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Autore: Gatto Magro    21/05/2014    1 recensioni
Capitano. Grotta. Cera.
E tutto quello che avrò la malaugurata idea di scrivere, finché alla TV non fanno qualcosa di bello.
1. Ossequi, Capitano.
2. Ave Icarus.
3. All I wanna do is (bang-bang).
4. Sunday mo(u)rning.
5. Le Porte Spettrali.
6. Caro Bellamy,
7. I tuoi 23 anni, I miei 26 anni.
8. duemilasette – duemilatredici
9. Scritto sul muro con l'eyeliner.
10. "It's like being at Disneyland. On acid."
11. We go where we know. (RIPUBBLICATA "Ma le fragole hanno fatto la muffa.")
12. Come le patatine fritte (è sempre un buon momento per una torta al cioccolato).
13. Prima che fossimo come le patatine fritte: insanguinati sul pavimento. (A raccontarci bugie.)
14. Then the night fell on us.
15. The Queen is dead.
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Nonsense, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le vicende Ciglia Finte e altre cose di Superficie. '
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don’t be afraid, you’re already dead.
 
 
 
Le luci di Los Angeles hanno un sapore elettrico e un retrogusto di sangue.
Crepitano nel buio da mezzo miglio di distanza, come una tangenziale di stelle cadenti a basso prezzo, schizzano a due centimetri dal suo naso e investono le nuvole scure con un’allegria maniacale. Esplodono nel fumo, cadono in polvere di vetro e scariche di corrente sempre più tenui.
Calpestandole si alza un bel rumore, dall’asfalto.
Come di neve sotto scarpe troppo leggere.
E i lenti fasci gialli che scivolano sulla strada, ormai morti, graffiano come cartapesta. I bagliori si estinguono presto collassando sui parabrezza delle automobili, dove rimangono incastrati fra i tergicristalli, sputati nella vegetazione che oscura le curve e soffocati dalla polvere sotto le ruote; muoiono in silenzio, le voci otturate nella canzone sbagliata che passa alla radio.
Ma alla curva successiva, gli alberi si incendiano e risorgono le luci, incorniciate dai finestrini dove picchiano forte, cercando di svegliare i bambini che dormono nei sedili posteriori.
 
Apre qualcosa. Gli occhi?
Adidas rigate di viola e di fango. Troppo vicine al suo naso.
Le Adidas si sollevano sulle punte e dondolano. Veloci.
Nausea, acida e compatta; chiude gli occhi prima che salga e si rovesci sul pavimento – pavimento? – e su quelle scarpe ansiose.
Il finestrino dell’auto.
Le luci intermittenti appese in file sfocate dietro il vetro bucano le fronde degli alberi.
Potrebbe essere un Natale rubato ad una massa indistinta di ricordi e applicato alle sue palpebre abbassate, invece è la superstrada per Los Angeles.
Lo sente dall’odore.
Apre un occhio.
Le Adidas passeggiano nervose in uno spazio piccolo e semibuio, con l’aria appestata di un misto strano di fumo e dolci e alcool. Un punto in alto che dovrebbe essere un soffitto coperto di ragnatele ha la voce spezzata da sospiri atterriti.
- Ma se è morto?
Morto?
Metà del suo corpo è distesa contro un pavimento gelido, fuso con un dolore viscido e strano che gli sale dai polmoni; l’altra è assorta nella sfilata delle luci di Los Angeles dietro un finestrino che ricorda da tutta la vita. Le scarpe, la voce che cade dal soffitto, i rami di querce, il sussurro di una radio e del proprio respiro sotto la cintura di sicurezza, il freddo del pavimento e la morbida oscurità dell’abitacolo di una Cadillac color ruggine sopra una colata nera di asfalto.
 
Morto,
come le strisce di cartapesta che pendono sul suo viso.
Come la pozzetta umida e vischiosa che si trova sotto le dita
(ma non sa bene dove siano finite, quelle).
Morto come ha detto la voce,
anche se non si ricorda se venga dalla stanza buia,
dalla radio che sbava la frequenza,
dalle labbra del profilo di sua madre che si è girata
dal sedile del passeggero.
E dice:
 
- Haner, sei morto?
 
Vicino alla pozza appiccicosa, nel punto dove prima ci sono state le Adidas, due mani rese pallide dalla fioca lampadina a led in un angolo dello stanzino emergono dall’oscurità e sventagliano l’aria pesta, smuovendo un sentore di sigaretta più accentuato che va a ricoprire quello di menta artificiale, nella Cadillac. I bordi dell’abitacolo, la superficie del finestrino, il cruscotto fosforescente: bruciacchiati e sfumati nei contorni rigidi dello stanzino.
Spuntano angoli da ogni parte, e quelle mani bianche che ci danzano in mezzo, disegnando nel buio le forme del dolore che inizia a piovere sul suo corpo, disteso scomposto sul pavimento.
Acido, nelle orbite e nelle gengive.
Con uno spasmo cerca di stringersi al sedile dell’auto, ma i suoi polpastrelli raschiano la sporcizia che ricopre il pavimento; una brusca frenata della Cadillac lo sputa via dal sedile e per un secondo la cintura gli soffoca il petto, prima di sfaldarsi e abbandonarlo alla caduta dentro il buio.
Il buio: forato da due mani luminose.
Dall’odore di vomito e qualcos’altro più metallico.
Anche se stringe forte gli occhi e dentro la sua testa urla all’automobile di fermarsi e tornarlo a prendere, rimanere lì con lui a tamponargli le ferite o portarlo via dentro le luci di Los Angeles, si trova davanti soltanto il buio.
 
In qualche modo, riesce a farlo alzare da terra e a trascinarlo fuori, sul retro del Donney. È più pesante di lui, e per di più non si regge sulle gambe e la testa gli ciondola sul collo; il tempo di pochi passi barcollanti e deve lasciarlo scivolare sull’erba del cortile, con la schiena appoggiata al muretto dietro i bidoni della spazzatura.
Si abbandona con la nuca contro i mattoni, e rimane lì immobile senza dare segni di vita, neanche quando l’altro gli tocca il viso con quelle sue mani pallide. Dà un’occhiata al labbro spaccato e alle gengive insanguinate. Gli solleva la maglia pesante per controllare che le costole siano a posto, con una leggera pressione sotto l’ombra dei lividi che già iniziano a macchiare la pelle.
Inchiostro viola e nero, e sopra di loro un cielo bucato da stelle troppo piccole.
- Non eri così, quando eravamo piccoli.
- Perché, io e te ci conosciamo?
Le parole escono spezzate da bassi colpi di tosse. Deve avere la gola piena di sangue. Il mento gli cade sul petto, senza forza, e una macchia rossa si allarga sulla maglietta.
- Giocavamo a baseball in un campetto. A sette o otto anni, sarà stato. Una volta ti ho beccato con la mazza in fronte, e tu mi hai rincorso per tutta la Golden West.
Tossicchia, le spalle scosse e tremanti. O è un tentativo di risata, o il ragazzo per terra sta tirando gli ultimi.
L’altro si è alzato in piedi e si è acceso una sigaretta, lo sguardo assorto nello spicchio di oceano che sbuca dietro una casa. La fiamma dell’accendino illumina a malapena le sue mani strette a coppa intorno alla cicca; bianco incrostato di rosso, ma non sembra fargli troppa impressione, quel sangue non suo.
- E correvamo veloci? – C’è un sorriso, nella voce alle sue spalle. Muto come lo zampettare di un gatto sulle foglie.
Le foglie?
Il vento freddo.
Vorrebbe tornare dentro e lasciarlo lì, con le sue domande e la sua tosse di sangue. Ma gli dispiace per quel bambino che aveva conosciuto, a sette o otto anni. O giù di lì.
Un brandello di canzone, sempre quella sbagliata, è rimasto impigliato alla porta socchiusa.
Soffia le parole insieme alla prima, lunga boccata di fumo che abbandona la sua gola. Ruvida, da un angolo delle labbra screpolate. 
- Sì. Mi hai preso solo all’incrocio con la Holly, ma eravamo così stanchi che ti sei dimenticato cosa volevi farmi. Ci siamo buttati per terra e tu hai detto che soltanto un paralitico batteva in maniera più schifosa di me.
La risata di entrambi si condensa nella sera scura. Rockaway Beach continua a frusciare dal locale e i lembi delle nuvole velano una luna trasparente.
- Ma com’è che sono, adesso? – Dice dopo un po’, quando la canzone è finita. La sua voce è più forte, ma ancora sfibrata in umide note d’aria. Sembra di ascoltare i primi e gli ultimi secondi di un vinile.
Il ragazzo in piedi scuote lievemente la testa, la bocca stirata in una smorfia quasi amara.
- Cazzo ne so, adesso. Adesso sei così. Rotto, sporco, sgualcito come uno scatolone dopo un trasloco. È rimasto il fondo di roba da buttare via, o talmente inutile che a nessuno importa di tirarla fuori e metterla al suo posto, a casa. Fai finta di essere quello che corre più veloce di tutti, e ti trascini nelle scarpe sperando che qualcuno si fermi ad aspettarti. Adesso sei lì che muori e con te ci sono solo io, ma non ti ricordi nemmeno chi sono.
- Sto morendo? E tu stai lì a fumare. Non mi piace la luna di stanotte.
L’erba e la suola della sua scarpa assaporano l’ultimo filo di fumo della sigaretta. Ne accenderebbe un’altra, pur di non tornare dentro e sentire Now I Wanna Sniff Some Glue strepitata dal tizio ubriaco marcio che si è issato sul palco, appena mezzora dopo l’inizio della festa. Altre quattordici, si corregge mentalmente, dando una scrollata al pacchetto di Camel.
- Vedo quattro raggi, come in una cazzo di bussola. Mia sorella disegna le bussole con quattro raggi, aghi cioè. Ma se ce ne sono così tanti, come fai a sapere da che parte andare. È ferma lì da ieri, la luna. Allora si va da quella parte, verso l’alto, anche se cerca di costringerti a prendere direzioni diverse, per allontanarti. Ma tu sai che quello è il solo posto dove vorresti essere, anche se ti respinge e ti senti in un modo strano, a fissarlo, come se dovesse sparirti da un momento all’altro la forza di raggiungerlo. O la voglia.
- Un sentito “grazie” mi basta e avanza, senza tutte queste stronzate illogiche.
- Dovrebbero cantare Stairway to Heaven, a questo punto.
- Sei un tripudio di banalità, oggi. E comunque è meglio di no, stasera hanno già fatto abbastanza scempio di qualsiasi genere musicale, indistintamente. Anche se non mi è dispiaciuta la versione alcolizzata di quella canzone di Britney Spears.
La discussione cade insieme alla cenere della terza sigaretta. Alza lo sguardo al cielo e pensa che non è vero che la luna ha quattro raggi. A lui sembra che non faccia nemmeno luce.
- Cazzo, non mi sento più la faccia. E’ come se fosse fatta di gomma.
- Nopper è migliorato con la mira, sai? Magari dopo questa gli offrono una borsa di studio. C’era una precisione millimetrica nei primi cazzotti. Poi però si è fatto prendere dall’emozione.
Il ragazzo per terra sputa una risata allegra. – Nopper e chi altro?
- Solo lui. Beh, e un aiutino di Shaun per portarti a fare una gita nella cantina. – risponde l’altro, indicando con un cenno la porta dietro di loro.
- E tu? – Insiste, la voce improvvisamente solcata da una rabbia gelida, spinta in superficie dal respiro che è tornato regolare, come se la buttasse fuori dai polmoni al posto dell’aria.
Il passaggio è troppo brusco per il ragazzo in piedi, investito da un moto d’irritazione che gli fa scagliare via la sigaretta. Sente la pelle pizzicare dalla voglia di urlare contro l’altro, o anche di prenderlo a botte come ha visto fare a quella testa di cazzo di Nopper. Finché non chiude la bocca, maledizione.
Marcia verso la porta con l’intenzione di lasciarlo lì al buio e alla puzza di marcio che cola dai bidoni per tutto il cortile, ma a metà strada si arresta e gli si china di fronte. Registra soltanto in seconda battuta il pallore innaturale del suo volto, impegnato a inchiodarlo con uno sguardo velenoso.
- La prossima volta – sibila, livido. – pensaci diciotto volte prima di guardare con troppa attenzione il culo di Michelle. La prossima volta non mi preoccuperò di venire a vedere come stai.
Si alza di scatto e raggiunge la porta rigata di sporcizia, spalancandola con uno strattone.
- Tanti saluti, Haner – sbotta prima di tirarsela dietro, accolto dal boato attutito del locale.
- ‘Notte, Zack.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ho voglia di pubblicare: sopportatemi.
Questa cosa si colloca cronologicamente un'ora o due prima di "Come le patatine fritte." Sono in corso dibattiti per accertarsi che non sia davvero necessario modificare la successione dei capitoli. (Kant è a sfavore, Leibniz tentenna e Gatto dovrebbe studiare chimica.)
   
 
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