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Autore: Futeki    25/05/2014    3 recensioni
Jace e Alec. Più che fratelli. Ciascuno ha bisogno dell’altro, anche se per motivi diversi. I loro destini sono intrecciati, le loro vite unite da un giuramento.
"Alec non era in grado di cavarsela da solo contro i demoni. Non era abbastanza bravo. Ma Jace non trovava niente di sbagliato in tutto ciò; in fondo, i parabatai servivano proprio a quello: compensare le mancanze dell’altro, completarsi a vicenda. C’erano tante cose che Alec faceva meglio di Jace e a lui sembrava una cosa più che naturale."
Nota: La storia si compone di due parti, che ho preferito lasciare nello stesso capitolo anziché pubblicarle in due capitoli separati, per non spezzare la continuità della storia, in quanto le due parti sono complementari tra loro.
I hope you enjoy! Buona lettura!
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia nasce come partecipante al “Contest dei libri non letti” indetto da M4RT1 sul forum di EFP, al quale si è classificata terza.

 

Pacchetto: Incarceron

·  Citazione: “Gli uomini amano raccontare storie, fratello. Amano sognare.”

·  Avvertimento: Slice of life

·  Immagine: https://encrypted-tbn0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcSxfoN-trPFqByeSXS9U36--yQ16hZ3WszR0D20NpTOw3OpoIMm

 

 

 

 

 

Closer than brothers

 

 

 

Dove andrai tu, andrò anch’io.

Dove morirai tu, morirò anch’io, e vi sarò sepolto.

L’Angelo faccia a me questo e anche di peggio

se altra cosa che la morte mi separerà da te.

(Giuramento dei parabatai)

 

 

 

 

 

 

Oro

 

“Parabatai. It means a pair of warriors who fight together, who are closer than brothers. Alec is more than just my best friend.” (Jace)

 

Jace sentì pizzicare la sua runa parabatai. Spinse più a fondo la sua spada angelica nel petto del demone che aveva davanti per poi voltarsi a guardare Alec. Il suo compagno stava tentando di difendersi dagli attacchi di un altro demone parandoli meglio che poteva con la sua spada, ma aveva indietreggiato talmente tanto da essere finito con le spalle al muro. Jace finì il suo avversario e poi corse verso Alec, tentando di sorprendere il demone attaccandolo da dietro. Non ci riuscì: la creatura si accorse di lui e lo spinse via con un colpo della sua lunga coda. Jace finì disteso sul pavimento e impiegò qualche secondo a rialzarsi. Il braccio gli pulsava, un fiotto di sangue caldo lo percorse fino a imbrattargli le mani di rosso. Jace si sforzò di mettere a fuoco la scena davanti a sé: Alec aveva perso la spada, il demone stava cercando di strozzarlo con una sola delle sue mani artigliate. Era così preso da ciò che stava facendo che non si accorse di Jace, che riuscì a fatica a rimettersi in piedi, si trascinò fino a lui e afferrò la spada angelica di Alec da terra. Con un colpo secco, Jace staccò la testa al demone, il quale perse immediatamente la presa sul collo di Alec, che ricadde a terra tossendo.

«Stai bene?», domandò Jace. Alec alzò lo sguardo e annuì. Poi tutto iniziò a tremare. Le gambe di Jace cedettero e lui si ritrovò per la seconda volta in pochi minuti disteso sul pavimento.

«Jace! Alec!», gridò Isabelle correndo verso di loro. Doveva essersi appena liberata del terzo demone.

Izzy s’inginocchiò accanto a lui, sollevandogli il braccio ferito. Jace si sentiva confuso. Aveva la vista offuscata e sentiva molto caldo, nonostante la temperatura bassa, decisamente invernale.

«Sei un idiota», lo rimproverò Alec, scrutandolo con i suoi occhi color zaffiro. «Me la sarei cavata anche da solo.»

Jace avrebbe voluto rispondergli prendendolo in giro, ma non riuscì a parlare. Tutto ciò che venne fuori fu un rantolo seguito da un colpo di tosse.

«Dobbiamo portarlo subito da Hodge», disse Izzy. Fu l’ultima cosa che Jace sentì prima di perdere i sensi.

 

Al suo risveglio, capì immediatamente di trovarsi all’Istituto. Cercò di mettersi a sedere sul letto in cui era disteso, ma un forte capogiro lo dissuase dal provarci.

«Sei un idiota», ripeté Alec al suo fianco. Jace non si era accorto della sua presenza.

«Ti ho salvato la vita», ribatté Jace.

«Mettendo a rischio la tua», replicò Alec.

«Dovresti ringraziarmi», disse Jace spavaldo.

Alec lo ignorò. «È questo il tuo problema. Tu credi di doverlo fare, credi di essere responsabile per me perché sei più bravo.»

Jace lo guardò leggermente preoccupato. Non era da lui dire cose del genere. Tuttavia, non riuscì a trattenersi dal rispondergli in modo provocatorio. «Non è così?»

«No», replicò Alec deciso. «So badare a me stesso.»

«Non mi sembrava così mentre quel demone cercava di strangolarti.»

«Vaffanculo, Jace.» Alec uscì a grandi passi dall’infermeria, lasciandosi dietro un Jace ghignante.

Nonostante la sua sfacciataggine, Jace era seriamente preoccupato. Si era pentito di aver risposto in quel modo al suo amico, ma non aveva fatto altro che dire la verità. Alec non era in grado di cavarsela da solo contro i demoni. Non era abbastanza bravo. Ma Jace non trovava niente di sbagliato in tutto ciò; in fondo, i parabatai servivano proprio a quello: compensare le mancanze dell’altro, completarsi a vicenda. C’erano tante cose che Alec faceva meglio di Jace e a lui sembrava una cosa più che naturale.

 

Curata al meglio la ferita, Jace lasciò l’infermeria e tornò nella sua stanza. Gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo per guarire, ma almeno il peggio era passato.

Quel pomeriggio, Jace incontrò un paio di volte Alec nel corridoio, ma lui fece finta di non vederlo. Gli si strinse lo stomaco nel leggere la rabbia negli occhi del suo compagno di battaglia.

In serata, provò a bussare alla sua camera, ma non ottenne nessuna risposta, nonostante sentisse chiaramente la musica a basso volume che proveniva dall’interno, prova della presenza di Alec nella stanza.

«Per quanto ancora hai intenzione di ignorarmi?», chiese Jace alla porta chiusa, la fronte appoggiata contro il muro e la mano sulla maniglia della porta.

Nessuna risposta.

«Alec?»

Silenzio. Jace colpì la porta con la fronte, bussando ancora una volta. Fu inutile, quindi capì che non era più il caso di insistere e andò via.

Gli dispiaceva che Alec se la fosse presa tanto, si sarebbe anche scusato se lui glielo avesse permesso. Ma in fondo Jace sapeva che il problema di Alec era di natura del tutto personale. Non c’era niente che lui potesse dire o fare per aiutarlo a superare i suoi problemi di autostima. Alec aveva davvero una scarsa fiducia in se stesso e questo lo portava a chiudersi e a respingere gli altri. Era incredibile: nonostante fossero tanto diversi, nonostante Jace, al contrario di Alec, fosse così spavaldo, entrambi finivano per ergere intorno a sé una protezione, un muro che andava in frantumi, almeno in parte, solo quando erano insieme. E Jace non riusciva a sopportare l’idea che Alec lo escludesse come faceva con tutti gli altri.

 

Entrò nella sua stanza con l’intenzione di andare a dormire, ma bastò un’occhiata al suo letto perfettamente rifatto per comprendere che non sarebbe riuscito a chiudere occhio. Uscì dalla camera sbattendosi la porta alle spalle e si diresse verso il portone principale dell’istituto.

 

 

 

 

 

 

Zaffiro

 

“You needed me. So I realized that there was one person who didn’t assume you were better than me. You.” (Alec)

 

Alec sentì pizzicare la sua runa parabatai. Spense la musica e si alzò dal letto su cui era pigramente sdraiato. Si diresse a grandi passi verso la camera di Jace e tese l’orecchio per cogliere il minimo rumore che rivelasse la sua presenza all’interno della stanza. Non sentì nulla, quindi provò a bussare.

Quando non ottenne nessuna risposta, si diresse immediatamente verso l’infermeria. Vi trovò al suo interno Hodge.

«Dov’è Jace?», disse lui anticipando Alec. «Devo cambiargli la medicazione al braccio.»

«Stavo per chiederti la stessa cosa», rispose Alec.

«Se lo trovi portalo qui. Trascinalo, se è necessario.»

Alec annuì e uscì dall’infermeria. Incontrò sua sorella nel corridoio e ne approfittò per chiederle se avesse visto Jace.

«È uscito», rispose lei semplicemente.

«Come sarebbe a dire?»

«È uscito. Fuori. Che c’è da capire?», replicò lei acida.

«Dov’è andato?»

«Che cosa vuoi che ne sappia! Ho provato a domandarglielo e mi ha semplicemente ignorata. Ho insistito e mi ha rivolto un’occhiataccia. È uscito, questo è tutto quello che so.»

Isabelle detestava essere ignorata e Jace aveva l’incredibile capacità di irritarla più di chiunque altro. Alec le diede le spalle e si avviò verso l’uscita, ignorando a sua volta le sue domande e le sue proteste.

 

La notte era calata senza pietà sulla città di New York; l’aria fredda congelava il respiro di Alec, il silenzio di quella zona lo rendeva inquieto. Camminò a passo svelto verso Central Park, dove sperava che avrebbe trovato Jace. Fu fortunato. Davanti al laghetto che celava l’ingresso della Corte Seelie, Jace se ne stava seduto su una panchina, contemplando il riflesso della luna nel lago. Alec gli si avvicinò senza far rumore, ma sapeva perfettamente che Jace, nonostante gli desse le spalle, era ben conscio della sua presenza.

«Questo posto mi mette i brividi», annunciò Jace.

Forse Alec avrebbe dovuto essere sorpreso, visto che Jace aveva volontariamente scelto di andare lì da solo, senza un apparente motivo. Ma non era così. Non c’era niente di sorprendente, perché Alec ormai aveva capito come Jace ragionava, aveva capito che certe sensazioni di inquietudine e angoscia lo facevano sentire compreso, meno solo. Così come le situazioni di pericolo gli facevano credere che esistesse un vero significato che spiegasse il perché di tutto quello che gli Shadowhunters erano costretti ad affrontare. Alec, al contrario, quel significato non l’aveva mai trovato. Lui non cercava inquietudine, come Jace, lui voleva che svanisse ogni tipo di turbamento. E Jace gli faceva questo effetto.

«È per questo che continui a venirci», replicò placidamente Alec.

Jace annuì e Alec si sedette sulla panchina al suo fianco.

«Mi dispiace per stamattina», gli disse Jace.

Alec scosse la testa. «Non avrei dovuto prendermela così. Avevi ragione, da solo non me la sarei cavata.»

«Alec, io non volevo ferirti. Non è un male avere bisogno degli altri», disse Jace rabbrividendo alle sue stesse parole. Lui stesso odiava dipendere dagli altri, ma con Alec era diverso. «Almeno i parabatai servono a questo.»

«Lo so», disse Alec.

«Non sei l’unico a non farcela da solo. Anch’io ho bisogno di te.»

«Lo so», ripeté Alec.

Jace tacque. Un silenzio che pareva interminabile calò su di loro, avvolgendoli d’imbarazzo.

 

«È uno schifo», disse improvvisamente Alec, lanciando un sassolino nel lago. «Io vorrei solo essere bravo quanto te, Jace. Siamo cacciatori, il nostro destino è già segnato. Se non posso essere altro, voglio essere un bravo cacciatore.»

«Lo sei», replicò Jace. «Ma in ogni caso prima di essere cacciatori noi siamo persone, Alec. E tu sei una brava persona.»

Alec arrossì e abbassò lo sguardo. Ricevere quel tipo di complimento da Jace era esattamente ciò che placava le sue inquietudini. Essere un cacciatore era una grande responsabilità e per di più Alec non si sentiva per niente portato. Al contrario di Jace, che era un talento naturale, lui aveva grandi difficoltà nel combattere i demoni, tant’è vero che spesso rischiava la vita e Jace era costretto a fare il doppio del lavoro per salvarlo. Eppure, nonostante le battute e le prese in giro, Jace non si era mai lamentato sul serio. Lui lo aveva scelto, ben conscio dei suoi limiti come cacciatore.

Guardò il lago, immaginando l’insidioso mondo che celava. Le fate erano esseri pericolosi e più di una volta Alec ne aveva avuto la prova.

«Mi domando da dove vengano certe favole che i mondani raccontano. Come fanno a parlare di fate generose e folletti altruisti? Se conoscessero la verità, imparerebbero a tacere», osservò Alec.

«Gli uomini amano raccontare storie, fratello. Amano sognare. Amano immaginare mondi in cui tutto è perfetto e c’è sempre un lieto fine. È questa la differenza tra noi e loro. Loro sognano, mentre noi combattiamo i demoni che la loro natura gli impedisce di riconoscere.»

«È piuttosto ingiusto», gli fece notare Alec.

Jace fece spallucce e sorrise. A lui non dispiaceva il suo stile di vita. E riflettendoci, neanche ad Alec dispiaceva la sua natura di cacciatore. Senza, non avrebbe avuto la possibilità di avere un parabatai, non avrebbe potuto avere Jace.

 

«Credo che dovremmo rientrare», annunciò Alec alzandosi. «Hodge ti cercava, devi cambiare la medicazione al braccio. E Isabelle starà dando di matto perché non sa dove siamo.»

«Restiamo ancora un po’», supplicò Jace voltandosi a guardarlo. I suoi occhi del colore dell’oro pietrificarono Alec. «Solo qualche minuto», concluse Jace.

Alec si sedette nuovamente accanto all’amico, acconsentendo silenziosamente.

Dove andrai tu, andrò anch’io.

 

 

 

 

 

 

 

N.d.A.: Le citazioni all’inizio dei due capitoli sono rispettivamente le parole di Jace e Alec riguardo al legame con il proprio parabatai. Ho preferito lasciarle in inglese così che mantenessero la propria poeticità. Il titolo di ciascun capitolo fa riferimento al colore degli occhi dai quali si “guarda”, ossia gli occhi del personaggio di cui viene assunto il punto di vista. Anche le iniziali in grassetto dei paragrafi di ciascun capitolo compongono il nome del personaggio attraverso il quale si vive la storia.

Spero che abbiate apprezzato la storia ♥

Ringrazio la giudiciA per il suo positivissimo giudizio e consiglio vivamente di dare uno sguardo alle storie degli altri partecipanti, che sono davvero bellissime! u.u

Alla prossima!

Futeki

 

   
 
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