Ciao a tutti… Mi pareva più che dovuto fare la mia prima
pubblicazione su EFP con una One-Shot.
L’ho scritta qualche mese fa in preda ai pensieri (che
purtroppo riecheggiano tutt’ora) su me stessa e coloro che mi circondano… e per
essere sincera sino in fondo, pure per riempire qualche noiosa ora di chimica e
matematica…! XD
Mi è ricapitata in mano di recente e ho deciso di darci una
sistematina e postarla anche se non è sicuramente la migliore “opera” che avevo
in cantiere… spero vi piaccia comunque…
Dato che con i titoli non mi reputo per niente brava (sono
un disastro a dirla tutta) ho deciso che le mie fanfic avranno sempre il nome
di qualche canzone…
Mi scuso in anticipo per eventuali errori di battitura o concordanza di verbi o all’interno dei periodi…
AMARANTH
“Nightwish” from the album “Dark Passion Play”
“You believe but what you see
You receive but what you give”
Cosa
credessi di poter fare quella notte non riuscirei a spiegarlo con esattezza.
Nulla mi sembrava reale mentre tutto attorno appariva sfuocato e privo di una
forma concreta...
Il
mio era un corpo mosso dalle ingovernabili, disperate emozioni di
un’adolescente stupida che si era messa in shorts e canottiera a correre come
una pazza per strada, sotto l’acquazzone che era stato stabilito dovesse
piombare dal cielo giusto giusto in quei dannatissimi istanti. Le gocce dure e
ghiacciate della pioggia che picchiettavano sulla pelle scoperta riuscivano in
un certo senso a tener vivo quel briciolo di lucidità necessaria per orientarmi
tra i vicoli, le strettoie, i viali squallidi incuneati tra le case ed i
magazzini del quartiere. Fradicia fino alle ossa, sentivo che le articolazioni
si erano fatte roride e raschianti. I capelli lunghi mi erano serpi brune
d’impaccio attorno al viso sfigurato dalla fatica. Ogni altra cosa in me era
stata repressa a forza… dall’angoscia che pesava sul respiro di nebbia delle
mie labbra infreddolite.
Non
esiste sentimento umano più crudele, viscido e distruttivo che l’angoscia a
questo mondo. È la sensazione che crea quel groppo alla gola quando ti gettano
nell’acqua profonda e tu non sai nuotare, che suscita quel terrore a partire da
quell’incubo che ti fa risvegliare svuotato ed agitato nel tuo letto, esplode
con quel rumore improvviso che ti colpisce la notte quando stai per
addormentarti e ti fa balzare impaurito a sedere con gli occhi spalancati nel
buio. Quella mano incorporea ti risucchia l’aria dai polmoni quando cadi preda
degli eventi che non puoi cambiare o riavvolgere a tua piacimento come faresti con
una videocassetta perché, cazzo, è la tua vita, non un film… anche se ti
piacerebbe tanto lo fosse.
Odiavo
l’angoscia ma lei per molti anni mi rivolse la sua particolare ed
incondizionata affezione: essa mi accompagnava da un’alba all’altra, non mi si
scollava mai di dosso poiché preferiva rintanarsi buona buona e zitta zitta
nella parte più recondita della mia anima e balzava fuori inopinata senza
avvisare, cogliendomi ogni volta impreparata e troppo indifesa per
fronteggiarla. Ero vittima di un demone che in fin dei conti, ero stata io
stessa a far nascere ed accudire… era una pianta, la mia pianta d’edera che
s’avviluppava sulle pareti del mio cuore man mano che il suo germoglio malvagio
attecchiva sui miei sensi…
Da
perfetta idiota immatura qual ero non mi decidevo a sradicare quelle radici
insidiose, mi tormentavo nel trovare una scelta definitiva, una via d’uscita a
quella situazione sempre più insostenibile, eppure alla fine rimandavo tutto al
futuro, che non riuscivo poi a scorgere così prossimo ed inevitabile. La mia
osannata determinazione valeva meno di zero quando si trattava di cose del
genere. Non c’entravano la scuola, gli amici, gli interessi e, perché no, i
ragazzi… Tutto quanto poteva in quei momenti essere riassunto in quell’unica
frase che riempiva, intasava, mi faceva scoppiare le meningi laddove quelle
parole erano marchiate nella memoria come cicatrici di un ferro arroventato
sulla pelle di uno schiavo.
“Devo
aiutarlo”
E
fu quel maledetto imperativo, accostato a quel pronome essenziale a
condizionare la mia esistenza in quegli anni, a spingermi a far cose che
nemmeno ora posso credere, capacitarmi, accettare d’aver compiuto. Il correre
mezza nuda per strada fu solo una delle tante e sicuramente non delle più
pericolose o disarmanti… il limite della razionalità non l’avevo soltanto
oltrepassato, per me era scomparso, sbiadito poco a poco.
Arrancavo
sull’asfalto scivoloso, tra le pozzanghere e i bidoni dei rifiuti, assuefatta
dalla solita filastrocca, perseguitata dal ticchettio della temporale
scrosciante per amaro capriccio divino, e ovviamente in preda all’angoscia… la
belva oscura che ruggiva nel mio petto, all’ombra di me stessa…
Dopo
non so quanto vagare, scorsi sotto ad una tettoia, sull’altro lato del
marciapiede, quello che cercavo… o perlomeno ciò che sarebbe bastato per farmi
tornare all’asciutto.
Senza
preoccuparmi di guardare, attraversai la stradicciola… anche se un’auto fosse
passata in quel mentre, dubito me ne sarebbe importato qualcosa e di certo non
mi avrebbe fermata finire lì, investita. Non lo dico per sbruffoneria…
-Ehi
tu!- gridavo senza fiato; me ne accorsi, ciò nonostante non tentai di darmi un
contegno e quando gli di fronte la mia voce squillò stridula e affannata come
quella di qualsiasi sedicenne rincretinita.
“Quanti
grammi mi dai con 30 euro?”
Nei
primi secondi il ragazzo dai tratti palesemente marocchini sembrò squadrarmi
perplesso e colto di sorpresa. Si chiese in quale modo avessi saputo
riconoscere in lui ciò che effettivamente era nel bel mezzo del Giudizio più
umido che mente ultraterrena potesse concepire, glielo lessi lampante sulla
faccia piatta e ramata. Il suo intuito da perfetto faccendiere però ebbe la
meglio sull’esitazione: aveva fiutato le tracce dell’affare facile e di sicuro
non era intenzionato a farsi prendere da remore inutili quanto meno
infruttuose.
Mi
sorrise lascivo come il lupo fa con l’agnello prima di balzargli al collo
–Dipende da cosa vuoi ragazzina- disse lezioso. Lo vedevo fissarmi il seno
sotto la canotta bianca ma non badai al disagio che avrebbe normalmente
agguantato chiunque…
-Quanta
eroina per 30 euro?- esordii sbrigativa.
-Piccola,
mi pare che quella roba sia un po’ troppo forte per…-
-30
euro- scattai interrompendolo acidamente. Stavo perdendo attimi preziosi e non
potevo permettermelo –Quanta?!-
Pochi
minuti più tardi avevo già ripreso a filare nelle vie, stringendo convulsamente
tra le dita il pacchetto di stagnola contenente un vecchio e sporco quartino…
quello spacciatore mi aveva indubbiamente fregata sul prezzo ma lasciai
perdere… un quarto di grammo nella mano sinistra, in quel frangente, era pure
sempre meglio che rimettere piede in casa solo coi soldi.
Irruppi
nell’appartamento con una rapidità inaudita e mi precipitai subito al piano
superiore inciampando goffamente sulle scale, col cuore stretto in una morsa
d’acciaio.
Nell’istante
in cui spalancai la porta della sua stanza, avvertii l’ondata di una nuova
sensazione spazzarmi via. L’angoscia partorì la sua figlia diletta: la
fibrillazione.
Era
rannicchiato là, nell’angolo davanti al letto tra la parete candida e la
scrivania, tremante come una foglia all’aria d’autunno, il volto racchiuso tra
i palmi scossi dagli spasmi. Con veloci falcate, per quanto mi permettessero le
mie gambe corte, gli fui vicina tentando di sollevargli il capo per vederlo
negli occhi.
Sono
quelli lo specchio dell’anima e proprio grazie ad essi io riuscivo a captare
qualsiasi cosa ci fosse da scoprire, che fosse taciuta dentro di lui, in lui,
da lui… e in ogni caso pure un deficiente patentato sarebbe riuscito a capire
che era in piena crisi d’astinenza.
-Ema
sono qui. Sono io- gli accarezzai trepidante il volto pallido e madido di
sudore, freddo, indugia sulle labbra frementi, secche e violacee, lo sentii
inghiottire la saliva che non c’era nella sua bocca arida e con involontaria
attenzione incrociai quello sguardo argentato, gli occhi sbarrati appesantiti
dalle occhiaie nere come la notte di fuori e così lucidi da sembrare sull’orlo
del pianto.
-Dove
hai messo le siringhe? Dimmi dove- sussurrai frenetica con una voce che non
aveva nulla per essere paragonata a quella che avevo usato con il marocchino.
Mentalmente pregavo affinché capisse cosa gli stessi dicendo. Lo comprese. Non
era stupido, nemmeno quando stava in quella merda di rota.
Allontanò
per un istante gli occhi vacui dai miei in direzione del cassetto del comodino.
Mi mossi verso di esso e lo tirai, riversandone l’intero contenuto sul
pavimento di moquette verde. Feci crollare l’abat-jour a terra con un tonfo
sordo, abbrancata dalla foga.
In
mezzo alla biancheria trovai la busta di plastica con dentro il cilindro, lo
stantuffo, gli aghi argentati ancora sigillati nelle loro bustine ed un
cucchiaino annerito… “uno di quelli con cui mangio lo yogurt” considerai
totalmente rincoglionita…
Tolsi
dalla tasca l’accendino che sapevo per certo essere nella sua giacca di pelle
abbandonata sul letto, e scesi in cucina a procurare del limone…
Mi
sembra folle ammetterlo ma sì, mi misi a preparare la pera sopra l’acquaio… Una
vera drogata, così mi sentivo… e con molta probabilità lo ero pure. Non di una
sostanza che ti avvelena le vene, no, quello mai! Dipendevo da ben altro… ero
in balia di un fratello diciannovenne cui, volente o nolente, volevo un bene
dell’anima.
Nei
miei occhi vedo ancora quella figura splendente rilucere davanti a me,
sorridermi felice per quanto è umanamente possibile su questa terra. Lo
rincorro, lui, spensierato, libero attraversa di corsa i prati della nostra
infanzia.
Siamo solo noi, il cielo turchino solcato dalle nuvole di panne, il sole che irradia i nostri abiti leggeri e la nostra pelle abbronzata, gli alberi verdeggianti al margine del campo giallo di grano e tinto dei papaveri di maggio, gli uccelli che volano alti e gli altri animali che ci divertiamo ad inseguire senza mai stancarci.
Odo le risate, i discorsi di due bambini amanti dei giochi, di due fratelli uniti in maniera inscindibile.
Ed
il richiamo cristallino della mamma sopraggiunge dal porticato, ci chiama per
il pranzo della domenica assieme a papà, ai nonni, agli zii e ai cugini…
Poi
niente.
Scorgo
solo due occhi spenti e vagabondi nel supplizio sotto le inaccessibili coltri
d’uggia.
Lo
stavo facendo di nuovo. Se avessi avuto il fegato, se fossi stata più onesta
con me stessa, se avessi fatto ricorso ad un briciolo di fottuto buon senso…
se, se, se.
Ma
cosa oltre all’angoscia mi spinse a legare il laccio emostatico attorno al
braccio diafano e scheletrico?
Quando
ebbi terminato sfilai l’ago e disinfettai con cura quella macchiolina porpora
che fuoriusciva dalla sua vena. Solo un altro segno scarlatto, un altro livido
bluastro che avrebbe marcato la pelle translucida dalla spalla sino al polso,
martoriata. Non provavo ribrezzo, non avvertivo vergogna per tutto questo e
senza alcun pudore esaminavo i piccoli ematomi. L’angoscia si stava ora
ritirando nel suo angolo, regrediva istante dopo istante al suo stadio
primordiale…
-Hai
delle mani d’oro sorellina- biasciò Emanuele. Erano le prime parole che mi
rivolgeva dal mio ritorno da scuola nel tardo pomeriggio.
Indugiai
un attimo –Ssh. Zitto. Ora ti do una mano ad alzarti, tu ti stendi sul letto e
riposi… non sono riuscita a procurartene molta perciò…-
-Non
preoccuparti- tentò, invano, di rassicurarmi -un quartino mi basta fin
domattina… mi arrangio io. Posso tirare avanti anche delle ore con le pasticche
se servisse… poi vado a prenderne dell’altra”. L’aveva detto come se stessimo
parlando di uscire per andare a comprare il latte al supermarket…
Riuscii
con non poco sforzo a sdraiarlo sul materasso e gettargli addosso una coperta
leggera. Mi chinai a rimettere in ordine il cassetto del comodino, stando
attenta a riporre ogni cosa dove l’avevo trovata, compresa la busta di plastica
richiusa con dentro tutto.
Poi
mi riavvicinai a mio fratello, tesa a dargli il bacio della buona notte. Lui mi
colse alla sprovvista quando feci per allontanarmi ed uscire: mi afferrò
debolmente ma con decisione il polso, pregandomi sommessamente di restare.
Non
potei oppormi e, lo confesso, il mio cuore si sciolse come fosse circondato da
lava colata dalla dolcezza con cui quelle stesse parole di supplica erano
risuonate ai miei orecchi.
Accoccolata
contro la parete tenevo la sua testa in grembo, sfiorandogli con le dita ancora
gelate le tempie adesso rilassate e distese ai lati degli occhi socchiusi.
Toccando con amore quei suoi capelli corvini, mi parve di leggere un
microscopico e ormai introvabile sorriso solcare le sue labbra e l’imprevisto,
antico odore di menta che profumava la sua criniera nera e folta mi risalì
magicamente alle narici, inebriandomi e spingendomi ricordare.
-Hai
le mani freddissime- osservò pacato… pareva stesse per addormentarsi.
-Sono
stata fuori sotto il diluvio, Ema- dissi serafica.
-Piove?-
domandò privo d’interesse o entusiasmo.
-Sì,
molto. Hanno addirittura tolto la corrente prima…-
-Non
me ne ero accorto- miagolò stremato. Non era più nemmeno in grado di
distinguere il dì dalla notte, figurarsi se poteva accorgersi di un temporale…
lo stomaco mi si squarciò in due dal dolore quando realizzai il pensiero che mi
si era schiettamente andato a formare nel cervello. Mi sentii subito in colpa.
-Possiamo
dormire adesso?- ripresi pacata. Le emozioni avevano allentato la loro presa su
di me e ora, rilassata, mi sentivo stanca, con le palpebre che non resistevano
più alla tentazione di chiudersi mentre il sonno mi assediava con tutte le sue
armi.
La
risposta non mi raggiunse mai poiché Emanuele era precipitato nel mondo dei
sogni battendomi sul tempo, senza nemmeno salutare.
Poggiai
il capo al muro e nell’oscurità calante della stanza mi lasciai coccolare
dall’idea dell’incoscienza.
Fine.
Ed eccola qui… Beh, mi ha fatto piacere siate stati così
gentili da leggerla per intero.
GRAZIE!!!
Ps. Commentati se volete, mi
piacerebbe sentire cosa ne pensate… ma non siete obbligati XP