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Autore: Yuki_san    01/08/2008    0 recensioni
One Shot! A grandi linee i temi possono essere considertati l'adolescenza e la droga, narrati sotto un'ottica un po' mia personale... LEGGETE e perdonatemi se è scritto in piccolissimo... devo ancora prendere mano con l'html T__T'
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Amaranth

Ciao a tutti… Mi pareva più che dovuto fare la mia prima pubblicazione su EFP con una One-Shot.

L’ho scritta qualche mese fa in preda ai pensieri (che purtroppo riecheggiano tutt’ora) su me stessa e coloro che mi circondano… e per essere sincera sino in fondo, pure per riempire qualche noiosa ora di chimica e matematica…! XD

Mi è ricapitata in mano di recente e ho deciso di darci una sistematina e postarla anche se non è sicuramente la migliore “opera” che avevo in cantiere… spero vi piaccia comunque…

Dato che con i titoli non mi reputo per niente brava (sono un disastro a dirla tutta) ho deciso che le mie fanfic avranno sempre il nome di qualche canzone…

Mi scuso in anticipo per eventuali errori di battitura o concordanza di verbi o all’interno dei periodi…

AMARANTH

“Nightwish” from the album “Dark Passion Play”

“You believe but what you see
You receive but what you give” 

Cosa credessi di poter fare quella notte non riuscirei a spiegarlo con esattezza. Nulla mi sembrava reale mentre tutto attorno appariva sfuocato e privo di una forma concreta...

Il mio era un corpo mosso dalle ingovernabili, disperate emozioni di un’adolescente stupida che si era messa in shorts e canottiera a correre come una pazza per strada, sotto l’acquazzone che era stato stabilito dovesse piombare dal cielo giusto giusto in quei dannatissimi istanti. Le gocce dure e ghiacciate della pioggia che picchiettavano sulla pelle scoperta riuscivano in un certo senso a tener vivo quel briciolo di lucidità necessaria per orientarmi tra i vicoli, le strettoie, i viali squallidi incuneati tra le case ed i magazzini del quartiere. Fradicia fino alle ossa, sentivo che le articolazioni si erano fatte roride e raschianti. I capelli lunghi mi erano serpi brune d’impaccio attorno al viso sfigurato dalla fatica. Ogni altra cosa in me era stata repressa a forza… dall’angoscia che pesava sul respiro di nebbia delle mie labbra infreddolite.

Non esiste sentimento umano più crudele, viscido e distruttivo che l’angoscia a questo mondo. È la sensazione che crea quel groppo alla gola quando ti gettano nell’acqua profonda e tu non sai nuotare, che suscita quel terrore a partire da quell’incubo che ti fa risvegliare svuotato ed agitato nel tuo letto, esplode con quel rumore improvviso che ti colpisce la notte quando stai per addormentarti e ti fa balzare impaurito a sedere con gli occhi spalancati nel buio. Quella mano incorporea ti risucchia l’aria dai polmoni quando cadi preda degli eventi che non puoi cambiare o riavvolgere a tua piacimento come faresti con una videocassetta perché, cazzo, è la tua vita, non un film… anche se ti piacerebbe tanto lo fosse.

Odiavo l’angoscia ma lei per molti anni mi rivolse la sua particolare ed incondizionata affezione: essa mi accompagnava da un’alba all’altra, non mi si scollava mai di dosso poiché preferiva rintanarsi buona buona e zitta zitta nella parte più recondita della mia anima e balzava fuori inopinata senza avvisare, cogliendomi ogni volta impreparata e troppo indifesa per fronteggiarla. Ero vittima di un demone che in fin dei conti, ero stata io stessa a far nascere ed accudire… era una pianta, la mia pianta d’edera che s’avviluppava sulle pareti del mio cuore man mano che il suo germoglio malvagio attecchiva sui miei sensi…

Da perfetta idiota immatura qual ero non mi decidevo a sradicare quelle radici insidiose, mi tormentavo nel trovare una scelta definitiva, una via d’uscita a quella situazione sempre più insostenibile, eppure alla fine rimandavo tutto al futuro, che non riuscivo poi a scorgere così prossimo ed inevitabile. La mia osannata determinazione valeva meno di zero quando si trattava di cose del genere. Non c’entravano la scuola, gli amici, gli interessi e, perché no, i ragazzi… Tutto quanto poteva in quei momenti essere riassunto in quell’unica frase che riempiva, intasava, mi faceva scoppiare le meningi laddove quelle parole erano marchiate nella memoria come cicatrici di un ferro arroventato sulla pelle di uno schiavo.

“Devo aiutarlo”

E fu quel maledetto imperativo, accostato a quel pronome essenziale a condizionare la mia esistenza in quegli anni, a spingermi a far cose che nemmeno ora posso credere, capacitarmi, accettare d’aver compiuto. Il correre mezza nuda per strada fu solo una delle tante e sicuramente non delle più pericolose o disarmanti… il limite della razionalità non l’avevo soltanto oltrepassato, per me era scomparso, sbiadito poco a poco.

Arrancavo sull’asfalto scivoloso, tra le pozzanghere e i bidoni dei rifiuti, assuefatta dalla solita filastrocca, perseguitata dal ticchettio della temporale scrosciante per amaro capriccio divino, e ovviamente in preda all’angoscia… la belva oscura che ruggiva nel mio petto, all’ombra di me stessa…

Dopo non so quanto vagare, scorsi sotto ad una tettoia, sull’altro lato del marciapiede, quello che cercavo… o perlomeno ciò che sarebbe bastato per farmi tornare all’asciutto.

Senza preoccuparmi di guardare, attraversai la stradicciola… anche se un’auto fosse passata in quel mentre, dubito me ne sarebbe importato qualcosa e di certo non mi avrebbe fermata finire lì, investita. Non lo dico per sbruffoneria…

-Ehi tu!- gridavo senza fiato; me ne accorsi, ciò nonostante non tentai di darmi un contegno e quando gli di fronte la mia voce squillò stridula e affannata come quella di qualsiasi sedicenne rincretinita.

“Quanti grammi mi dai con 30 euro?”

Nei primi secondi il ragazzo dai tratti palesemente marocchini sembrò squadrarmi perplesso e colto di sorpresa. Si chiese in quale modo avessi saputo riconoscere in lui ciò che effettivamente era nel bel mezzo del Giudizio più umido che mente ultraterrena potesse concepire, glielo lessi lampante sulla faccia piatta e ramata. Il suo intuito da perfetto faccendiere però ebbe la meglio sull’esitazione: aveva fiutato le tracce dell’affare facile e di sicuro non era intenzionato a farsi prendere da remore inutili quanto meno infruttuose.

Mi sorrise lascivo come il lupo fa con l’agnello prima di balzargli al collo –Dipende da cosa vuoi ragazzina- disse lezioso. Lo vedevo fissarmi il seno sotto la canotta bianca ma non badai al disagio che avrebbe normalmente agguantato chiunque…

-Quanta eroina per 30 euro?- esordii sbrigativa.

-Piccola, mi pare che quella roba sia un po’ troppo forte per…-

-30 euro- scattai interrompendolo acidamente. Stavo perdendo attimi preziosi e non potevo permettermelo –Quanta?!-

Pochi minuti più tardi avevo già ripreso a filare nelle vie, stringendo convulsamente tra le dita il pacchetto di stagnola contenente un vecchio e sporco quartino… quello spacciatore mi aveva indubbiamente fregata sul prezzo ma lasciai perdere… un quarto di grammo nella mano sinistra, in quel frangente, era pure sempre meglio che rimettere piede in casa solo coi soldi.

Irruppi nell’appartamento con una rapidità inaudita e mi precipitai subito al piano superiore inciampando goffamente sulle scale, col cuore stretto in una morsa d’acciaio.

Nell’istante in cui spalancai la porta della sua stanza, avvertii l’ondata di una nuova sensazione spazzarmi via. L’angoscia partorì la sua figlia diletta: la fibrillazione.

Era rannicchiato là, nell’angolo davanti al letto tra la parete candida e la scrivania, tremante come una foglia all’aria d’autunno, il volto racchiuso tra i palmi scossi dagli spasmi. Con veloci falcate, per quanto mi permettessero le mie gambe corte, gli fui vicina tentando di sollevargli il capo per vederlo negli occhi.

Sono quelli lo specchio dell’anima e proprio grazie ad essi io riuscivo a captare qualsiasi cosa ci fosse da scoprire, che fosse taciuta dentro di lui, in lui, da lui… e in ogni caso pure un deficiente patentato sarebbe riuscito a capire che era in piena crisi d’astinenza.

-Ema sono qui. Sono io- gli accarezzai trepidante il volto pallido e madido di sudore, freddo, indugia sulle labbra frementi, secche e violacee, lo sentii inghiottire la saliva che non c’era nella sua bocca arida e con involontaria attenzione incrociai quello sguardo argentato, gli occhi sbarrati appesantiti dalle occhiaie nere come la notte di fuori e così lucidi da sembrare sull’orlo del pianto.

-Dove hai messo le siringhe? Dimmi dove- sussurrai frenetica con una voce che non aveva nulla per essere paragonata a quella che avevo usato con il marocchino. Mentalmente pregavo affinché capisse cosa gli stessi dicendo. Lo comprese. Non era stupido, nemmeno quando stava in quella merda di rota.

Allontanò per un istante gli occhi vacui dai miei in direzione del cassetto del comodino. Mi mossi verso di esso e lo tirai, riversandone l’intero contenuto sul pavimento di moquette verde. Feci crollare l’abat-jour a terra con un tonfo sordo, abbrancata dalla foga.

In mezzo alla biancheria trovai la busta di plastica con dentro il cilindro, lo stantuffo, gli aghi argentati ancora sigillati nelle loro bustine ed un cucchiaino annerito… “uno di quelli con cui mangio lo yogurt” considerai totalmente rincoglionita…

Tolsi dalla tasca l’accendino che sapevo per certo essere nella sua giacca di pelle abbandonata sul letto, e scesi in cucina a procurare del limone…

Mi sembra folle ammetterlo ma sì, mi misi a preparare la pera sopra l’acquaio… Una vera drogata, così mi sentivo… e con molta probabilità lo ero pure. Non di una sostanza che ti avvelena le vene, no, quello mai! Dipendevo da ben altro… ero in balia di un fratello diciannovenne cui, volente o nolente, volevo un bene dell’anima.

Nei miei occhi vedo ancora quella figura splendente rilucere davanti a me, sorridermi felice per quanto è umanamente possibile su questa terra. Lo rincorro, lui, spensierato, libero attraversa di corsa i prati della nostra infanzia.

Siamo solo noi, il cielo turchino solcato dalle nuvole di panne, il sole che irradia i nostri abiti leggeri e la nostra pelle abbronzata, gli alberi verdeggianti al margine del campo giallo di grano e tinto dei papaveri di maggio, gli uccelli che volano alti e gli altri animali che ci divertiamo ad inseguire senza mai stancarci.

Odo le risate, i discorsi di due bambini amanti dei giochi, di due fratelli uniti in maniera inscindibile.

Ed il richiamo cristallino della mamma sopraggiunge dal porticato, ci chiama per il pranzo della domenica assieme a papà, ai nonni, agli zii e ai cugini…

Poi niente.

Scorgo solo due occhi spenti e vagabondi nel supplizio sotto le inaccessibili coltri d’uggia.

Lo stavo facendo di nuovo. Se avessi avuto il fegato, se fossi stata più onesta con me stessa, se avessi fatto ricorso ad un briciolo di fottuto buon senso… se, se, se.

Ma cosa oltre all’angoscia mi spinse a legare il laccio emostatico attorno al braccio diafano e scheletrico?

Quando ebbi terminato sfilai l’ago e disinfettai con cura quella macchiolina porpora che fuoriusciva dalla sua vena. Solo un altro segno scarlatto, un altro livido bluastro che avrebbe marcato la pelle translucida dalla spalla sino al polso, martoriata. Non provavo ribrezzo, non avvertivo vergogna per tutto questo e senza alcun pudore esaminavo i piccoli ematomi. L’angoscia si stava ora ritirando nel suo angolo, regrediva istante dopo istante al suo stadio primordiale…

-Hai delle mani d’oro sorellina- biasciò Emanuele. Erano le prime parole che mi rivolgeva dal mio ritorno da scuola nel tardo pomeriggio.

Indugiai un attimo –Ssh. Zitto. Ora ti do una mano ad alzarti, tu ti stendi sul letto e riposi… non sono riuscita a procurartene molta perciò…-

-Non preoccuparti- tentò, invano, di rassicurarmi -un quartino mi basta fin domattina… mi arrangio io. Posso tirare avanti anche delle ore con le pasticche se servisse… poi vado a prenderne dell’altra”. L’aveva detto come se stessimo parlando di uscire per andare a comprare il latte al supermarket…

Riuscii con non poco sforzo a sdraiarlo sul materasso e gettargli addosso una coperta leggera. Mi chinai a rimettere in ordine il cassetto del comodino, stando attenta a riporre ogni cosa dove l’avevo trovata, compresa la busta di plastica richiusa con dentro tutto.

Poi mi riavvicinai a mio fratello, tesa a dargli il bacio della buona notte. Lui mi colse alla sprovvista quando feci per allontanarmi ed uscire: mi afferrò debolmente ma con decisione il polso, pregandomi sommessamente di restare.

Non potei oppormi e, lo confesso, il mio cuore si sciolse come fosse circondato da lava colata dalla dolcezza con cui quelle stesse parole di supplica erano risuonate ai miei orecchi.

Accoccolata contro la parete tenevo la sua testa in grembo, sfiorandogli con le dita ancora gelate le tempie adesso rilassate e distese ai lati degli occhi socchiusi. Toccando con amore quei suoi capelli corvini, mi parve di leggere un microscopico e ormai introvabile sorriso solcare le sue labbra e l’imprevisto, antico odore di menta che profumava la sua criniera nera e folta mi risalì magicamente alle narici, inebriandomi e spingendomi ricordare.

-Hai le mani freddissime- osservò pacato… pareva stesse per addormentarsi.

-Sono stata fuori sotto il diluvio, Ema- dissi serafica.

-Piove?- domandò privo d’interesse o entusiasmo.

-Sì, molto. Hanno addirittura tolto la corrente prima…-

-Non me ne ero accorto- miagolò stremato. Non era più nemmeno in grado di distinguere il dì dalla notte, figurarsi se poteva accorgersi di un temporale… lo stomaco mi si squarciò in due dal dolore quando realizzai il pensiero che mi si era schiettamente andato a formare nel cervello. Mi sentii subito in colpa.

-Possiamo dormire adesso?- ripresi pacata. Le emozioni avevano allentato la loro presa su di me e ora, rilassata, mi sentivo stanca, con le palpebre che non resistevano più alla tentazione di chiudersi mentre il sonno mi assediava con tutte le sue armi.

La risposta non mi raggiunse mai poiché Emanuele era precipitato nel mondo dei sogni battendomi sul tempo, senza nemmeno salutare.

Poggiai il capo al muro e nell’oscurità calante della stanza mi lasciai coccolare dall’idea dell’incoscienza.

Fine.

Ed eccola qui… Beh, mi ha fatto piacere siate stati così gentili da leggerla per intero.

GRAZIE!!!

Ps. Commentati se volete, mi piacerebbe sentire cosa ne pensate… ma non siete obbligati XP

  
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