Nemmeno a dirlo, dopo quell’incontro Aomine non aveva
più avuto notizie di Kise se non per informazioni casuali riguardanti i servizi
sul basket scolastico, o qualche foto vista di sfuggita su riviste notate per
caso negli espositori esterni dei negozi. Da quanto ne sapeva lui, Satsuki non
aveva avuto più fortuna, anche se non si era di certo sprecato a fare domande;
la ragazza aveva quella cosa scomoda chiamata “intuito femminile” che si era
sempre rivelato un mix letale insieme agli anni di amicizia e al suo spirito di
osservazione, rivolto a Daiki più che a chiunque altro. Era chiaro che se
avesse fatto domande, ne avrebbe guadagnato solo seccature.
Senza contare che non aveva alcuna intenzione di saperne nulla.
La sensazione di avere qualcosa che sfugge alla propria
comprensione era già di per sé fastidiosa. Nel caso di Aomine, si mescolava con
altre cose, rendendo il tutto ancor più irritante; a cominciare da quella mezza
specie di dichiarazione: già considerarla tale – perché, doveva arrendersi e
ammetterlo, era di quello che si trattava – gli causava confusione. In aggiunta
era arrabbiato per ragioni che andavano dal modo di fare di Kise in quella
circostanza, al suo non avergli dato quasi modo di ribattere, al lungo silenzio
che aveva preceduto quella confessione a cui lo aveva quasi costretto e a tante
altre cose che il modello gli aveva detto.
Mettere ordine a tutto aveva richiesto giorni, perché Daiki era sempre stato il
tipo di persona che non rimuginava troppo e aveva bisogno di più tempo degli
altri per assimilare, specie se nel processo doveva anche sbollire una testarda
irritazione che – per certi versi – non sarebbe toccato nemmeno a lui provare.
Non avrebbe saputo dire nemmeno a distanza di due intere settimane come aveva
preso la dichiarazione di Kise. Daiki amava le ragazze dal seno prosperoso e
questo lo sapevano probabilmente anche i muri della scuola ormai, ma non è che
avesse mai avuto grossi problemi nei confronti di quelli a cui piaceva gente
dello stesso sesso… o almeno pensava, ma c’era da dire anche che non gli era
mai capitato di vederne uno o di conoscerlo. Insomma, sapeva che esistevano e
non gli interessava molto, perché dopotutto non influenzava in alcun modo la
sua vita.
Almeno finora. Perché a quanto sembrava anche Kise era così, o almeno era
convinto di esserlo o Dio solo sapeva cosa passava per la testa dell’ex
compagno; Aomine però era certo che non si trattasse affatto di uno scherzo –
visti i toni della discussione ne dubitava fortemente – ed era anche abbastanza
sicuro che nemmeno Ryouta avrebbe mai detto una bugia così di cattivo gusto.
Perciò per quanto strano suonasse e sembrasse, rimaneva il fatto che Daiki
doveva entrare nell’ottica di aver ricevuto una dichiarazione da un ragazzo.
A dire il vero, non era proprio così. Credeva, anche se cercava di non pensarci
troppo all’inizio, che se si fosse trattato di un ragazzo qualunque sarebbe
stato molto più semplice: Daiki non si sarebbe sentito in dovere di considerare
troppo i sentimenti altrui, o avrebbe comunque trovato molto facile dire
semplicemente “no, grazie” e girarsi dall’altra parte, con la certezza che
raramente avrebbe incrociato di nuovo l’altra persona e che la prospettiva non
lo disturbasse affatto.
Ma Kise non era “chiunque”, per quanto Daiki nel formulare quel pensiero non vi
avesse attribuito un significato romantico. Una delle cose che più lo irritava,
tuttavia, era che le parole di Ryouta in merito al suo comportamento ai tempi
delle medie non erano sbagliate. Aveva ragione, anche se a Daiki costava
ammetterlo: aveva avuto un pessimo comportamento e, per gentilezza o per
disinteresse, nessuno della sua ex squadra glielo aveva rinfacciato o
rimproverato. Se da parte di Midorima o Murasakibara era tutto sommato
comprensibile o non sorprendeva, dato il loro rapporto all’epoca affatto stretto,
non c’era poi da stupirsi se non si poteva dire altrettanto di Kise e Kuroko.
Erano stati, in un certo senso, i due a stargli più vicini e a instaurare con
lui il rapporto più stretto… anche se, era evidente, non vi attribuivano lo
stesso significato.
Daiki sapeva di essersi comportato in modo ben lontano da come farebbe un vero
amico ed era anche per quella consapevolezza che, ora, non riusciva ad
archiviare l’accaduto come se Kise fosse uno qualunque. Forse sentiva di
doverglielo, in qualche modo, un po’ come sentiva che la strada per far tornare
le cose a posto con Tetsu era ancora lunga. La sola differenza era che con
Kuroko non c’era niente più che quello: una vecchia amicizia da recuperare,
facendosi perdonare a piccole dosi, senza realmente bisogno di scuse
pronunciate ad alta voce e che sarebbero state ben poco da Aomine.
Daiki sapeva che il giocatore del Seirin non se le aspettava, che con ogni
probabilità era già felice del risultato ottenuto – grazie anche a Kagami,
andava detto – di farlo rinsavire e di averlo reso più simile all’Aomine di un
tempo, che riusciva a divertirsi senza troppe pretese.
Kise, invece?
Lui non sapeva dire cosa si aspettasse il modello, a quel punto, e questo non
lo aiutava dal momento che per quanto andasse in giro a vantare grande
esperienza in fatto di gusti sulle donne e quant’altro, in una cosa lui e
Ryouta erano simili: si erano persi – l’un l’altro, ma anche in se stessi – e
non erano in grado di ritrovarsi più.
Né da soli, né con l’aiuto di qualcun altro.
Quando dopo settimane di inutili congetture persino
Aomine, più irascibile del solito, si era arreso sia a trovare una personale
risposta che a decidere se fosse meglio contattare il modello o meno; e se
anche aveva desiderato un aiuto di certo qualcuno lassù doveva aver male
interpretato.
Daiki ammetteva che forse avrebbe
potuto spiegare a grandi linee il problema a Satsuki e che, forse, lei avrebbe saputo cosa fare –
qualcosa gli suggeriva che la scusa del “un mio amico mi ha detto che…” non
avrebbe mai retto con lei, meno che mai dire che si trattava di una questione
di squadra: sarebbe stato fin troppo facile per la ragazza sia smascherarlo,
sia capire che mentiva. Aomine non era mai stato il tipo da interessarsi degli
affari degli altri, visto che a malapena teneva a mente i suoi e solo una
parte, visto che per il resto Momoi gli faceva da balia da che entrambi avevano
memoria.
Tuttavia il suo essere sceso a patti con l’evidente bisogno di un aiuto
esterno, almeno se aveva intenzione
di non lasciare che la situazione peggiorasse più di così, trasformando il
mutismo da parte di Kise in una solida e duratura realtà, non significava che
gli andasse bene chiunque.
Né che fosse di umore migliore al punto da avere voglia di gioire
nell’incrociare quel nano malefico amico del modello.
Invece evidentemente non poteva scampare, considerando che proprio in quel
momento Akira lo stava guardando con la stessa – ironica – felicità per
quell’incontro casuale.
Aomine analizzò la situazione velocemente: visto che nonostante la differenza
di altezza aveva avuto modo di constatare che l’altro picchiava abbastanza – e
che l’ora capitano Wakamatsu lo avrebbe ucciso a suon di insulti, urla e
ramanzine se avesse causato grane facendo ricadere il tutto sulla sua carriera
sportiva – era assai probabile che attaccare briga non fosse una grande idea.
Specialmente perché l’altro teneva con sé un cestino della spesa mezzo pieno
che, Aomine sospettava, non avrebbe fatto bene lanciato addosso.
Daiki non riuscì a risparmiarsi un verso stizzito, pur riportando lo sguardo
sullo scaffale davanti a sé, senza salutare né altro; vide con la coda
dell’occhio che l’altro si stava muovendo in sua direzione, ma sembrava anche
intenzionato a passare oltre, cosa che fu confermata dal suo sparire dal campo
visivo di Aomine… per ricomparire vicino a lui, sguardo sullo scaffale e
sospirando.
Stava già per aprire bocca, contro ogni considerazione fatta, quando l’altro lo
anticipò.
«Jun dice che ti devo delle scuse.» esordì senza guardarlo, come se stesse
parlando del più e del meno per ingannare il tempo mentre decideva quale marca
di salsa di soia fosse migliore «E anche se ti considero un ragazzino idiota e
irritante, ammetto che in ospedale non ero esattamente calmo e lucido. Quindi
me la sono presa con te – non che non te lo meritassi, ma magari avrei dovuto
prima insultarti e al massimo poi
darti un pugno.» pronunciò, cercandolo con la coda dell’occhio.
«Senza contare che tu hai la stessa età di Ryouta, giusto? Quindi sei minoren—»
«Kise.» sbottò Aomine, ritrovandosi a puntualizzare qualcosa di sostanzialmente
inutile senza nemmeno rendersene conto. Se ne accorse quando vide Akira
inarcare un sopracciglio.
«Lo so come fa di cognome.» fece notare, non senza una sottile ironia nel tono «Ma
Jun lo ha sempre chiamato “Ryouta” da quando l’ho conosciuto, e l’ho fatto
anche io.» aggiunse, anche se non sembrava granché convinto di dovergli una
spiegazione; cosa che sottolineò ulteriormente sorridendo appena e continuando
con un: «Non dovrebbe preoccuparti di più il fatto che dopo tanti anni di
amicizia ancora usiate i cognomi? Non pensavo che i mocciosi di oggi badassero
troppo a queste cose, nonostante tutto.»
Era un commento provocatorio, lo sapeva Akira e lo sapeva Aomine. Per sfortuna
di Daiki – e fortuna dell’altro – era stato rivolto alla persona giusta;
nonostante si sentisse ancora più irritato, il giocatore affossò le mani nelle
tasche, concentrandosi maggiormente sulla merce che vedeva, pur non
interessandogli affatto.
Akira lo osservò per qualche istante ancora, sospirando e allungando una mano
verso una boccetta di salsa di soia, riponendola accuratamente nel cestello.
«Beh, in ogni caso salutamelo se lo vedi e digli di resuscitare.» disse
solamente, con un cenno della mano a mo’ di saluto.
Quello non era il tipo di aiuto che voleva. Piuttosto, Aomine si sarebbe fatto
schiavizzare da Wakamatsu, perché quell’Akira non riusciva a digerirlo ora e
dubitava che le cose sarebbero mai cambiate.
Tuttavia non poté trattenersi dall’avere l’ultima parola – anche se, e si
sarebbe maledetto più avanti probabilmente, la frase di per sé doveva averlo
tradito subito alle orecchie di Akira: «Tch, sempre
che decida di farsi vivo.» commentò acido, dando le spalle alla direzione presa
dal più grande e facendo per andare oltre.
O così aveva intenzione di fare, finché non si sentì tirare per il braccio e si
ritrovò a voltarsi verso Akira, la cui espressione non aveva alcuna nota
ironica, cosa che almeno a vederlo lo rendeva meno antipatico. Anche se Daiki
credeva che non appena avesse aperto bocca, quella breve impressione sarebbe
stata spazzata via.
«Vuol dire che non lo senti dall’ultima volta che vi siete visti?» domandò a
bruciapelo e senza tante cerimonie, lasciando intendere facilmente che doveva
averli visti. Per un istante Aomine trasalì: non avrebbe saputo dire se ad
infastidirlo fosse il pensiero di essere stati spiati in un momento tanto
privato come si era rivelato essere il suo ultimo incontro con Kise, o se fosse
sapere che quel tizio fosse a conoscenza dei fatti suoi e magari usasse la cosa
per sfotterlo ad ogni occasione in cui si incontravano.
«Che ne sai tu.»
«Vi ho visti.» tagliò corto Akira: «Non che vi abbia seguito comunque, ero con altre
persone dell’università.» chiarì. Se perché avesse intuito a cosa fosse dovuta
la stizza di Aomine o meno, quello Daiki non avrebbe saputo dirlo: «Allora?
Niente di niente?» lo incalzò nuovamente.
«Niente.» ringhiò Daiki a mezza bocca allontanando il braccio dalla sua presa.
Lo vide, in sequenza, alzare gli occhi al soffitto e poi scuotere la testa. Il
gesto con cui Akira abbandonò la presa sul più giovane, portò la mano in tasca
estraendone il cellulare e – dopo pochi gesti – portò il telefono all’orecchio
fu veloce e meccanico.
Dopo troppi pochi istanti perché Aomine registrasse il tutto, chiunque fosse
dall’altra parte doveva aver risposto perché Akira parlò, o forse interruppe il
suo interlocutore: «Dove diamine sei finito, Ryouta.»
Evidentemente c’era Kise, dall’altro capo.
Kise aveva passato giorni a maledirsi in ogni modo
possibile: nemmeno buttarsi a capofitto nel lavoro o nello sport sembrava
essere d’aiuto, stavolta.
Non credeva ancora di aver veramente detto la verità. In altre circostanze
avrebbe avuto molte cose di cui stupirsi, a cominciare dall’aver avuto così
poco controllo da ritrovarsi a vuotare il sacco fino ad arrivare al modo
rancoroso in cui aveva rinfacciato ad Aomine cose taciute per anni.
Ma quello che lo confondeva di più era sapere cosa comportasse ciò che aveva
detto, oltre che averlo fatto di per sé.
Non era pronto, non lo era stato mai, e si era anche convinto che non lo
sarebbe stato in futuro e che tutto quello avrebbe fatto in tempo ad
affievolirsi fino a scomparire, lasciandolo libero da un peso che non riusciva
a gestire.
Ora aveva parlato, il peso in teoria non avrebbe più dovuto esserci, invece era
lì ed era peggio di prima. Immaginare il perché avesse quella sensazione non
era difficile: il rifiuto di Aomine era qualcosa che aveva messo in conto dal
principio, sempre ammesso che un giorno fosse riuscito a dirglielo. Quello che aveva
fatto, però, era stato più che imporre i suoi sentimenti: aveva preso tutto ciò
che di negativo aveva e lo aveva riversato su di lui. Anche cose vecchie, cose
che avrebbe potuto rinfacciargli ma con i tempi giusti – aveva poi senso fargli
capire ora quanto avesse odiato quel suo reputare importante, o un amico, o
qualsiasi cosa fosse stato Kuroko? No.
Odiava averlo fatto, ma odiava ancora di più sentire di essersi tolto una
soddisfazione e il fatto che la considerasse tale e non un “peso”, segno di
quanto in fondo di lui fossero cambiate davvero poche cose. Il basket, quello
sì: non giocava più per noia, o con l’arroganza di chi non ha mai fallito;
oltre a quello però era ancora fermo nel passato, fermo ad essere una persona
capace di sorridere perché comodo e perché facile, perché spianava la strada ed
evitava fastidi inutili.
Fermo ad essere quel falso gentiluomo che così nobile come si credeva non era
mai stato davvero.
Era come un quadro colmo di brutture impresse sulla tela, e non importava
quanto bella e preziosa fosse la cornice, perché quell’ammasso di orribili
colori non sarebbe cambiato mai.
Non aveva evitato Jun e Akira volutamente: era solo che prima di dire al
collega e amico ciò che era successo aveva bisogno di analizzarlo con un minimo
di lucidità lui stesso, e sembrava stare impiegando più tempo del previsto. Non
riusciva a pensare di essere stato tanto stupido,
né aveva idea di come ammetterlo – e di come farlo avrebbe potuto in qualche
modo migliorare la situazione. Non credeva ci fosse una regola specifica per
cose come quella… e dubitava, quindi, che Jun avrebbe potuto aiutarlo.
Però Kise non aveva bisogno di gentilezze, o meglio temeva che quante più
l’altro gliene avrebbe rivolte per una sorta di solidarietà, tanto peggio si
sarebbe sentito.
Quando sentì squillare il telefono, quindi, si sorprese di vedere sullo schermo
il nome di Akira.
Inspirò e pigiò il tasto per avviare la chiamata: non farlo sarebbe stato
strano, tra l’altro.
«Akira, come mai mi chia—»
«Dove diamine sei finito, Ryouta.» lo sentì interromperlo dall’altra parte del
telefono.
Istintivamente, Ryouta pensò in fretta a cosa potesse giustificare quel
“saluto”: era certo di non avere chiamate perse, quindi era da escludere che
l’altro fosse seccato per non aver ricevuto prima una risposta. Jun lo aveva
incrociato brevemente un paio di volte al lavoro, senza la possibilità di
fermarsi a parlare, ma gli era sembrato tutto a posto.
«Se ha riattaccato gli—»
«Ci sono, ci sono.» si affrettò a chiarire, dando per scontato che parlasse fra
sé e sé o al massimo a Jun: «Adesso sono poco lontano da uno studio di
fotografia.» disse «E ho appena finito di lavorare.»
«Sì, non me ne frega di quello.» tagliò corto Akira, impaziente.
«Ma mi hai chiesto dove sono.» ribatté Kise, iniziando ad essere seccato. Aveva
capito che Akira aveva una gentilezza diversa da quella di Jun, che era pacata
e ti faceva sentire tranquillo; Akira era brusco, più burbero, e Kise
apprezzava comunque quel che di buono l’altro cercava di fare per lui,
specialmente perché avrebbe potuto anche disinteressarsi completamente della
cosa. Dopotutto Ryouta era amico di Jun, inizialmente, non di Akira – e a dire
la verità non sapeva ancora come definire l’altro, probabilmente perché non
riusciva a inquadrarlo del tutto.
A prescindere da quanto brusca fosse l’indole altrui, tuttavia, Kise a volte
trovava seccante il modo di porsi dell’altro: gli sembrava fin troppo impulsivo
– e ancora cercava di capire se Jun, parlandogli di quanto calmo fosse Akira,
non si fosse confuso con qualcun altro – e spesso chiedeva le cose come se
fossero così ovvie da non aver bisogno di essere spiegate.
«Ti ho chiesto dove sei finito.» puntualizzò l’altro «Visto che a quanto pare
Jun e io non siamo gli unici a non avere notizie di te. A parte sapere da Jun
che ti vede ogni tanto che sei ancora vivo. E dal momento che l’ultima volta
eri in compagnia, e ora il tuo amico mi dice che non ti vede da allora, se hai
deciso di suicidarti in casa tra le tue cremine per
il viso almeno lo vorrei sapere.» fece ironico.
Se Kise non fosse stato confuso dalla “compagnia” a cui Akira stava facendo
riferimento, fosse avrebbe ridacchiato per quell’uscita. Per quanto ne sapeva,
però, c’era un solo suo amico che Akira avesse conosciuto tanto da poterlo
distinguere incontrandolo di nuovo. Anche senza sapere che li aveva intravisti
parlare l’ultima volta, indovinare non era così difficile.
«…Sei con Aomine?» domandò, il tono che sarebbe voluto sembrare calmo o almeno
distaccato e che invece dubitava suonasse almeno in uno dei due modi.
«Chi altri vuoi che sia.» fece presente Akira,
ignorando Aomine che di fronte a lui sembrava sempre più tra lo scocciato per
essere stato trattenuto e per quella chiamata improvvisa a Kise e l’impaziente.
Normalmente, a dirla tutta, Akira si sarebbe ben guardato dal mettersi in mezzo
a questioni che non lo riguardavano. Più che menefreghismo, era una sorta di
empatia tutta sua: odiava che i propri affari privati venissero sbandierati ai
quattro venti, e non gli piacevano nemmeno le persone che si mettevano in
mezzo. Se prendeva tanto sul personale quel che succedeva a Kise non era
nemmeno per chissà quale istinto di protezione verso di lui.
La verità era che un pochino, in minima parte, gli ricordava Jun. O meglio, ciò
che lui aveva fatto passare a Jun prima che la loro relazione diventasse
qualcosa di definitivo. Certo, in molte cose non erano proprio nella stessa
situazione – e Akira si rifiutava categoricamente di accostare la propria
figura a quel tizio, lì – ma sapeva che Jun aveva dovuto mettere insieme tanto
coraggio per parlargli a cuore aperto, che era stato difficile tanto venire a
patti con la consapevolezza di essere innamorato di un uomo, quanto lo era
stato aspettare che lui fosse pronto a dargli una risposta.
Sapeva che Kise non era Jun, e che considerarlo tale non fosse nemmeno del
tutto giusto, che non ci fosse nulla per cui doveva ancora farsi perdonare e
soprattutto che Ryouta non sarebbe mai potuto essere un modo per espiare chissà
quale colpa. Eppure Akira aveva avuto la sensazione, fin dalla prima volta in
cui il modello era andato a casa sua, che Kise avesse davvero bisogno di aiuto
rispetto a Jun.
Magari il suo istinto sbagliava, ma non avere la certezza di essere in torto
gli impediva di disinteressarsi e lasciarlo fare per conto suo.
Sospirò: doveva davvero smettere di prendersi a cuore gente così problematica.
«Senti» riprese con più calma «non so cosa vi siete detti, e non sono affari
miei. Dico solo che farci sapere se è tutto a posto sarebbe d’aiuto.»
«Gliel’ho detto.» sentì pronunciare dall’altra parte, e prima che potesse
chiedere di cosa stesse parlando lo aveva già capito – e, in ogni caso, Kise
non gli diede modo di fare altre domande: «Gliel’ho detto.» ripeté, e dal tono di
voce Akira capì che non si trattava certo di “far avere sue notizie” ad Aomine.
Ricollegò in un istante l’averli visti mentre passava e l’impressione che aveva
avuto che non fosse esattamente un chiacchierare del più e del meno, il loro.
Ringraziò mentalmente il suo buon senso per non aver tenuto troppo l’attenzione
sui due, quella volta, rischiando di far sì che anche i suoi colleghi li
notassero.
Guardò Aomine, di fronte a lui.
«Devo dirgli qualcosa?» chiese a Kise ma, tenendo lo sguardo anche su Daiki, la
domanda era tacitamente rivolta ad entrambi; forse lo intuì anche Ryouta, che
frettolosamente pronunciò un: «No.» che non lasciava spazio a ripensamenti.
Aomine fece per dire qualcosa, ma parve cambiare idea.
«D’accordo.» riprese Akira, rivolto unicamente al modello stavolta: «Se nel
week-end sei libero, passa da casa.» aggiunse soltanto, chiudendo poco dopo la
chiamata.
Osservò lo schermo del cellulare, indeciso, finché questo non si spense
automaticamente. Scosse appena la testa, riponendolo in tasca e spostandosi
leggermente sulla destra. Recuperò un panino del convenience store e lo
lanciò ad Aomine, che lo prese al volo guardandolo confuso.
«Fammi compagnia a pranzo.» esordì Akira «Offro io.»
Se all’ospedale avessero detto ad Aomine che sarebbe giunto il giorno in cui
avrebbe mangiato con il tipo che gli aveva dato un pugno, avrebbe sinceramente
preso per pazzo chiunque fosse stato a sostenere una tale assurdità.
Non che Akira avesse parlato granché, in effetti. Daiki aveva accettato
l’invito solo perché convinto, forse, che sarebbe arrivata una spiegazione che
avrebbe evitato ai suoi nervi di peggiorare, una qualche frase rivelatrice su
quanto Kise fosse impazzito per il troppo stress del lavoro o – che ne sapeva –
perché magari il nuovo capitano del Kaijou lo picchiava troppo forte e alla
fine i danni si erano fatti evidenti.
Ma Akira quel giorno non gli aveva detto nulla di tutto questo. Ad un certo
punto, a panino praticamente quasi finito senza che nessuno dei due avesse
detto una sola parola, Aomine si era chiesto se non fosse stata solo una grande
perdita di tempo.
Akira aveva mangiato in silenzio e con calma. Daiki a vederlo non era riuscito
a capire se quel tizio fosse il ragazzo calmo di quel momento, o quello
impulsivo che ti prendeva a pugni ancor prima di presentarsi.
Aomine non era paziente, ma non lo aveva incalzato in alcun modo: un po’ per
orgoglio – non voleva dargli la soddisfazione di vederlo preoccupato per ciò
che riguardava l’ex compagno di squadra –, un po’ perché non era facile affrontare
l’argomento.
Quando aveva fatto per alzarsi, arrendendosi all’evidenza che l’unica cosa
degna di nota fosse stata farsi offrire del cibo, Akira aveva stappato una
bottiglietta d’acqua presa dalla borsa, ne aveva bevuto un sorso, e poi aveva
parlato: «Non penso che tu debba preoccuparti troppo dei sentimenti di Ryouta.»
aveva esordito e Aomine si era sentito preso alla sprovvista e messo a nudo al
tempo stesso – due pessime sensazioni che lo avevano portato a lanciargli
un’occhiataccia.
Akira aveva incurvato le labbra in un sorriso leggero ma divertito, come se
Aomine gli avesse appena dato conferma di qualcosa che non doveva nemmeno aver
messo in dubbio a lungo, dal momento che non era sembrato affatto sorpreso: «Quello
che voglio dire» aveva ripreso alzandosi, senza fretta «è che quello che prova
Ryouta lo sai già. Non c’è molto da pensarci su, mi sembra di aver capito che
lui sia stato piuttosto esplicito. Sarà una cosa da modelli, probabilmente.»
aveva commentato, in un chiaro riferimento a Jun che Daiki ignorò totalmente,
perché non gli interessava minimamente il paragone.
Era già tutto abbastanza incasinato senza preoccuparsi della coppietta felice.
Akira aveva sistemato la cinghia della tracolla sulla spalla sinistra,
apparentemente pronto per andare via: «Il problema è quello che tu provi per
Ryouta. Sinceramente ho una mia idea, ma sono cose vostre in cui penso di
essermi già immischiato più di quanto volessi fare.» aveva ammesso «Io non ti
conosco, ma che non ti venga in mente di rispondere a Ryouta con l’idea di
mantenere l’amicizia o qualsiasi cosa sia quello che avevate prima. Perché
faresti un casino. Mettiti in testa che sì, se tu non provi la stessa cosa è
probabile che Ryouta per un po’ non si farà vivo con te. Non che sia molto
diverso da quello che succede quando al suo posto c’è una ragazza, comunque. Ma
ricordati anche che se ti muove la pietà, quando lo scoprirà – perché succederà
– allora stai sicuro che avrai fatto la peggior scelta possibile.» aveva
concluso, muovendo qualche passo e alzando una mano in cenno di saluto.
Aomine aveva fatto un verso stizzito, di nuovo.
Più che risolta, la questione era ancora più incasinata di prima.
«Ohi, Ahomine!» lo richiamò la voce irritata di Kagami, che aveva appena fatto
canestro.
Aomine sentì la palla rimbalzare alle proprie spalle, almeno un paio di volte –
l’altro probabilmente doveva averla presa fra le mani – e si voltò, l’aria
seccata. Si ritrovò davanti lo specchio della propria espressione, messa su da
Kagami e accompagnata da uno sbuffo affatto difficile da cogliere.
«Che vuoi.»
«Sembri una mezza sega, se giochi così faccio prima a giocare da solo!» sbottò
Taiga, il tono che era a metà tra il rimprovero e la provocazione. Aomine portò
una mano a grattarsi dietro la nuca, scompigliando appena i capelli umidi per
il sudore. Stava giocando da più di un’ora, e non aveva quasi idea di cosa
avessero fatto lui o Kagami per andare a canestro; ed era preoccupante, visto
che quando si vedevano a quel campetto per un uno contro uno a volte non se ne andavano
prima che facesse buio o anche oltre, perdendo completamente la nozione del
tempo.
Quando giocava a basket, Aomine non aveva in testa altro che quello – per la
verità lo aveva in testa anche quando avrebbe dovuto pensare ad altro come studiare,
tanto per dirne una – e lo stesso poteva dirsi di Kagami; era come essere nella
zone, solo che entravano in due e
uscivano in due, ed era fatta di passaggi, finte e una serrata (quasi) lotta
punto a punto.
Odiava la sensazione di perenne distrazione degli ultimi giorni, soprattutto
adesso. Anche perché implicava dare ragione a Kagami.
«Ohi» lo richiamò nuovamente quest’ultimo, l’espressione ora quasi preoccupata
– Cristo, pensò, perché se arrivava a
scatenare in Taiga l’istinto materno o qualunque cosa fosse doveva avere
un’aria peggiore di quanto credesse – «se hai un problema basta che lo dici.»
buttò lì l’altro con fare burbero, probabilmente non volendo far trapelare la
preoccupazione per orgoglio.
Dio. Era arrivato davvero al punto in
cui portava Kagami a chiedergli
indirettamente di confidarsi con lui?
Imprecò mentalmente, traducendo il tutto in un mezzo verso stizzito.
«Lascia perdere.» ribatté a denti stretti, tornando in posizione sistemandosi
di fronte a lui. Kagami lo guardò sospettoso e iniziò a far nuovamente
rimbalzare la palla a terra.
Dieci minuti dopo erano di nuovo fermi, vicini alle borse e impegnati a bere,
l’umore di Aomine che andava peggiorando a vista d’occhio; mancava solo che
ringhiasse e mostrasse i denti apertamente.
«Diciamo» iniziò quando ormai Kagami doveva aver perso la speranza sia nell’uno
contro uno che nel cercare di capire cosa stesse succedendo «che uno che
conosci è fissato con una cosa.»
«Per esempio? Da mangiare?»
«No, tipo una parte del corpo.»
«…Ha problemi di salute?»
«Cazzo, no!» lo guardò allucinato – perché, si chiese, perché sperava di poter
spiegare la cosa a Kagami senza
renderla comica o imbarazzante.
«E allora spiegati senza girarci intorno!» sbottò Taiga, spazientito: «Sei lì a
prendere il discorso alla lontana e nemmeno ci sto capendo niente. Dimmi che
problemi ha questo tizio e basta!» concluse, chiudendo la borraccia con un
colpo secco.
«Va bene!» si arrese, scocciato «Se ti sono sempre piaciute le tette e uno
viene a dichiararsi, che fai?» suonò idiota persino a lui, e sperò per una
volta che Kagami non tirasse fuori il suo intuito da animale che generalmente
veniva fuori con il basket. Di contro, Taiga si chiese quando Aomine lo credesse
stupido per non rendersi conto che il “tizio” era il classico esempio di “ho un
amico che”, una tattica che non funzionava mai, specialmente se usata da Aomine
che non aveva neanche l’accortezza di cambiare i particolari per non essere
scoperto.
Non ebbe davvero la forza di dirgli che o aveva un gemello da cui era stato
diviso alla nascita e che casualmente aveva i suoi stessi gusti, o era palese
che si stesse parlando proprio di Daiki; ebbe un picco di sensibilità in cui si
rese conto che avrebbe creato solo caos nell’inutile tentativo di negare da
parte dell’ace della Touou.
Si massaggiò le tempie: nemmeno nei suoi peggiori incubi si era mai ritrovato a
fare da consigliere amoroso ad Aomine, né da psicologo, e sperava che quel
momento non sarebbe mai arrivato. Dubitava di poter fuggire, comunque.
«Se ti piacciono le donne e ti si dichiara un uomo…
lo rifiuti?» gli fece notare, come se fosse la cosa più ovvia – lo era,
insomma, non vedeva quale fosse il problema.
«E se non puoi?»
«Che vuol dire se non puoi? Certo che puoi!»
«Sì ma diciamo che puoi farlo, ma questo qui è una specie di amico.»
«Aomine, se non ti piace non ti piace e basta. Oppure sì?» azzardò, vedendo l’altro
irrigidirsi appena con le spalle e guardarlo storto.
«Non stiamo parlando di me.»
«…Come ti pare. Se a questo tizio» calcò perché, davvero, che senso aveva se Aomine sapeva che
lui sapeva? In momenti come questi avrebbe gradito la presenza di Kuroko come
poche altre cose; la brutale schiettezza dell’altro avrebbe fatto comodo «non è
interessato non ci può fare niente. Se invece è interessato è un altro discorso.»
Tacquero entrambi, per una manciata di secondi che fece credere a Kagami che il
discorso fosse morto così, senza una vera risposta da parte di nessuno dei due.
«Come lo capisce se è interessato?»
No, si disse Kagami. Non glielo aveva chiesto sul serio, quello non era Aomine
e lui si sarebbe svegliato da quell’incubo causato sicuramente da una cena
troppo pesante la sera prima.
Forse doveva avergli lanciato un’occhiata significativa, perché Aomine decise
che riformulare la frase poteva essere un buon modo per salvare la faccia – sua
e del presunto amico in difficoltà.
«Uno dovrebbe essere schifato, no?» se ne uscì «Ti
piacciono le donne e ti si dichiara un uomo. Se ci penso non ho dubbi sul “no”
schifato che risponderei.»
«Ma questo tuo amico invece non è schifato.» azzardò Kagami.
«Non proprio. Non credo. Non come uno dovrebbe essere.»
Kagami fece rimbalzare un paio di volte il pallone a terra, pensandoci su. Non
aveva la stessa capacità di Kuroko di dire certe cose o affrontare determinate
situazioni – tra l’altro quella sfiorava il surreale –, ma dire la sua non gli
sarebbe costato granché e lui non era esattamente tipo da indorare la pillola.
E con Aomine non sembrava nemmeno sensato farlo.
«Secondo me a una persona non cominciano a piacere gli uomini o le donne all’improvviso.»
iniziò, anche piuttosto serio, senza cercare un contatto visivo con l’altro: «Però
in un certo senso non è così importante. Voglio dire, se dovesse piacergli sul
serio, che cambia se è uomo o donna.» fermò il pallone, tenendolo in una mano
sola, portando l’altra alla nuca, non riuscendo a spiegarsi come avrebbe
voluto. Era difficile, perché per lui era un concetto naturale – forse da quel
punto di vista l’America lo aveva aiutato parecchio. Sicuramente erano più
aperti che in Giappone.
«Insomma è chiaro che qualcosa cambia.» si corresse «Ma io non ci trovo niente
di male. Ho conosciuto diverse persone a cui piacevano quelli dello stesso
sesso, o anche tutti e due i sessi. Erano tutti tipi a posto, poi penso che non
è a me che deve interessare cosa fanno a casa loro, no?» disse con fin troppa
naturalezza, portando finalmente lo sguardo su Aomine, che sembrava confuso e
basito al tempo stesso.
«Quindi boh, dì al tuo amico che basta che è contento e convinto lui e il resto
dovrebbe andare a posto da solo. Credo.» concluse.
Aomine non aveva nulla da dire: né che non si sarebbe mai aspettato un discorso
così serio proprio da Kagami, né che avesse ragione, né che quella
chiacchierata gli fosse stata d’aiuto.
Una risposta, lui, non l’aveva comunque.
«Il bagno è libero!» disse, alzando appena la voce e passando davanti al
soggiorno, diretto in cucina. Dalla sala gli arrivò in risposta un “grazie” di
suo padre; sua madre, di spalle rispetto all’ingresso della cucina, stava
finendo di lavare i piatti usati durante la cena. La affiancò, aprendo lo
sportello del frigorifero e sbirciando dentro.
«Ryouta, già che ci sei, tira fuori la birra dal congelatore per favore.» la
sentì dire, mentre sciacquava le ultime ciotole.
«Perché è lì?» chiese, piegandosi comunque sulle ginocchia per recuperare la
bottiglia. La sentì sbuffare appena, con quel modo di fare che lui aveva sempre
associato a qualcosa fatta da suo padre: «Perché tuo padre è testardo, ed è
convinto che quando uscirà dal bagno non sarà abbastanza fredda se messa
semplicemente in frigo.» replicò «Ma è esattamente dove ho intenzione di
metterla, senza che lui lo sappia. Sarà fredda abbastanza e non gli farà male.
Quell’uomo dovrebbe davvero iniziare a fare attenzione a certe cose.» sospirò
rassegnata, facendo sorridere il figlio. Ryouta non ricordava litigi veri e
propri nella sua famiglia, e quel modo di bisticciare che avevano sua madre e
suo padre lo trovava dolce, un modo burbero di preoccuparsi l’uno per l’altra
da tanti anni.
Sistemò la birra come richiesto, allungando poi una mano per recuperare il
succo d’arancia nel frigo; abbandonò il proposito sentendo il campanello
suonare; occhieggiò sua madre, le mani insaponate, che lo guardò di rimando: «Santo
cielo. E mi ero raccomandata con tua sorella di non dimenticare nulla prima di
andare a casa di Kaori-chan.» commentò.
«Vado io, lascia stare.» disse, chiudendo il frigo e raggiungendo l’ingresso
con un “arrivo!”.
Fu felice di non aver portato con sé il bicchiere pieno di succo, perché gli
sarebbe irrimediabilmente sfuggito di mano facendo un gran casino, nel
ritrovarsi faccia a faccia con Aomine.
«Devo parlarti. Puoi uscire per un po’?»
Ho capito che io su Aomine devo penare. Ma tanto. E non
sono comunque mai soddisfatta del risultato XD
D’altronde, un accenno di sua introspezione è d’obbligo e spero sia stato
decente e non esageratamente OOC.
Non ho molto altro da aggiungere, se non che chi ancora riesce a stare dietro a
questa fanfic nonostante i miei tempi di
aggiornamento indecenti merita un biscottino e tanto amore. (L)