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Autore: Loda    21/05/2014    1 recensioni
Ristesura del mio vecchio racconto breve Come stai
La campanella è suonata e io mi sono sfregata l’occhio col dito. Le lacrime prudono, anche quelle finte – anzi, credo che quelle finte siano quelle che danno più fastidio. L’umiliazione, la frustrazione, neanche la soddisfazione di far vedere loro che piango.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Odio
Come stai 2.0 perché era questo il titolo originale. Ho scritto Come stai cinque anni fa (l'ho trovate su EFP), recentemente l'ho ritrovato e ho deciso di riscriverlo. E' sostanzialmente identico, ho deciso solo di migliorare la qualità della scrittura.
Buona lettura; non è autobiografico.


Odio

 





Odio dover stare seduta a questo banco. Odio sentire dietro di me sussurri e cellulari che vibrano contro il banco – è un rumore insopportabile.
La matita mi è colata dagli occhi. A volte mi sforzo di piangere per rovinare il mio trucco. Il mio trucco perfetto, quello nessuno lo nota. Il trucco rovinato, la domanda «hai pianto?», ma neanche quella arriva.
La campanella è suonata e io mi sono sfregata l’occhio col dito. Le lacrime prudono, anche quelle finte – anzi, credo che quelle finte siano quelle che danno più fastidio. L’umiliazione, la frustrazione, neanche la soddisfazione di far vedere loro che piango.
Mi alzo ed esco dall’aula, a testa china.
Vorrei che mi chiedessero come sto qualche volta. Non ha senso perché io risponderei bene, anche se è male. Come la fa maggior parte delle persone, perché la maggior parte delle persone è questo che vuole sentirsi dire. Lo chiede – come stai? – ma non è davvero interessata – dimmi che stai bene.
E allora, d’accordo, siamo tutti educati e stiamo tutti bene. 
 
 

Odio chi ha una risata rumorosa. Odio sentire che tutti ridono quando qualcuno fa una battuta. Odio dover ridere anch’io. Odio la mia risata, perché è timida e titubante, e perché il mio sorriso non lo vede mai nessuno. Odio le ore buche. Gli altri hanno giocato a carte e io cercavo di fare altro. Ho provato a scrivere qualcosa, ma tanto non so scrivere. Ho provato a disegnare, ma tanto non so disegnare.
Gli altri si divertivano e di sicuro pensavano che io mi stessi annoiando, perché lo sanno che non so fare niente. Mi avranno disprezzata. Loro odiano me e io odio loro.
Eppure non mi va bene neanche così.



Odio i giochi stupidi, odio sentirmi in imbarazzo.
Oggi c'è stata un'altra ora buca, la professoressa è ammalata.
Avevo deciso che oggi mi sarei divertita insieme cogli altri. Ma loro non hanno giocato a carte, si sono messi a fare il gioco della bottiglia.
Io non volevo e sono rimasta al mio banco. Li guardavo e, come un marionetta ammaestrata, spalancavo la bocca quando lo facevano gli altri, ridevo, con la mia fioca risata, quando mi sentivo in dovere di farlo.
Odio essere così.
Accumulo i rimpianti – li posso contare – per il terrore dei rimorsi.



Odio le formalità, ma oggi ho chiesto «come stai?» a un mio compagno. Lui è sempre allegro e quando mi ha risposto con una scrollata di spalle e con un presuntuoso «si tira avanti», l’ho odiato.
Poi ho pensato che lui, forse, non era poi così diverso da me e ho odiato questo pensiero.
E se fosse così? E se fossimo tutti infelici, mascherati con dei come stai che non vogliono realmente una risposta e con dei bene che non volevano realmente una domanda?  
L’ho pensato, che odio un po’ troppe cose.
Credo di odiare troppo, per riuscire ad essere amata.
Credo di essere troppo concentrata su me stessa, per riuscire ad avere degli amici.



Odio i compleanni perché tutti si fanno gli auguri, anche chi non si vuole bene, anche chi non si sopporta.
Odio questa giornata perché è il mio compleanno, e nessuno mi ha fatto gli auguri.
Mi odio perché sono un’ipocrita.
Tornando a casa, ho pianto davvero.
Le mie lacrime, quelle vere, si erano cristallizzate da qualche parte e si sciolsero nel calore dell’odio profondo. Scorrevano impetuose, pungenti, e ho pensato che preferivo quelle finte.
Mi sono buttata in mezzo alla strada, con la speranza che mi investissero.
Volevo farmi male.
Forse se mi fossi fatta male sul serio qualcuno si sarebbe preoccupato per me. Forse con la mia assenza si sarebbero accorti della mia esistenza.
Però, lo giuro, non volevo morire.



Ho riaperto gli occhi dopo una settimana.
Parlano di tentato suicidio, io non ricordo nulla.
Ci sono due mie compagne di classe di fianco al mio letto, mi chiedono come sto. Non le odio, perché hanno gli occhi arrossati. Hanno gli occhi arrossati perché hanno pianto per me, io sono stupida e contenta.
Loro se ne vanno ed entra mia madre – anche lei piange – seguita da un dottore.
Ma perché piangi, mamma, non lo vedi che sono viva? Non lo vedi che sto bene e che finalmente sorrido?
Ma il dottore ha un'aria seria e comincia a parlare.
La notizia mi raggela il sangue nelle vene e improvvisamente ricordo tutto. L'auto che arrivava. Io che non mi fermavo. Quel giorno compivo quattordici anni.
Mamma mi abbraccia mentre comincio a piangere.
Ecco il mio primo rimorso.
Un grosso rimorso che ogni giorno mi logora lentamente, dall'interno.



Mi chiamo Valentina, ho quattordici anni e sono su una sedia a rotelle.
Non cammino da due mesi e probabilmente non potrò mai più camminare.
Ogni giorno a scuola tutti mi chiedono come sto e mi sembra di avere tanti amici.
Forse ora sono più interessante, ma non sono felice.
Avrei potuto trovare altri mille modi per risultare più interessante ma ero troppo concentrata su me stessa, e l’unica soluzione che ho saputo trovare è stata la mia distruzione.  
Credo che Dio mi abbia risvegliata da quel coma per farmi capire questo - e per punirmi.
Non passa giorno senza che io lo ringrazi, non passa notte senza che io lo odi.







 
   
 
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