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Autore: Marina Bastiani    24/05/2014    4 recensioni
“Vieni fuori a giocare.”-sentì sussurrare-“Vieni fuori a giocare con me”.
Genere: Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Slender man
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Era una delle notti di uno dei tanti Natali che avevo trascorso.
I festeggiamenti in famiglia erano ormai finiti e tutti dormivano, eccetto me che stavo guardando la tv in cerca di qualcosa di interessante, sorseggiando lentamente la camomilla che mi era stata preparata dalla mamma, ricoperta comodamente nel mio morbido pigiama.
Non riuscivo a dormire, come se fossi presa da un’eccitazione momentanea, era come una scarica di adrenalina che percorreva tutto il mio corpo.
Scorrendo noiosamente i canali della mia tv, invasi da finali di film natalizi e pubblicità viste e riviste, mi girai verso la finestra a guardare la neve, che fragile e copiosa scendeva dalle nuvole nascoste da uno scuro cielo notturno.
La mia casa viveva vicino ad un bosco, immersa nella natura e attraversata dai vari tran-tran quotidiani che i suoi inquilini affrontavano giorno per giorno.
A quell’età ero molto buona e avrei aiutato chiunque ne avesse avuto il bisogno.
Ma ero soltanto un’incauta bambina.
 
Continuavo a guardare estasiata fuori dalla finestra, incantata dal magico spettacolo che offriva la neve illuminando il buio della notte.
D’un tratto mi accorsi che un pallino bianco più grosso degli altri mi stava osservando.
“Vieni fuori a giocare.”-sentì sussurrare-“Vieni fuori a giocare con me”.
Mi avvicinai al bordo della finestra per osservare meglio e vidi un uomo vestito completamente di nero osservarmi cauto da dietro un albero.
Ad un certo punto alzò un braccio e con la mano mi fece cenno di raggiungerlo. Non sembrava cattivo, il suo viso m’ispirava tristezza e pietà.
Così presi il mio coniglietto di peluche, indossai il mio giacchetto e uscì di soppiatto. Aprendo lentamente il bianco portone di casa, allungando la gamba per evitare il tappetino e appoggiando il piede nella veranda, mi trovai finalmente fuori. Chiusi altrettanto lentamente la porta e mi avviai a piccoli passi nella neve verso l’uomo, che ai margini del bosco, in mezzo a due alberi, mi stava aspettando.
Arrivai, alzai lo sguardo e lo vidi:  era calvo ma teneva la testa girata e non mi fu possibile scorgere i tratti del volto, indossava uno smoking vecchio e tutto sgualcito e le lunghe braccia, terminanti con mani dalle aguzze dita, toccavano quasi il terreno e trascinavano verso il basso le spalle, formando una piccola gobba. Non capivo perché non volesse mostrarsi in viso ma, pensando che non volesse farsi vedere perché era brutto, non glielo chiesi.
Il pover’uomo mi tese la bianca e opaca mano e io gliel’afferrai, stringendola in una morsa sicura contrapposta alla sua che invece rimase inerme e fredda.
Camminammo mano nella mano per un po’ di tempo schiacciando quelle poche erbe che riuscivano a sbucare da sotto la neve. Durante tutto il cammino non riuscì mai a vedere la sua faccia.
Ci fermammo in un punto del bosco, una piccola radura circondata da alte sequoie che provavano a trafiggere il cielo come se volessero farlo scoppiare; non riuscivo a vedere l’uscita e nemmeno il punto da cui eravamo arrivati.
Infine l’uomo si voltò verso di me.
Improvvisamente, senza accorgermene, dei tentacoli cercarono di afferrarmi e una bocca dai denti aguzzi pronunciò un urlo stridulo, senza suono, agghiacciante come la neve stessa, cercando di azzannarmi.

Gridai.
Gridai e appena in tempo mi spostai, prima di essere trafitta e graffiata da una di quelle mani.
Corsi.
Corsi verso qualunque possibile uscita, m’inoltrai nel fitto bosco lacerandomi le gracili gambine con quegli aghi che prima sembravano fragili fili d’erba.
Stridette.
Un altro stridio ruppe il silenzio di quella notte di Natale, che sembrava potesse essere l’ultima.
Correvo e non mi fermavo.
Qualvolta mi giravo non vedevo nessuno dietro ma, come se avessi avuto un sesto, sapevo che dovevo continuare ad andare avanti, perché sentivo quell’essere sempre accanto a me, che mi osservava, pronto ad uccidermi in qualunque istante.
Le nuvole erano più chiare e il mio corpo era sempre più affaticato.
Il gelo era entrato nelle mie membra e il respiro si era fatto più affannoso.
Vidi la luce dei fari delle macchine che correvano per la strada e mi dissi che ero salva.
Bastava un ultimo sforzo.
Ma caddi in preda al panico.
Era davanti a me che mi aspettava, immobile, circondato da un’aura maligna di tentacoli neri.
Infine una luce illuminò il suo volto: un volto vuoto.
Il mio cuore si fermò.
Nulla era umano in lui.
La sua lunga lingua nera mi sfiorò il viso e i suoi tentacoli mi abbracciarono in una stretta morsa da cui non pensavo sarei più uscita.
 
Qualche tempo dopo, in ospedale, i medici dissero a mia madre che altri casi simili erano accaduti in quella zona e che io ero stata fortunata a non essere morta: ho sempre pensato che le luci dell’alba furono la mia unica salvezza.
   
 
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