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Autore: Alessandro Picarelli    26/05/2014    0 recensioni
Enrico è costretto nel suo letto da sedici anni per colpa
della Sla ... con due semplici punti di sfogo e di aggancio per non
affondare in un mare di tristezza: il Vecchio ... le sue spalle ... la sua
vocina interiore che gli consiglia cosa fare... il suo consigliere ...
e Lucia ... l'amica perfetta ... la bellissima
ragazza dai capelli nocciola del palazzo accanto. Ma un giorno la sua vita
viene sconvolta e estrapolata da un incontro imprevisto e inatteso ... che
gioverà o meno sulla sua persona.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I
Sognava, il mio piccolo, sognava senza ancora … e faceva bene. Glielo dicevo sempre. Infondo era l’unica cosa che avrebbe potuto realmente fare. Correre. Tirare un calcio ad un pallone. Uscire con gli amici. Andare a scuola. Visitare città, paesi. Erano questi i suoi desideri, i suoi sogni ardenti, per nulla difficili da realizzare se non si fosse trovato in quelle condizioni. Erano queste le speranze  con cui il mio piccolo Enrico trascorreva le sue lunghe, interminabili giornate, sotto il calore delle coperte del suo letto che mai aveva abbandonato nei suoi diciassette anni di vita, rivolto alla grande finestra della sua camera che altro non sapeva dirgli che il tempo che faceva fuori. Infondo, mi diceva ogni  volta che distoglieva la mente dai suoi complicati pensieri, che senso aveva il tempo per lui? Non era mica uno di quei tanti fighetti che aspettano l’estate per mostrare i loro bicipiti scolpiti da ore e ore di palestra; e neanche un appassionato di sci che aspetta con ansia la stagione invernale per andarsene a divertire con gli amici. Per lui, l’unica forma di tempo di cui era a conoscenza, era quella che inesorabilmente, senza che nessuno potesse fermarla, gli aveva invaso sempre più il corpo e senza nessun motivo lo aveva fatto crescere, spuntare la barba, e quella stupida  peluria che per lui non aveva nessun senso …                                                                                                                                  
Così molte volte veniva tentato dalla decisione di far ritornare il letto nella sua sistemazione iniziale: rivolto verso la porta della camera che per la maggior parte del tempo vedeva sempre chiusa. Ma per fortuna, e ringraziava Dio per questo, ogni volta che si soffermava su questo pensiero, un altro più forte lo fermava, lo bloccava, infrangendolo in una miriade di piccole schegge che pian piano si sarebbero però ricongiunte: la convinzione che quella era una delle poche cose su cui si centralizzava la sua vita. Grazie a quella finestra era entrato a conoscenza di molte persone e ogni giorno continuava a scoprirne di nuove, dai volti mai visti prima che, seppur da quella posizione e dal terzo piano della sua casa, riusciva a inquadrare molto bene: erano ormai tre anni, per esempio, che conosceva l’anziana signora del palazzo accanto, che ogni mattina alle sette e mezza si recava, ricurva su se stessa e sorretta da un bastone, a comprare una pagnotta calda e un sacchetto di taralli per i suoi nipotini; sapeva così bene inoltre, il motivo per cui il baccano del pescivendolo sotto casa sua ogni mattina alle cinque in punto lo svegliava: il suo rifornitore abituale si presentava sempre con scatole di pesce contenenti più chili di quanti ne fossero stati richiesti e a volte ne portava alcune contenenti merce addirittura fuori ordine.  
Dio. Che grande fede aveva per Dio il mio piccolo Enrico! Non gliel’ho mai detto realmente, ma come faceva ad averne così tanta? Io stesso non ne avrei avuta in quelle condizioni. Ma come faceva? Sicuramente era più forte di me, più forte di chiunque. E ogni volta che mi soffermavo su questi pensieri, il mio piccolo Enrico mi leggeva nella mente e con quest’ultima sembrava accarezzarmi. Mi fissava intensamente negli occhi e poi mi rispondeva: ‘Dio mi vuole bene, credimi. Mi ha tolto tutto, è vero, ma non le cose più importanti. Il fatto che io possa parlarti ha già dello straordinario.’ E in quelle parole che ormai erano diventate poesia, riuscivo a cogliere tutto il coraggio e la forza del mio piccolo Enrico. 
Nella stanza di Enrico, le ricordo così bene, c’erano molte foto, che principalmente - mi spiegò un pomeriggio lui stesso, quand’ero andato a fargli visita e a tenere compagnia più a me che a lui - si suddividevano in due categorie: alla prima facevano parte quelle foto di lui assieme alla sua famiglia, foto a cui lui non preferiva degnare neppure uno sguardo, poiché ogni volta che le osservava lo rigettavano puntualmente nella sua realtà e nella sua camera. Di certo in giro per casa c’erano molte foto di quel tipo, ma lui non lo sapeva per certo, poiché, a dirla tutta, non sapeva neppure com’era realmente fatta la sua casa; alla seconda categoria facevano parte quelle decine e decine di foto appese senza un preciso criterio, che per molti - compreso io - sarebbero parse inutili e insignificanti, ma che per lui volevano dire molto: rappresentavano infatti il suo salotto, i suoi bagni, il suo balcone, la vista che si godeva da quest’ultimo, le case dei suoi parenti, i luoghi che avrebbe sempre desiderato vedere, foto di sconosciuti con cui aveva ormai fatto amicizia e con cui si dilettava a conversare quando si sentiva particolarmente solo, ma anche paesaggi mozzafiato, costiere marittime, montagne imbiancate … ed erano queste immagini con cui, nel più semplice e possibile dei modi, Enrico teneva in attività la sua mente.
Era stato il medico a consigliare ai suoi genitori quel tipo di attività - forse l’unica che sarebbe stato in grado di fare senza coinvolgere altre parti del corpo o altri sensi a lui non disponibili - questo lo sapeva bene e lo accettava soprattutto per il semplice fatto che il suo sistema nervoso da ormai qualche anno era stato infettato da una malattia che i medici ancora non erano riusciti a capire come, e soprattutto in quelle condizioni, fosse potuta subentrare nel ragazzo: l’Alzheimer. Così puntualmente Enrico perdeva la memoria, credeva di essere qualcun altro e si scordava persino chi fosse e dove vivesse. Ma per qualche strano motivo – che mai sono riuscito a spiegarmi – non si scordava mai di me …  
Il  fatto che Enrico fosse figlio unico, a prescindere, dalle mille e più opinioni della gente, non era affatto un fattore positivo per quello che si sarebbe potuto definire il suo ultimo, lento periodo di crescita maturata. Nel quartiere c’era chi riteneva giusta la scelta dei genitori del ragazzo che, per dedicarsi esclusivamente al figlio, avevano preso l’assai dura decisione di non averne più; altri invece non approvavano assolutamente quel tipo di decisione che per bocca di molti veniva definita come ‘azzardata e menefreghista’.
Ma qualunque fossero state le diverse opinioni della gente – e ancora oggi, ogni tanto mi frastornano la testa - una soltanto era vera e rispecchiava in pieno i due: lo stato di profondo e irrimediabile terrore in cui alla nascita del piccolo erano caduti i genitori, impauriti dal sol pensiero che un altro dei loro figli potesse nascere con le stesse problematiche di Enrico. 
In quel pomeriggio, dove credo sia doveroso cominciare a raccontare per filo e per  segno la storia di questo tanto misterioso quanto simpatico ragazzo – con il suo cespuglio di capelli rossi arruffati che smentiva il suo stato d’animo più di ogni altra cosa - non accadde però nulla di estremamente particolare: Milly - la sua cameriera, nonché una graziosa donna africana che da quattro anni lavorava per il mio piccolo Enrico - entrò in camera per far arieggiare l’ambiente chiuso dalla sera prima; qualche ora più tardi il babbo del ragazzo – un’importante direttore bancario dall’aspetto solenne - si addentrò di tutta fretta nel suo calmo e al quanto insolito stato di riflessione, per avvisarlo che si sarebbero rivisti l’indomani poiché era stato chiamato improvvisamente per ragioni di lavoro; e per ultima, a dargli l’ormai antico, ma ben voluto bacio della buona notte – che certe sere anch’io preferirei avere - fece capolino la madre, che con i suoi modi dolci - che mascheravano perfettamente il suo stato d’animo nero ogni volta che vedeva il figlio -  gli domandò cosa avrebbe preferito mangiare l’indomani. E fu solo allora, dopo qualche ora, che Enrico finalmente si addormentò, inconsapevole, quasi quanto me, di quello che gli sarebbe successo la mattina seguente.
 
 
   
 
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