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Autore: vannagio    22/05/2014    4 recensioni
«Ne hai ancora per molto?».
Tony roteò gli occhi, esasperato.
«Almeno per un’altra ora. Due, se continui a interrompermi e/o addormentarti».

[GROSSI SPOILER IRON MAN3!!!]
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Bruce Banner, Howard Stark, Tony Stark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Elivelivolo e dintorni '
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Traumi infantili




«Questo mi ricorda un aneddoto davvero singolare su me, mio padre e due spogliarel…».
«Oddio, ecco che ricomincia!».
«…lliste. E la mia ferita originaria. Quella di cui ti stavo parlando prima che mi interrompessi. Come stavo dicendo, era il millenovecento ottanta tre, avevo quattordici anni e…».
«Avevi ancora la tata. E sì, è abbastanza strano. Me lo ricordo. Adiamo avanti, per favore».
«Insomma, Doc! Ti sto aprendo il mio cuore, non puoi mettermi fretta, non è professionale».
Bruce prese a massaggiarsi l’attaccatura del naso.
«Non devo essere professionale. Ti ho già detto che non sono quel tipo di dottore».
«Sarebbe davvero carino da parte tua, se questa volta ti astenessi dal schiacciare un pisolino».
«Non puoi aprirlo a qualcun altro, il tuo cuore? Qualcuno tipo Pepper. O Jarvis. O la padella per le uova».
Tony inarcò un sopracciglio, accarezzandosi il pizzetto con aria pensierosa. Forse stava davvero prendendo in considerazione la proposta?
«Sai, è curioso che tu abbia tirato in ballo Jarvis e la padella, perché sono entrambi parti integranti del mio racconto».
Ovviamente no. Bruce si arruffò i capelli per la frustrazione.
«Cristo Santo, dov’è il pulsante per spegnerti?».



***



-Ti ho mai raccontato del giorno in cui decisi di creare Jarvis?
-No.
-Davvero?
-Sono sicuro che me ne ricorderei.
-Andiamo, Bruce, non fare quella faccia esasperata!

Avevo già costruito un Jarvis molto rudimentale. A dodici anni. Mi ero trincerato per qualche giorno nella mia stanza, incazzato nero con mio padre perché non voleva comprarmi una giraffa.

-Povero piccolo Tony.
-Ehi, le giraffe andavano molto di moda, quell’anno! Ero l’unico bambino a non avere una giraffa, te lo giuro. Ce n’era uno, Johnny Smith, suo padre era proprietario di una grossa catena di supermercati, che ne aveva addirittura due. Avresti dovuto vederlo… come si pavoneggiava, quel piccolo bastardo! Hai idea di come questo mi abbia fatto sentire?
-Ah-ehm…
-Esatto. Ma torniamo a Jarvis.

Non avevo messo in conto, però, che vivere recluso in una stanza per più di mezza giornata voleva dire non avere a disposizione i deliziosi manicaretti che la mia tata cucinava per me. Così cominciai a scavare tra le cianfrusaglie ammassate sul pavimento… c’era veramente di tutto, in quella stanza, dico sul serio, una volta ci ho trovato persino il motore di un automobile, ma che mi venga un colpo se ricordo come diavolo sia finito lì dentro! Comunque sia, racimolai quattro cose e ci assemblai un robottino. Una cosina minuscola. Lo pilotavo con un telecomandino. Al posto degli occhi aveva due lampadine azzurre. In quel periodo avevo paura del buio, quando mi svegliavo in piena notte, era confortante vedere quelle due lucette azzurre, mi facevano sentire meno solo e al sicuro. Gli avevo anche installato una padella che cominciava a scaldarsi ogni volta che gli schiacciavo il naso. Ci rompevo sopra due uova e quando erano pronte, il naso si illuminava.

-Geniale, no?
-Be’…
-Io penso di sì. Per un bambino di dodici anni, almeno.

Quando i miei vecchi andavano a dormire, mandavo Robottino Jarvis a rubare le uova dal frigorifero. Insieme a un po’ di latte. E a del bacon, anche. Da quel momento la rivalsa e l’indipendenza hanno avuto sempre il sapore del bacon, per me.

-Interessante.

Ero un ragazzino iperattivo, non stavo mai fermo. Nemmeno il mio cervello riusciva mai a spegnersi. A volte mi svegliavo di notte con un’idea e non riuscivo più ad addormentarmi se prima non l’avevo messa in atto. Così, nel giro di due anni, Robottino Jarvis crebbe e divenne un bel robot adulto. So che è difficile crederlo, ma da adolescente non ero un tipo molto socievole. Me ne stavo sempre chiuso in stanza a smontare e assemblare roba, non uscivo spesso, non avevo molti amici…

-E quale sarebbe la differenza con oggi, scusa?
-Non fare il sarcastico e lasciami raccontare!

I miei genitori, vai a capire perché, non vedevano di buon occhio questo mio comportamento. Insomma, diresti che al mondo c’è di peggio di un figlio che preferisce starsene chiuso in casa a fare il piccolo genio e ascoltare musica a palla, no? Quelli che hanno i figli drogati o assassini o drogati e assassini cosa dovrebbero fare, spararsi? Avevo un quoziente intellettivo di molto superiore alla media, stavo per entrare al MIT, a scuola ottenevo voti altissimi col minimo sforzo, cosa diavolo pretendevano ancora da me, eh?

-Forse…

Invece no. Sempre a sbuffare, a lanciarmi occhiate ansiose, come se fossi una bomba pronta a esplodere. Un giorno mio padre entrò nella mia stanza, prese posto sulla cassetta degli attrezzi e mi disse…
«Figliolo, dobbiamo parlare».
Me lo ricordo come se fosse ieri. Il suo completo fumo di Londra perfettamente stirato. Il colletto della camicia immacolato. Le scarpe lucidissime. Il nodo della cravatta impeccabile. Sempre impeccabile, mio padre. Anche con addosso il pigiama e una vestaglia da camera, ti faceva sentire un barbone al suo confronto. In questo i miei genitori si somigliavano molto, sai? Avevano una passione smodata per i capi di alta sartoria. Mia madre andava nel panico se non aveva a disposizione almeno venti abiti Chanel tra cui scegliere nell’armadio. “Oddio, non ho niente da mettermi!”, urlava in continuazione.

-Tony, potresti evitare di divagare, per favore?
-Oh, hai ragione, scusa.

«Papà, potremmo rimandare a più tardi? Sono molto impegnato in questo momento».
«Certo, figliolo. Chiamerò la tua assistente e le farò fissare un appuntamento».
Gli scappellotti di mio padre sulla nuca facevano un gran male.
«Ahia, papà!».
«Se tuo padre dice che dobbiamo parlare ora, parliamo ora. Sono stato chiaro, giovane?».
«Cerca di capire! Jarvis ha uno strano tic al braccio. Quando mi porge qualcosa trema tutto. Poco fa ha versato metà bicchiere di latte sul pavimento. Non lo aveva mai fatto prima, sono preoccupato. Credevo che si trattasse di un semplice falso contatto, ma sembra tutto okay. Temo ci sia qualche danno ai circuiti. Sarà necessario aprirlo per verificarlo e ho paura che l’operazione possa rivelarsi troppo rischiosa per lui».
«Lui?».
«Jarvis, papà. Potrebbe perdere irreversibilmente l’uso del braccio. Potrebbe non tornare più lo stesso, dopo. Non voglio rischiare di perderlo, aveva appena imparato a cucinare le uova da solo e a riconoscere i titoli dei miei album preferiti!».
L’espressione sul viso di mio padre. Non la scorderò mai. Non come quando si guardano i pazzi, no. Mio padre aveva una certa simpatia per i pazzi. “Molti geni sono stati considerati pazzi”, diceva sempre. La sua era l’espressione di chi vede le proprie speranze per il futuro crollare in un mucchio di macerie.
«Tony, tua madre ed io siamo preoccupati per te».
«Io sto bene, papà. È Jarvis che sta male».
«Jarvis non può stare male. Era di questo che ti volevo parlare».
«Sì, invece. So che è triste e difficile da accettare, ma…».
«Tony, volevo dire che Jarvis non può stare male perché non è vivo. Non è una persona. È un giocattolo. Tuttalpiù può essere rotto».
«Jarvis è un mio amico, devo prendermi cura di lui».
«Jarvis è un giocattolo rotto. Non puoi affezionarti a un giocattolo. Cosa succederebbe se gli togliessi le batterie, eh?».
«La stessa cosa che succederebbe a una persona se gli strappassi il cuore dal petto, probabilmente». Un’altra caratteristica degli scappellotti di mio padre era che non arrivavano mai in piccole quantità. «Ahia, papà!».
«Stammi a sentire, giovane. Questa pagliacciata deve finire. Hai quattordici anni, dovresti uscire con gli amici, conquistare ragazze, non startene sepolto vivo in questa discarica a fare Dio solo sa cosa con questo rottame ambulante».
«Che cosa credi? Che passi il mio tempo a spararmi seghe davanti a un giornaletto porno come uno sfigato?». A mio padre non piaceva il linguaggio scurrile. «Eccheccavolo, smettila con ‘sti scappellotti!».
«Se tu avessi un giornaletto porno come un normale ragazzo di quattordici anni, sarei molto più tranquillo, credimi. Quel giocattolo, invece, è un problema. Ti rende debole. Le debolezze vanno eliminate».
Provai a mettermi tra Jarvis e mio padre, ma fu tutto inutile.
«Togligli le batterie, forza».
«Cosa? NO!».
«Non fare il bambino. Devi capire che è solo un giocattolo. Le persone vere sono là fuori. Avanti, togligli le batterie e facciamola finita una volta per tutte. Non lascerò che mio figlio si trasformi in un asociale senza spina dorsale».
Non ebbi altra scelta. Vedere le lucette azzurre, quelle stesse lucette che mi avevano tenuto compagnia ogni notte, spegnersi all’improvviso fu…
Volevo bene a quel robot e lui lo sapeva. Lo sapeva, ma decise di ferirmi intenzionalmente. Mi costrinse a… a ucciderlo, praticamente. Contro la mia volontà. A strappargli le batterie. E poi, come se non fosse stato abbastanza, prese il… corpo di Jarvis e lo portò via da me. Non mi concesse nemmeno di dargli un ultimo saluto. Avevo solo quattordici anni, dannazione! Mi rubò due anni di amicizia e li buttò nel cassonetto dei rifiuti senza preoccuparsi di come potevo sentirmi a riguardo.

-Non stai dormendo, vero?
-Scherzi? Come potrei addormentarmi nel bel mezzo di una storia così toccante?
-Sei cinico proprio come mio padre.

Rimasi chiuso in camera per un giorno, ma siccome non avevo più Jarvis che rubava le uova per me dal frigo, a un certo punto mi vidi costretto a uscire. Non sono mai stato il tipo da sciopero della fame. In casa c’era solo mia madre.

-Ti ha consolato, immagino.
-Be’, sì e no.
-Sì e no?
-A modo suo.

Mi fece sedere sul divano, chiese alla tata di prepararmi un banana split e rimase in silenzio fin quando non vidi il fondo della coppa. Col suo bocchino d’argento e la lunga collana di perle dal nodo un po’ anni trenta. Ha sempre avuto un debole per gli anni trenta, mia madre. Diceva che le sarebbe piaciuto vivere in quel periodo. Forse è per quello che ha cominciato a cantare nei localini. Ebbe un discreto successo per un anno o due, poi conobbe mio padre. Se le chiedevi perché si fosse innamorata di lui, ti rispondeva “Mi fa ridere”. Ma genuinamente, capito? Non era una battuta. Non so se riesci a cogliere l’assurdità della risposta. Una cantante sciantosa da piano bar si fa mettere incinta da un miliardario playboy piuttosto piacente (mio padre era un sex-symbol, per quei tempi), la gente ci dà dentro con le malignità, e lei cosa risponde? “Mi fa ridere”. Facendo spallucce. Era così, mia madre. Un po’ sciocchina. Le sarebbe piaciuta Jessica Rabbit.

-Tony…
-Sì, scusa. È colpa di mia madre, anche lei divagava spesso. Parlare di lei mi fa divagare a mia volta.

«Va meglio, adesso, dolcezza?».
«No, per niente. Lo odio per quello che mi ha fatto. È un mostro!».
«Tuo padre è stato un po’ duro, lo riconosco, ma non ha tutti i torti. Non è salutare stare chiuso sempre in casa. Dovresti andare a divertirti con i tuoi amici!».
«Il mio unico amico è stato appena buttato nel cassonetto!».

-Unico amico? Non avevi detto…
-Ho detto “non molti amici”, okay?
-Nella mia lingua “non molti” non significa “nessuno”.

Mia madre non era la tipa che si arrendeva facilmente.
«Allora, sai cosa? Prendiamo il jet di papà e andiamo a fare shopping a Parigi. Solo tu ed io. Conosco un atelier in cui mi ha portato tuo padre poco prima di sposarci che ti farà impazzire, ne sono certa!».

-Proposta allettante.
-Già.

«Mamma, sei impazzita per caso?».
«Organizziamo una festa, allora. Chiamiamo la ditta di catering che si è occupata di organizzare il compleanno di tuo padre. Invitiamo tutti i tuoi compagni di scuola. E la ragazza che ti piace, anche. Ci sarà una ragazza che ti piace, no?».
«Mi spieghi cosa ci dovrei trovare di bello in una ragazza?».

-Caspita, non sapevo che da adolescente fossi…
-Completamente rincitrullito?
-No, stavo per dire gay.
-Solo completamente rincitrullito, fidati.

«Ma come, dolcezza! Insomma, non è evidente? Le ragazze sono belle perché…».

-Scusa, possiamo saltare la lezione di educazione sessuale, non credo di farcela.
-E poi sarei io il gay?

«…ad ogni modo, l’importante è che tu comprenda il nodo della questione. Devi crearti degli amici veri. Amici veri, che siano persone vere. Non robot o giocattolini vari. Ne basterebbe anche uno. Un buon amico vero. Mi capisci, dolcezza?».
«Sì, mamma. Credo di sì».
«Bravo il mio ometto!». Mia madre aveva il vizio di applaudire quando le cose andavano come diceva lei. «Quindi, riassumendo, cos’è che devi fare d’ora in avanti?».
«Crearmi una persona vera».

-Fammi indovinare. È stato in quel momento che hai deciso di creare l’attuale Jarvis?
-Esattamente.



***



«C’è una cosa che non capisco, però».
«Spara, Bruce».
«Dove si incastrano di preciso le spogliarelliste, in questa storia?».
Tony ghignò.
«Ah, vedo che non ti sei distratto, questa volta. Non sulle parti importanti, almeno».
Bruce provò a nascondere l’imbarazzo schiarendosi la voce.
«Era solo semplice curiosità».
«Comprensibile». Tony agitò la mano, come per scacciare una mosca. «Comunque sia, le spogliarelliste si incastrano poco dopo. Alla fine mia madre l’ha organizzata davvero, la festa, e mio padre ci ha messo del suo ingaggiando due spogliarelliste per movimentare la serata. Ho il sospetto che mia madre gli avesse parlato del mio scetticismo riguardo le attrattive del genere femminile».
Bruce fischiò.
«Certo che tuo padre era davvero un uomo affettuoso!».
«Affettuoso un corno! Non hai sentito quello che ti ho appena raccontato?».
«Dal momento che non sono sordo, direi di sì».
«Mi ha fatto uccidere Robot Jarvis, come fai a dire che era affettuoso!».
Bruce allargò le braccia, come per dire “Non è ovvio?”.
«Lo ha fatto per il tuo bene! Era preoccupato per te. Se non fosse stato per lui, probabilmente oggi saresti su real time, come quel tipo che invece di vivere con la gente vera, si è creato una famiglia con dei pupazzi gonfiabili».
«Pffff. Ma smettila, sei ridicolo!».
«Ti giuro, l’ho visto ieri ed è stato inquietante. Quel tipo ha affibbiato dei nomi e delle personalità a ciascun pupazzo. Quello a forma di drago si chiama Lucy e lo considera sua moglie». Bruce additò Tony con sguardo serissimo. «Tuo padre ha fatto benissimo. Anzi, considerato quello che è successo lo scorso Natale, con quella cinquantina di armature, ha fatto anche poco. Dai retta a me».
Tony si tappò le orecchie e si alzò di scatto dalla poltrona.
«Okay, basta. Direi che per oggi ne ho avuto abbastanza di psicoanalisi».







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Note autore:
Storiella scritta per sgranchirmi le dita. Devo dire come sempre grazie a Dragana, perché ha assecondato i miei sproloqui sul Signor Stark Sr e sulla Signora Maria e poi mi ha convinto a scrivere questa storia. Chissà dove sarei senza di lei!
Nel mio headcanon il Tony Stark adolescente era un nerd incagabile al limite dell’asocialità. In effetti, questa storia può considerarsi un prequel/missing moment di un’altra mia storia: L’espressione della giraffa.
Per la cronaca, la storia del tizio e dei pupazzi gonfiabili è vera!
Ho preferito inserire qui questa one-shot perché è il naturale proseguimento di "Problemi esistenziali", ossia il capitolo precedente.
Grazie mille in anticipo a chiunque passerà da qui, speriamo che l’ispirazione non latiti più come prima.
A presto, vannagio
   
 
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