punto che giaceva il problema.

Helen Woods era uscita dall’Arendelle carica di borse e pacchetti, tutti ricolmi di decorazioni che sarebbero servite ad addobbare il salone da ballo del Grand Hotel per la festa di Halloween sabato sera. Era passata al loro negozio almeno una decina di volte in quell’ultima settimana, si era intrattenuta a chiacchierare con la loro madre e aveva lasciato loro quell’invito per sabato sera. Anna sapeva che lo aveva fatto solo per educazione, perché aveva svaligiato mezzo negozio per le decorazioni, non certo perché lei e la sua famiglia facevano parte dell’élite di Garden Hill. Ma non gliene fregava niente. Lei a quella festa ci voleva andare…con o senza sua sorella.

Elsa era in piedi dietro al bancone, e stava aiutando sua madre a rimettere a posto i residui di carta colorata con cui avevano avvolto i pacchetti della signora Woods. C’era una lieve tensione che aleggiava nell’aria, e tutt’e tre le donne della famiglia Snow se n’erano accorte. Attendevano solo che la bomba scoppiasse.

Anna pestò un piede a terra.

- Allora?- incalzò, rivolgendosi a sua sorella.- Che hai intenzione di fare? Chiuderti in camera e piangere come fai di solito?

- Anna…- sibilò Angela Snow, provando a redarguirla, ma la ragazza non si fece intimidire.

- Anna un corno! Perché devo sempre essere io quella che fa le spese di tutto, in questa famiglia?!

- Se vuoi, tu puoi andarci - mormorò Elsa, sempre così dannatamente docile e gentile.- Non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo essere in due…

- Lo so, ma purtroppo sono l’unica a pensarla così!- Anna marciò fino al bancone, piantando i palmi delle mani sul ripiano e ritrovandosi con il volto a pochi centimetri da quello di sua sorella.- Ti prego, Elsa! Perché devi sempre rendere tutto così difficile? E’ solo una festa, non ti farebbe altro che bene!

- Anna, basta…- s’intromise Angela, autorevole.- Anna, se tua sorella non se la sente allora non possiamo costringerla.

- Ma se lei non ci va, vuol dire che nemmeno io posso! Mamma, uffa! Ma che regola stupida! Ho diciotto anni, posso uscire una sera anche senza di lei…

- Nessuno ti ha dato il permesso di andarci, comunque, con o senza tua sorella. Devo ancora parlarne con tuo padre…e, Anna, credimi, a diciotto anni non si è ancora abbastanza maturi da…

- E lo sarebbe lei, matura, che a ventuno anni non fa altro che piangere e deprimersi?

- Anna!- strillò la signora Snow, a metà fra lo scandalizzato e il furioso, ma sua figlia maggiore non sembrò essere troppo arrabbiata con la sorella: Elsa si afferrò le spalle con le mani, incrociando le braccia al petto, quindi chinò il capo e abbandonò silenziosamente l’area dell’Arendelle adibita al pubblico, correndo verso la porta accanto. Anna la seguì a ruota, un po’ per non doversi sorbire l’ennesima ramanzina della madre e un po’ perché stava iniziando a sentirsi leggermente in colpa: ma non era una novità. Qualunque discussione con sua sorella si concludeva ormai da anni in quel modo, con Elsa che assumeva l’aria di un cane bastonato e lei che si sentiva uno schifo di persona.

La rincorse: Elsa aveva superato anche lo stanzone adibito a magazzino, e ora aveva raggiunto il cortile sul retro del negozio che faceva un tutt’uno con il giardino di casa loro, e aveva cominciato a giocare con Olaf, il loro cane, un pastore maremmano bianco come la neve e con la vivacità di un ciclone.

Olaf scondinzolò alla vista della padroncina, distendendosi quindi sull’erba e cominciando a rotolare sul dorso. Elsa gli grattò la pancia come piaceva a lui, ridacchiando.

Anna le si avvicinò.

- Ehi, Elsa…- chiamò, piano. La maggiore delle sorelle Snow sollevò il capo, puntando gli occhi in quelli della minore. Occhi azzurri, di un azzurro pallido, molto diversi da quelli di Anna. Ma d’altra parte, loro erano talmente diverse che non sembravano neppure sorelle: Elsa era bionda, alta e slanciata, mentre lei era piccola di statura, con un fisico non grasso ma comunque più formoso, e aveva gli occhi castani come i capelli. L’una somigliava più al padre, l’altra alla madre. E lo stesso valeva per il carattere: come l’Artico e l’Antartico.

- Scusa - le disse la sorella, freddandola. Anna si sentì ancora più colpevole: era lei quella che avrebbe dovuto scusarsi, non Elsa.- Scusa, Anna. E’ che…non so se me la sento.

- Ma perché? E’ solo una festa!- l’egoismo riprese il sopravvento.- Che male può farti?

- Non mi trovo a mio agio in mezzo alle persone che non conosco.

- Ma ci sarò anch’io! E poi…come pensi di superarla questa paura, se non vedi mai nessuno?

Elsa sospirò, continuando ad accarezzare Olaf. Anna s’inginocchiò accanto a lei, fissando l’erba. Si sentiva una maledetta egoista, ma cercava di ripetersi che, in fondo, se insisteva era anche per il bene di sua sorella. Supponeva.

Il punto era che…da anni, ormai, non riusciva più a capire cosa facesse stare bene Elsa e cosa invece no. Ogni volta che le proponeva qualcosa di nuovo, sua sorella rifiutava sempre, qualunque cosa fosse, e spesso a farne le spese era anche lei: sua madre Angela, ma soprattutto suo padre, Robert Snow – che era un avvocato penalista – erano dei bravi genitori, ma molto ansiosi, e nonostante Anna avesse già diciotto anni erano restii a lasciarla uscire senza sua sorella. Che da parte sua se ne stava sempre chiusa in casa.

Elsa era depressa. Letteralmente. No, beh, non proprio depressa: se così fosse stato, avrebbe preso psicofarmaci e roba simile, sarebbe stata in cura in qualche clinica, ma non era il suo caso. Comunque, che sua sorella avesse dei problemi era chiaro come il sole. Erano anni che era in quello stato, a essere precisi da quando lei aveva otto anni e Anna solo cinque. Prima, ricordò la ragazza, Elsa era un tipo sì timido e riservato, ma comunque allegro e giocherellone. Loro due si divertivano spesso, insieme.

Poi, un giorno…più nulla. Così, all’improvviso, senza alcun tipo di avvisaglia. Elsa aveva cominciato a non parlare più, a evitare i contatti con la gente e con lei, a malapena stava insieme a mamma e papà. Aveva addirittura preteso di non dormire più nella stessa stanza con la sorellina minore, e con quel gesto aveva come alzato un muro, una barriera invisibile fra loro due. E fra lei stessa e il resto del mondo.

Con il tempo, Elsa aveva preso a uscire sempre meno di frequente, e a tutt’oggi metteva piede fuori casa solo due volte la settimana: il sabato pomeriggio, per andare a fare la spesa con la mamma, e il giovedì sera, giorno in cui era fissato il suo appuntamento con la psicologa. Aveva preso il diploma con il massimo dei voti – era una ragazza intelligente, d’altronde –, ma aveva avuto troppa paura per affrontare l’università, e così aveva finito con il lavorare anche lei all’Arendelle, il negozio di famiglia che vendeva decorazioni, sotto l’ala vigile e protettiva di mamma e papà. Né Angela né Robert avevano fatto molto per spronarla a reagire, anzi, avevano accettato il cambiamento della loro primogenita tutto sommato con passività, tanto che ad Anna spesso pareva quasi che l’assecondassero.

Elsa non aveva mai spiegato il motivo di un tale cambiamento, non a loro almeno. A dire la verità, l’unica persona in grado di farla parlare un po’ era la dottoressa King, la psicologa che l’aveva in cura da quando aveva dodici anni: lei sembrava la sola con cui Elsa sembrava confidarsi, tanto che al termine di ogni seduta sua sorella appariva più serena, anche se quest’effetto non durava a sufficienza fino al giovedì successivo.

Anna si riscosse. Il pensiero della dottoressa King le aveva fatto venire un’idea.

- Perché non ne parli con la strizzacervelli, se non sei sicura?- propose.

- Non chiamarla così!- protestò Elsa, scoccandole un’occhiataccia.

- Va bene. Scusa. Comunque…lei saprà certamente che cosa è meglio per te, no?

(Ti prego, ti prego, ti prego, fa’ che funzioni…!)

Elsa non disse nulla, ma dalla sua espressione si poteva intuire che stesse prendendo in considerazione quella possibilità. Anna si trattenne dal ghignare di trionfo: sua sorella letteralmente venerava la dottoressa King, era sicura che, se lei le avesse ordinato di smettere di respirare, Elsa non ci avrebbe pensato due volte a ubbidirle.

La maggiore delle sorelle Snow sospirò, facendo un’ultima carezza a Olaf.

- D’accordo. Ci penserò.

 

Villa von Schneider, Gillyflower Avenue n. 26, interno

 

Sebastian si appoggiò al bordo della scrivania, sospirando impercettibilmente e chiudendo gli occhi, con la cornetta del telefono premuta contro l’orecchio. Aveva mal di testa, e le tempie gli pulsavano come tamburi. La notte precedente non aveva chiuso occhio, neppure per un attimo: quando era andato a letto era stanco morto, distrutto, e si era coricato più presto del solito, ma non era riuscito a dormire.

Il ricordo di suo padre, della preoccupazione di quando, a notte inoltrata, non era tornato a casa e neppure rispondeva al telefono, e di quello che era accaduto dopo che lui e Grimilde avevano chiamato la polizia. Hans von Schneider non era mai stato un padre troppo presente: amorevole, certo, affettuoso, aveva cresciuto lui e sua sorella senza far loro mai mancare nulla, ma né Sebastian né Blanche potevano dire di conoscerlo troppo bene. E forse nemmeno la stessa Grimilde, che pure lo aveva sposato, o la prima signora von Schneider, finché era stata in vita.

Hans trascorreva tutto il giorno fuori casa, spesso usciva la mattina presto ancor prima che il resto della famiglia fosse sveglio, e rientrava a casa la sera, tardi, magari anche alle dieci o alle undici di sera. Sebastian si chiedeva spesso come facesse a reggere quel ritmo: naturalmente, sapeva che essere il proprietario e il direttore di una catena di aziende come lo era suo padre era impegnativo, tanto più che la Von Schneider & Co. era un’associazione molto vasta che si estendeva su tutti gli Stati Uniti, oltre che in Austria, la loro patria natale. Anzi, spesso Hans stava via per lunghi periodi, proprio a Vienna, dove si trovava la sede centrale. E adesso, proprio per questo, Sebastian si domandava se non fosse il caso di prendere armi e bagagli e trasferirsi definitivamente là: d’altronde, né lui né quel che restava della sua famiglia avevano molto a che fare con Garden Hill e gli Stati Uniti.

Forse a Grimilde sarebbe piaciuto tornare in Italia, dato che era il suo Paese d’origine; Blanche, era quella che aveva meno radici di tutti: fino a dieci anni, così come lui, aveva studiato in casa, essenzialmente in Austria, ma spesso era al seguito suo e di Hans in qualche viaggio d’affari; poi, durante l’adolescenza, aveva cambiato tre licei, prima a Londra, poi a Berlino, fino a diplomarsi nuovamente a Vienna. Aveva frequentato l’Università della Sorbona, in Francia.

Blanche aveva vissuto i suoi ventidue anni da vagabonda, forse anche più di lui e, a quel che ricordava, non se n’era mai lamentata: non aveva mai stretto grandi rapporti di amicizia con le compagne di scuola, e anche i suoi – seppur numerosi – fidanzati e cotte amorose non erano mai durati tanto, né lei gli era mai sembrata troppo presa dallo scapestrato di turno. A Blanche piaceva viaggiare, tanto che dopo la laurea aveva puntato i piedi per trascorrere un anno a Parigi. Quando ne era tornata era entusiasta, forse le sarebbe piaciuto tornarci.

- Nessuna novità?- domandò alla cornetta.

- No, per ora nessuna. Stiamo continuando con le indagini, ma ci vorrà tempo.

- Ho capito. Vi prego, non archiviate il caso.

- Non si preoccupi, signor von Schneider.

- D’accordo. Grazie, commissario.

Riattaccò. Il commissario Torrance di Garden Hill era stato molto gentile, e gli era sembrato che fosse anche competente nel suo campo, ma ciò non toglieva che non era detto che riuscisse ad arrestare l’assassino di Hans. E poi, volenti o nolenti, presto o tardi avrebbero dovuto lasciare Garden Hill.

Erano lì solo perché suo padre aveva espresso la volontà di essere sepolto in quella cittadina sperduta nel nulla. Che cosa lo legasse a Garden Hill, Sebastian non lo sapeva, né si era mai curato di approfondire la questione: l'ultima volta che erano stati in quella città era stato in occasione del matrimonio di Hans con Grimilde, e sebbene l'evento fosse stato lieto, la serata si era conclusa in maniera a dir poco funesta, con un incendio scoppiato in una delle camere del Grand Hotel e uno degli invitati ferito gravemente.

Qualcuno bussò alla porta. Sebastian sollevò il capo di scatto, concedendo il permesso di entrare.

Una delle ragazze alla pari che Grimilde aveva assunto temporaneamente affinché li aiutasse durante il loro soggiorno si affacciò alla porta.

- Signor von Schneider, è arrivata la ragazza dell'albergo con il pranzo.

 

Palestra The Three Lilies, Garden Hill

 

- Complimenti, ragazzina, anche oggi in ritardo!

- Scusa, la baby-sitter non arrivava più...- bofonchiò Esmeralda di malavoglia, tirandosi su la tracolla della borsa e passando velocemente a un imbronciatissimo Gringoire, il proprietario della palestra dove lavorava. L'uomo si limitò a scoccarle un'occhiataccia, cosa che a Esmeralda fece ricordare la situazione a dir poco precaria in cui si trovava. In genere ci voleva ben altro per zittirla, non certo lo sguardo truce del primo idiota di passaggio, ma il suddetto idiota in quel caso era anche il suo capo e, sospettava, se la teneva lì era solo perché si sarebbe sentito troppo in colpa a licenziare una con un bambino piccolo da mantenere.

In ogni caso, meglio non tirare troppo la corda. Gringoire le ricordava ogni giorno che la teneva lì solo per carità cristiana – e anche per spiarle il fondoschiena mentre insegnava, Esmeralda l'aveva visto –, ci voleva un niente a buttarla fuori a calci.

E lei non era nelle condizioni di perdere quel lavoro, non con Daniel di cui prendersi cura e tutto il resto. Se fosse stata lei sola, si sarebbe sentita meno in colpa a contare sull'aiuto di Alain e Chase, e avrebbe benissimo potuto tirare avanti con il solo stipendio del Topsy Turvy e con quel poco che racimolava facendo le pulizie alla vicina del piano di sotto.

Ma con Danny, beh, era tutta un'altra musica.

Esmeralda entrò di corsa della sala dove teneva lezione, salutando con un urlato buongiorno! le sue allieve, sette ragazze che in quel momento o stavano chiacchierando o facevano stratching. Chiese a una di loro di inserire il CD nella radio, mentre lei abbandonava il borsone in un angolo e si toglieva la giacca.

Si pose di fronte allo specchio. Quel giorno indossava dei pantaloni di cotone rosa chiaro e un top bianco che metteva in risalto la sua pelle scura. Si sistemò i capelli con una fascia fucsia nell'attesa che la musica partisse. Non c'era bisogno di spiegare nulla alle ragazze, l'avevano già provato diverse volte nei giorni precedenti così, quando la radio cominciò a suonare Mambo di Helena Paparizou, Esmeralda non dovette fare altro che cominciare a ballare, e tutte le altre seguirono i suoi passi.

Ringraziava spesso di essere così brava. Ballare era l'unica cosa che le fosse mai riuscita bene, così, senza che nessuno glielo avesse mai insegnato, e inaspettatamente quella dote si era rivelata anche un ottimo mezzo per sopravvivere. Lei non aveva nemmeno preso il diploma, e in una città come Garden Hill, dominata dai ricchi, di posto per quelli come lei ce n'era poco.

Una guida, non ce l'aveva mai avuta: non sapeva neppure chi le avesse dato quel nome che faceva impazzire tanto le suore dell'istituto dov'era cresciuta. Non erano cattive persone, la Madre Superiora e le altre, ma là dentro erano così tanti bambini che a malapena avevano tempo a sufficienza per tutti.

Esmeralda non poteva dire di essersi trovata male, per tutto il tempo in cui era stata lì, anche se forse aveva sentito la mancanza di una vera famiglia, e invidiava tutti quei bambini che invece erano stati poi adottati. Lei no, non le era toccata questa fortuna.

A quattordici anni era già fuori dall'istituto, senza un posto dove andare e con la necessità di badare a sé stessa. Aveva trovato lavoro in un fast-food, ed era stato lì che aveva conosciuto Alain. Era stato come una sorta di fratello maggiore per lei, e non si erano lasciati mai più. Erano arrivati insieme a Garden Hill, ed era stato lui a trovarle un impiego in città: cameriera in un pub.

A Esmeralda non dispiaceva, neppure un po', ma quando aveva scoperto che ballare le avrebbe procurato più soldi che pulire i tavoli non ci aveva pensato due volte, e aveva sostituito il grembiule da cameriera con il completo succinto del Topsy Turvy.

Quel ricordo la ricondusse immediatamente ad altri due, quello di Chase e quello di Brett Cooper. Uno era il suo secondo migliore amico insieme ad Alain, un ragazzo di vent'anni nato con una brutta deformità, ma dal cuore d'oro; l'altro, il padre di suo figlio.

Esmeralda li aveva conosciuti tutt'e due al locale dove lavorava, ma se uno si era rivelato un tesoro, l'altro non era altro che uno spiantato che l'aveva incantata – stupida lei! – con due moine per poi mollarla incinta e sola.

La musica finì, ed esattamente in quell'istante Esmeralda smise di ballare. Fra le altre ragazze, invece, c'era chi era ancora a metà di un passo e chi proprio aveva perso totalmente il filo. Sospirò: era evidente che nessuna di loro avesse idea di cosa significasse andare a tempo.

Disse a una di loro di inserire un altro CD e, nel mentre, si avvicinò al borsone e prese a frugare in una delle tasche alla ricerca del cellulare. Le saltò il cuore alla giugulare quando vide che c'era un SMS non letto, ma le immagini apocalittiche riguardanti gli effetti dell'incapacità di quella di prendersi cura di suo figlio svanirono immediatamente non appena lesse il testo.

 

Gentile sign.na Garcìa,

abbiamo esaminato il suo curriculum vitae e siamo lieti di comunicarle che abbiamo accettato la sua richiesta d'impiego per sabato 31 ottobre. Le sue mansioni consisteranno nell'occuparsi della preparazione e del servizio delle bevande e delle cibarie durante l'evento che si terrà al Grand Hotel di Garden Hill, per un orario complessivo di 8 ore, dalle 21:30 alle 06:00 e un compenso pari a 100 dollari netti. Telefoni al numero soprastante per confermare.

Le ricordo che, trattandosi di un evento in maschera, è richiesto anche da parte sua un costume.

Buona giornata.

 

Lucrezia Marsh

 

Esmeralda tirò un sospiro di sollievo. Non solo non riguardava suo figlio, ma era anche una buona notizia. Aveva fatto domanda per quell'impiego di una sera due settimane prima, e non si aspettava davvero che le rispondessero. Cento dollari erano una miseria e l'orario era massacrante, ma meglio di niente. Solo...dove diamine l'andava a prendere un travestimento, lei?

 

Villa von Schneider, Gilliflower Avenue n. 26, interno

 

Quando era entrata, a Evelyn era subito venuta in mente la sua cosiddetta camera da letto nella soffitta del Grand Hotel, e immediatamente aveva deciso di preferire di gran lunga quest'ultima, al posto di Villa von Schneider. L'ambiente all'interno era come sovrastato da una pesante calotta formata da polvere e buio; le finestre erano state appena riaperte dopo chissà quanto tempo, e c'era una soffocante puzza di chiuso. L'atrio in cui aveva messo piede quando era entrata era enorme, tanto che per un attimo le aveva procurato un capogiro, e le altre stanze non erano da meno.

Tutto era illuminato solo dalla luce del mezzogiorno, che comunque non era sufficiente a rischiarare il tutto, che restava avvolto nella penombra. I soffitti erano alti, forse troppo per una casa in stile coloniale com'era Villa von Schneider, e anche i muri erano grigi e completamente di pietra non dipinta. I pavimenti erano lucidi, sicuramente qualcuno doveva essersi preso la briga di lavarli già da quella mattina, ma le stanze in generale erano spoglie, e i pochi mobili erano tutti ricoperti con delle lenzuola bianche.

Uno dei domestici le aveva fatto strada, e lei l'aveva seguito stringendosi il suo cestino con il pranzo come se temesse che stessero per rubarglielo. Arrivata in quella che doveva essere la sala da pranzo, si era sentita nuovamente sprofondare.

L'unico arredamento consisteva in un lungo tavolo in legno di ciliegio apparecchiato con una tovaglia bianca, tre piatti e qualche posata, più dei bicchieri di cristallo come se ne vedevano solo nei film, decisamente poco adatti a un pranzo informale come quello.

Evelyn si era sentita morire quando aveva scorto seduto Sebastian von Schneider, il ragazzo con cui aveva fatto una figuraccia colossale solo quella mattina. Era seduto a destra del posto a capotavola, e di fronte a lui c'erano due donne: una sui trentasette o trentotto anni, abbronzata, snella e con i capelli lunghi e neri, tutto sommato ancora piacente se non fosse stato per alcune rughe che già iniziavano a spuntare agli angoli della bocca e degli occhi; l'altra avrebbe anche potuto essere scambiata per la figlia di quest'ultima, se non fosse stato per l'età, dato che aveva lunghi e mossi capelli neri come la prima, tuttavia aveva la carnagione molto più pallida, gli occhi verdi e la stessa aria strutta che Evelyn aveva visto addosso a Sebastian quella mattina.

Tutti e tre erano vestiti di nero e, Evelyn aveva notato, il posto vuoto a capotavola sembrava un monito severo e doloroso che incombeva sulla tavola.

Una domestica le aveva preso gentilmente il cesto dalle mani ma, visto che era sola e lei non aveva nient'altro da fare se non tornare a sentire le grida dell'Ape Regina, Evelyn le aveva proposto sottovoce di farsi dare una mano a servire. La ragazza aveva annuito, e nessuno dei commensali aveva fatto commenti.

Evelyn trasalì quando Sebastian pronunciò un flebilissimo grazie dopo che lei gli aveva posto di fronte un piatto con una generosa quantità di pasta al forno. La più giovane delle due donne non ricambiò la cortesia, continuando a fissare il vuoto con lo sguardo puntato verso le proprie ginocchia. Stringeva i braccioli della sedia fino a farsi sbiancare i polpastrelli, e aveva delle occhiaie lunghe fino alla bocca.

- Blanche, almeno oggi devi mangiare qualcosa - soffiò Sebastian. Non era una richiesta né una supplica: aveva piuttosto di ordine implicito.

- Se volevi che mangiassi, potevi anche ordinare qualcosa di diverso dalla pasta al forno - ringhiò lei per tutta risposta, puntandogli addosso uno sguardo stanco e feroce allo stesso tempo.- Non l'ho mai sopportata, lo sai.

- Non è vero, l'hai sempre mangiata. Dai, non farla raffreddare...- mormorò Sebastian, ingoiando a sua volta un boccone a fatica. La donna più vecchia lo imitò, apparentemente noncurante.

- Molto buona...- commentò, rivolgendosi a Evelyn.- Signorina, siete voi che cucinate?

- Sì...abbiamo....abbiamo una bravissima cuoca...- soffiò la ragazza, arrossendo quando Sebastian le lanciò un'occhiata di sottecchi. L'atmosfera era pesantissima, si sentiva.

- Sei andato a buttar via dei soldi quando anche noi abbiamo un cuoco?- sibilò Blanche, rivolta a suo fratello. Sebastian non la guardò, ma si lasciò sfuggire un sospiro stanco.

- Oggi c'è troppo da fare, non potevo chiedergli anche di cucinare. Per favore, Blanche, adesso mangia...

- Che cosa state combinando tutti quanti, a proposito di questo?!- la ragazza si tolse di dosso il tovagliolo che aveva prima steso in grembo, gettandolo malamente sul ripiano del tavolo.- Il funerale è passato, quanto tempo ancora dobbiamo fermarci in questo cavolo di posto?!

- Quanto servirà - stavolta la voce di Sebastian era ferma e decisa, così come il suo sguardo quando lo puntò in direzione della sorella.- Il commissario Torrance mi ha assicurato che lui e il corpo di polizia si stanno dando da fare, ma occorre tempo per queste cose.

- Non è che voi due vi siete messi d'accordo per piantare le radici qui e non me l'avete detto?- Blanche regalò uno sguardo d'accusa sia a suo fratello che all'altra donna.- Io qui non ci resto, avete capito?! Non ci voglio rimanere, voi non avete il diritto di...

- Ti ricordo, Blanche, che tu non hai mai lavorato in vita tua e fino a prova contraria io ti mantengo, dunque finché le cose stanno così tu fai come ti dico di fare, intesi?- stavolta il tono di voce del ragazzo si alzò di diverse ottave, tanto che Evelyn trasalì.

Sua sorella lo guardò con rabbia, sferrando un calcio alla superficie inferiore del tavolo.

- Fottiti, stronzo!- gridò.

- Blanche, io questo linguaggio a tavola non lo tollero!- l'ammonì l'altra donna, bevendo un sorso di vino così generoso da svuotare interamente il bicchiere.- Tuo fratello sta solo cercando di fare il meglio per tutte noi, e personalmente credo che sia una buona idea fermarsi un po' e cercare di rimettere insieme i pezzi, dopo quello che è successo.

- Vuoi rimettere insieme i pezzi, Grimilde...o forse speri che qui in America qualcuno si accorga ancora di te? In Italia ti hanno tutti sbattuto la porta in faccia perché sei vecchia, magari t'illudi che qualche regista qui s'impietosisca...

- Blanche, adesso stai esagerando!- urlò Sebastian, e quasi fu sul punto di alzarsi dalla tavola.- Grimilde, scusa, ti giuro che non intendeva...

- Non fa niente, Sebastian...cambiamo argomento, che ne dite?- propose Grimilde con un sorriso tirato.

- E di che vuoi parlare? Di creme antirughe?- sputò fuori Blanche, velenosa.

- A dire il vero, io e tuo fratello volevamo parlarti di una questione...Oh, signorina, per favore, potrebbe versarmi un altro po' di vino?- domandò la donna a Evelyn. Lei annuì, allontanandosi dalla tavola per prendere la bottiglia nel cesto.- Conosci la famiglia Woods, Blanche?

- Non conosco nessuno in questa maledetta città.

- Hanno una figlia della tua età, sta per sposarsi. Tu e Sebastian avete ricevuto un invito per la festa del suo fidanzamento, che si terrà sabato prossimo al Grand Hotel qui di fianco. E vi ho organizzato un'uscita con lei e il suo futuro marito domani sera.

- Tu hai fatto...che cosa?!- gridò Blanche, squadrando prima lei e poi il fratello. Evelyn comprese al volo che quello era il momento meno opportuno per avvicinarsi al tavolo, e se ne sarebbe anche rimasta in disparte se Grimilde non le avesse fatto cenno di sbrigarsi, con quella bottiglia.

- Blanche, io ora sono solo a gestire l'azienda di nostro padre. Un aiuto mi farà comodo, almeno i primi tempi. E poi, credo che uscire un po' potrebbe aiutarci a...

- Io non vado da nessuna parte!- urlò la ragazza, proprio quando Evelyn stava versando il vino nel bicchiere di Grimilde. Lo strillo la fece sobbalzare, e versò metà vino sulla tovaglia, facendone colare un poco anche sul vestito di Blanche.

La mora si rivoltò come una vipera, alzandosi in piedi e facendola arretrare istintivamente.

- E sta' attenta, cameriera da quattro soldi!- gridò, prima di voltarsi e uscire a grandi passi dalla sala.

Grimilde rimase interdetta, indecisa se alzarsi e rincorrerla o meno. Sebastian puntò lo sguardo su Evelyn, e così anche gli altri due domestici che erano là dentro.

La ragazza si sentì avvampare, un calore fortissimo s'impossessò delle guance e del collo. Non osò guardare in faccia nessuno, e scappò fuori dalla stanza.

Uscì in giardino desiderando solo di scomparire, percorrendo a grandi passi la distanza che la separava dal cancello, quando udì dei passi frettolosi alle sue spalle e qualcuno che la chiamava.

- Signorina!

Di male in peggio, pensò Evelyn, ancora rossa in volto, quando si girò e vide Sebastian von Schneider venirle incontro di corsa. Si fermò solo per cortesia, ma non desiderava altro che andarsene da lì il più in fretta possibile.

Sebastian la raggiunse, trafelato, e prese a frugare in una tasca dei pantaloni.

- Non...non mi ha detto quanto le devo...- ansimò.

(Allora è solo per questo...certo che sì, stupida illusa)

- Sono...sono cinquanta dollari...- mormorò Evelyn, evitando di guardarlo, ancora rossa in volto.

- Ecco...- il ragazzo estrasse dalla tasca cento dollari, e glieli porse. Lei gli rivolse uno sguardo interrogativo.- Il resto...il resto è una mancia - spiegò, un po' imbarazzato.- Per...per scusarmi per il comportamento di mia sorella. Li prenda, sono sicuro che le occorrono.

Non avrebbe potuto uscirsene con una spiegazione più infelice. Evelyn si sentì salire il sangue alla testa, e si allontanò di un passo, guardandolo con rabbia.

- Ma chi si crede di essere?! Che cosa pensate, lei e sua sorella? Certo, trattiamoli tutti come delle pezze da scarpe, tanto poi abbiamo i soldi che risolvono tutto!

- Mi creda, non avevo alcuna intenzione di offenderla, io...

- Beh, lo ha fatto!- ringhiò Evelyn, allontanandosi da lui.- Se li tenga pure, i suoi soldi! La dignità non si compra, se lo ricordi bene!

Sebastian rimase interdetto, immobile al centro del giardino, mentre la ragazza usciva dal cancello e lo sbatteva rumorosamente alle sue spalle.

 

Casa Bharrahaji, Zeodary Street n. 35, esterno

 

Jasmine si tirò su la zip della giacca, stipata contro il finestrino dell'autobus che arrancava lungo la strada in salita. Il quartiere dove abitava era in assoluto il più a est di tutta Garden Hill, e le ci voleva un'ora buona per raggiungerlo dalla scuola. Due, se come quel giorno era in ritardo e le toccava prendere la seconda corsa. Si scostò una ciocca di capelli sfuggita alla treccia da davanti gli occhi, continuando a rileggere le righe dorate incise su quel cartoncino che, a furia di rigirarselo fra le mani, aveva quasi ridotto a un pezzo di carta straccia.

Non l'aveva gettato via come la Water le aveva detto di fare. La rispostaccia che le aveva dato la sua compagna di classe ancora le bruciava, ma quando le aveva sbattuto quell'invito sul vassoio del pranzo non aveva avuto il coraggio di buttarlo via.

Ariel era stata invitata a quella che si preannunciava una festa di Halloween fighissima e non voleva partecipare per starsene in quella sua dannata piscina. Scema, ecco che cos'era. Una povera scema, una povera scema completamente priva di rispetto nei confronti di chi non poteva avere una fortuna come la sua.

Jasmine sbuffò, nascondendo l'invito in una tasca interna della giacca quando la sua fermata fu a pochi metri. Era meglio che il Sultano non vedesse con cosa era tornata a casa, non fosse altro per evitare inutili scenate. Scese dall'autobus, percorrendo il breve tratto che la separava da casa sua.

Quando giunse in prossimità del cortile, si sentì invadere dallo scoramento.

Poco distante dal cancello, era parcheggiata una Cadillac nera. Jasmine conosceva bene quell'auto, e la sua presenza voleva dire solo una cosa: Jafar.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice: Lo so che ci ho messo tanto ad aggiornare e che in questo capitolo non succede niente di che, ma come tutti gli altri era indispensabile per il proseguimento della storia e per il carattere dei personaggi. Dunque, ora sappiamo ufficialmente che ad andare alla festa saranno Ariel, Caroline, Blanche, Roxanne, Esmeralda, Marion e Anna...per quanto riguarda Jasmine, Evelyn, Annabelle ed Elsa, lo vedremo nel prossimo capitolo che, come ho già anticipato, sarà anche l'ultimo di presentazione. Avremo la cena fra Marion e John King, Jasmine con Jafar e i suoi genitori, Evelyn con di nuovo Roxanne e Sebastian, Elsa e la zia di Marion (sì, è lei la dottoressa King) e un grande spazio sarà dato ad Annabelle e alla sua famiglia, compreso Logan alle prese con la proposta di Robin e Ryan con il suo piano.

Dal prossimo ancora avremo invece i preparativi veri e propri e poi finalmente la grande serata ;).

Ringrazio chi legge e chi recensisce.

Ciao, un bacio,

Beauty

P. S. Dimenticavo...Sebastian ha il volto di Flavio Parenti, Grimilde quello di Rachel Shelley ed Elsa e Anna rispettivamente di Lèa Seydoux e Sarah Bolger ;).
  
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