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Autore: Elle Sinclaire    26/05/2014    1 recensioni
Quando il silenzio fa paura, quando si tenta di riempirlo di suoni e rumori, quando persino compiere i passi verso la vita sembra difficile, l'unico conforto che sembra trovare Martina è quello di rintanarsi in un angolo di se stessa, senza parole da dire né capacità di afferrare il tempo che gli scorre veloce di fianco.
Stefano, il dj di una delle serate più famose della città, sembra avvicinarsi con la stessa lenta apatia al suo mondo fatto di rumori, tenta di penetrare quell'anfratto buio. Poi c'è Rebecca, la sorella di Stefano e amica di Martina, studentessa di filosofia che tornerà a scontrarsi con il suo primo amore, Leonardo. E Irene, una pessima amica senza alcun interesse al di fuori di se stessa, Roma vista attraverso gli occhi di chi la vive ballando, attraverso i suoi vicoli e la sua musica, il rumore del traffico e il vociare di Trastevere.
Questa è una storia fatta di suoni e realtà che collidono, dell'incapacità di affrontare la morte, ma anche la vita.
[Dal primo capitolo: "Giorgia mi sorrideva e basta. Non era una bambina di molte parole, la loquacità l’ha sviluppata verso i tredici anni; all’epoca si limitava a poche frasi e a leggere ad alta voce per me.
Avrei dovuto capire che la sua natura taciturna non era stata solo cancellata con un colpo di spugna, durante un’adolescenza turbolenta. Avrei dovuto capire che Giorgia non diceva quasi niente di tutto quello che in realtà avrebbe voluto e dovuto dire.
Forse se lo avessi capito ora tutto sarebbe diverso."]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Coprimi i piedi di pioggia

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A Gi e Ams,
e la pioggia
che abbiamo preso,
nella nostra casa
senza tetto.
 

A volte dormivo con Giorgia, la notte, nel suo letto. Accadeva quando gli incubi le mangiavano il sonno e lei si svegliava urlando qualcosa, qualcosa che io non capivo mai. Sognava di cadere nel vuoto, mi diceva, di precipitare in un vortice spaventoso e non riuscire a sentire alcun rumore o voce.
Allora mi intrufolavo nel suo letto, quando sentivo il suo respiro tornare regolare e il sonno rapirla di nuovo. Non la toccavo, non le rubavo le coperte, non facevo nulla, se non intrecciare i miei piedi ai suoi. Li ho sempre freddi, sin da quando sono bambina, ed era rassicurante sentire il suo calore e riuscire finalmente a dormire, entrambe, come se non ci fossero problemi nel mondo che potessero dividerci.
Essere sola, in quella caduta, era ciò che la spaventava di più, pensavo io, e mi ripetevo che non sarebbe stata sola, mai. Che mi avrebbe riscaldato i piedi nelle notti invernali, e d’estate io avrei raffreddato i suoi.
Ma quando cadde, cadde sola.
E i miei piedi, alla fine, rimasero freddi.



Stefano ha già chiamato due volte, alle undici di mattina. Il ronzio del cellulare nascosto sotto i cuscini del divano continua a riempire l’aria e Martina beve la seconda tazza di tè, mentre guarda la pioggia picchiare sulla finestra del salotto.
Non è il tempo che si aspettava il ventiquattro giugno, ma è quello che le serve. Per rimanere nel silenzio di una casa vuota, senza risate o parole, nessun film.
Anche Fedra è passata. Alle cinque del mattino, come ogni altra note che passa fuori e poi si ferma a dormire lì, ma stavolta Martina non ha avuto il coraggio di alzarsi dal divano e aprire la porta. Non vuole condividere quella giornata con nessuno, quel dolore vuole tenerselo dentro, al centro del petto, senza che nessuno lo possa scrutare da vicino, mentre lei si disintegra sotto i suoi occhi.
Vorrebbe uscire, però. Sotto la pioggia, perché se piove forse la gente tenderà a non riconoscerla, nascosta sotto il cappuccio del suo parka. Magari andare al mare e sedersi sulla sabbia bagnata, respirare l’aria umida e la salsedine tra i capelli, farsi sferzare da un po’ di vento, con le guance rosse e i piedi gelidi senza calze che sfiorano le onde.
Fa fatica a tenere gli occhi aperti, però. Come se il sonno arretrato le sia calato sulle palpebre tutto insieme proprio quel giorno e lei non volesse far altro che accoglierlo e lasciarsi ricadere a letto, dove potrebbe dormire e dormire tutta la giornata.
Non lo fa mai, però. Ogni mese, da nove mesi, Martina si sveglia, beve un tè, guarda fuori dalla finestra, cammina sotto la pioggia, torna a casa dei genitori quando sa che non saranno lì. Decide di vivere, di non abbrutirsi o farsi trangugiare dall’apatia, dalla mancanza, dalla noia. Non può dormire, Martina, perché sarebbe come iniziare a dimenticare e lei ancora non è pronta a farlo, ancora non ne è in grado. Si aggrappa disperatamente al ricordo di quella notte, in giornate come quelle, quando i contorni del volto di Giorgia sfumano in tratti sempre più somiglianti ai suoi che a quelli di sua sorella. Quando il suono della sua voce si confonde con quello di Fedra, o con la “s” leggermente sibilante di Stefano. Pochi dettagli che non saprebbe più disegnare, le sono rimasti, e ha paura che anche gli altri scivolino via, se solo lei tentasse di confondere il giorno con la notte. Si concentra, mentre si alza dal divano.
Sulla sporgenza delle sue costole, sui due nei sul mento che odiava, sul disordine creativo dei suoi ricci neri.
Sull’inflessione della sua voce e le sfumature gialle dei suoi occhi, il tatuaggio dietro la schiena, le parole che non amava dire, ma che Martina ascoltava nel silenzio che la circondava.
Le chiavi del motorino non le mette neanche in una borsa. Esce solo con la giacca e un paio di anfibi che Fedra ha lasciato in salone l’ultima volta che è stata a casa sua, il casco in una mano e la patente nella tasca dei jeans.
A volte pensa che Giorgia riderebbe di lei e dei suoi sciocchi pensieri da ragazzina depressa. Che alzerebbe il sopracciglio perplessa e le direbbe di smetterla, di chiamare Stefano che si starà preoccupando. Forse invece non direbbe niente, perché Giorgia non amava dare consigli né riceverli.
Ma avrebbe amato Stefano, forse. Il suo modo non invadente di aver messo radice in ogni aspetto della sua vita. Avrebbe ascoltato in silenzio Rebecca straparlare e alla fine non le avrebbe detto niente, ma avrebbe trovato il modo per aiutarla. Forse avrebbe avuto difficoltà a guardare negli occhi Fedra e a volerle bene con la consapevolezza di vivere con lei in un’eterna roulette russa.
Giorgia riderebbe di lei, Martina lo sa. Riderebbe dell’arredamento caotico che ha scelto per la loro casa, delle sue trecce ingarbugliate, del tè ai mirtilli nascosto dietro la confezione di dolcificante, dei tatuaggi che ha fatto, delle foto che ha appeso, della sua collezione di film e della radio sempre accesa e della voce di Stefano che la seguirebbe ovunque in casa.
E Martina la lascerebbe ridere, solo per sentire ancora quel suono affondare come una lama nel silenzio. Tornare a chiamare la cacofonia con il proprio nome. Giorgia.


Quando piove, a Roma, sembra che nessuno sia più in grado di guidare. I fari e gli abbaglianti illuminano le gocce di pioggia, i clacson suonano una sinfonia urbana e itinerante tra le vie della città, le code possono non sbrogliarsi mai e rimanere bloccati nello stesso punto ore, prima di tornare a schiacciare il piede sull’acceleratore.
Martina con il motorino si bagna. Trema un po’, sotto il giubbotto imbottito e il casco integrale, ma si gode i suoni della città in movimento, mentre fa zigzag tra le macchine immobili sulle carreggiate della Colombo.
Ci sono delle bambine nella macchina accanto a lei: le trecce bagnate di una ragazzina che non avrà più di cinque anni e la sorella dagli indomabili ricci, crespi dell’umidità.
Battibeccano sul sedile posteriore, mentre la madre forse si lamenta del traffico, del ritardo per l’appuntamento dal dentista, del marito che si è di nuovo scordato di comprare il tonno. La bambina con le trecce si gira a guardarla e le sorride, come se fosse normale che una sconosciuta in motorino la fissi. Forse anche lei nota la somiglianza, forse è vero che i bambini riescono a vedere ciò che gli adulti tendono di nascondere. Forse quella ragazzina riconosce se stessa, con qualche anno in più e gli occhi più tristi; forse riconosce nell’assenza dietro di lei su quel motorino la sorella che ha smesso di parlare e ora sta guardando fuori dal finestrino anche lei.
Martina, sola, e una piccola Martina e una piccola Giorgia. Con i capelli bagnati, la gioia di un lunedì mattina senza scuola, la madre che ha preso la giornata libera per stare con loro.
Martina vorrebbe fermarsi e fermarle e dirglielo, di non lasciare mai che quella situazione le scavalchi. Che un giorno ci sarà qualcosa di brutto a portare via loro ogni voglia di giocare e parlare e tirarsi le trecce, ma che loro possono essere forti e devono esserlo, perché l’alternativa non è contemplabile.
Lei l’alternativa non l’aveva mai contemplata.
E ora Giorgia non c’è e Martina non riesce a chiamare sua madre, chiederle come sta, se le va di vedersi, un giorno, con calma, parlare un po’. Dirsi se Giorgia, alla fine, l’hanno perdonata.
Martina se lo chiede, a volte, quando è sola. E se lo chiede mentre la macchina con le bambine finalmente si muove e la supera.
Se ha perdonato ogni volta che Giorgia ha risposto con un vago niente, quando fissava il vuoto in silenzio; i sorrisi la mattina, prima di andare all’università; le serate in balcone, a fumare una sigaretta di nascosto dai genitori, a guardare il cielo scurire, a immaginare le stelle da qualche parte, nascoste dalle luci romane.
Se le ha perdonato quella volta che le ha tirato i capelli, tutte le volte che rovinava un suo cd, o perdeva i suoi pantaloni; quando ha fatto l’incidente con il suo motorino e ha preso la multa e poi quand’è caduta.
Per averle rubato dal corredo genetico quei ricci che tanto le invidiava e quegli occhi grandi e ingenui che ingoiavano il mondo e le sue brutture e sembravano trasformarle in favole da raccontare prima di andare a dormire, quando si chiudevano nella loro stanza e lasciavano chiunque fuori.
La perdonerebbe, se potesse.
Ogni cosa, anche averla lasciata.
Ma non lo fa. Quando pensa a lei, quando non dorme, quando esce e cammina sotto la pioggia e va a lavoro o a ballare, quando vede un film con Stefano, offre la colazione a Fedra, lascia sfogare Rebecca. Quando è nel traffico, completamente bagnata e il mare finalmente le appare davanti, gigante, mosso, spaventoso e lei avrebbe solo voglia di buttarsi in acqua e non uscire più.
Novella Ofelia in un mare di disperazione, Martina non la perdona.


Ci sono due cani che giocano sotto la pioggia vicino agli scogli.
Le giostre al pontile sono deserte, i tavoli dei bar vuoti e la paglia dei chioschi sulla spiaggia sembra ballare una danza caraibica dai colori spenti.
Le impronte dei suoi passi sono sole.
Affonda un piede nella sabbia, poi un altro, cammina per qualche minuto, poi si ferma. C’è un gradino proprio davanti al molo su cui lei e Giorgia si sedevano da bambine e osservavano i bagnanti, mentre aspettavano di poter fare il bagno dopo pranzo.
La nonna le sgridava sempre, perché laggiù non poteva vederle, ma a loro piaceva, quella piccola porzione di marciapiede da cui riuscivano a vedere la spiaggia e la strada. Come se stessero aspettando qualcuno, ma in realtà avessero tutto a portata di mano.
Ed era così, forse. E Martina ancora non la capisce, Giorgia, e quello di cui ha avuto bisogno per anni che lei non è riuscita a darle. Se ci fosse qualcosa di esistenziale insito in lei, grigio, qualcosa che assomigliasse fino all’ultima sfumatura a quella giornata di pioggia, o se fosse solo un capriccio di chi ha sempre candidamente ammesso di non aver paura di morire.
Forse c’è qualcuno che non ha davvero paura di morire, nella vita, ma non è lei, quella persona. O forse non è abbastanza egoista da essere in grado di lasciare la disperazione dietro le proprie spalle, come se non ci fosse niente da abbandonare.
Giorgia l’ha abbandonata e lei è stanca di essere sola, su quella spiaggia, con la pioggia e il silenzio tutto intorno e solo qualche tuono e lo schianto delle onde sul molo.
Ostia, grigia, deserta, sommersa dall’acqua e dal mare e da ogni tipo di paura che lei potesse riversarci dentro.
Forse, a volte lo pensa davvero, c’è qualcuno che le spazza via tutte, come un’onda sulla sabbia che cancella la promessa eterna del sangue che Giorgia non ha mantenuto.
Forse, a volte lo pensa davvero, Stefano vuole solo ricordarle che qualcuno nel mondo non la lascerà. Forse la chiama per la sesta volta, quella mattina, perché vuole rimanere in silenzio accanto a lei, a bagnarsi di pioggia e onde e guardare l’orizzonte affondare.
Così, quando il telefono squilla ancora, apre il messaggio appena arrivato, con mani tremanti e lo sporca di sabbia. C’è il nome di Stefano grande e nero ed è quasi confortante, come un film che ha già visto mille volte e di cui conosce il finale.
“Ho qualcosa per te.”
Non sa cosa sia, Martina, se c’è qualcosa nel mondo, qualcuno, che quel ventiquattro giugno possa farla sentire meglio.
Forse, a volte ci crede veramente e quella è una di quelle volte, Stefano può esserne in grado.
“Sono in spiaggia.”


La prima cosa che vede, sono due cani.
Due cuccioli dagli occhi grandissimi e il pelo corto e bagnato. Li sente abbaiare e correre sulla sabbia. Non pensa abbiano più di tre mesi, Martina, al massimo cinque. Si rincorrono e sembrano felici mentre ignorano la pioggia.
Uno dei due le si avvicina. Martina sporge la mano e quello la annusa un po’ diffidente per qualche secondo prima di strusciare il muso.
Martina sorride.
Subito dopo sente la voce di Stefano e non sa perché, ma non se ne stupisce. Non appena ha visto quelle due palle di pelo è stata sicura che ci fosse Stefano con loro. È una sensazione inconscia, irrazionale. Qualcosa che non comprende, ma per cui potrebbe mettere una mano sul fuoco. Il secondo cane trotterella accanto a lui e gli morde i jeans, Stefano ride.
C’è qualcosa di mistico nella visione di Stefano sulla spiaggia, con i capelli bagnati, tra la pioggia e il suo sorriso. Il sorriso di Stefano riesce sempre a farla sentire al caldo, come tra una coperta di lana, all’asciutto davanti a un caminetto acceso, di quelli che da bambina chiedeva sempre alla madre. Perché noi non abbiamo un camino, mà? Perché a casa nostra fa sempre freddo?
“Giorgia amava il freddo,” dice appena Stefano si siede accanto a lei. Anche i cani ora stanno buoni, accucciati ai loro piedi, come se anche loro sapessero che è un momento importante, serio, che non c’è bisogno di richiedere attenzioni.
“Diceva che era sempre un’ottima scusa per bere un tè bollente e rimanere sotto le coperte ad ascoltare i Cure.”
Stefano non la guarda. Trova sempre il modo di non infrangere la bolla di intimità che spalanca davanti a lui in quei rari momenti in cui sa di cosa parlare, di rimanere in silenzio al suo fianco e farla sentire sola, ma non abbandonata.
“Piaceva anche a me il freddo…”
“Ora non ti piace più?”
Martina sembra pensarci un attimo e fa una carezza al cane alla sua destra; quello posa il muso sulla sua gamba e sembra quasi sorridere empatico.
“Ora non c’è nessuno che mi tenga caldi i piedi di notte,” calibra bene le parole, le rigira tra le labbra, tra i denti e sulla lingua. Le scandisce bene, come se fosse una confessione di cui vergognarsi, ma importante. È tutto importante, Stefano l’ha capito, qualsiasi parola esca dalle sue labbra. Ne apprezza il valore, perché è qualcosa che Martina non regala a nessuno. Gli sembra quasi di esserselo meritato.
“Neve ha dormito ai miei piedi, stanotte.”
Martina non capisce subito di chi stia parlando, poi nota che il batuffolo di pelo al suo fianco alza le orecchie a sentire il proprio nome.
“Hai chiamato questo cane Neve?” le viene quasi da ridere e forse lo fa, perché Stefano sorride di più. “Dimmi che l’altro si chiama Bianca!”
Stefano ride, stavolta apertamente. È una sensazione nuova, rilassare i muscoli del volto, il ventiquattro del mese. È una sensazione che Martina ha dimenticato, ma questa volta le viene quasi naturale farlo, perché il sorriso di Stefano è contagioso.
“No, l’altro si chiama Milza,” dice. E Martina ricorda Baudelaire e Giorgia e i Cure e la pioggia. Ricorda i due pesci rossi che avevano da bambine, Milza e Neve, e ricorda di averlo raccontato a Stefano il mese prima.
Non sorride più, ora. Ma ha negli occhi una gratitudine immensa che riempie Stefano di orgoglio.
“Il cane di un mio amico ne ha avuti quattro qualche mese fa e io ne ho sempre voluto uno. Ma non posso separare questi due, guardali… sono fratelli, gli farei del male. E non posso neanche tenerli entrambi in casa. Magari Neve puoi tenerlo tu, se ti va…”
Martina ancora lo guarda, fisso negli occhi. Immagina Neve ciondolare tra le mattonelle della sua cucina e mangiarne i mobili e la poltrona della nonna, ciancicare le felpe di Fedra e dormire tra le lenzuola del suo letto, ai suoi piedi. Scaldarglieli di notte, scacciando via gli incubi e il ricordo di quella notte, respirare forte accanto a lei, senza lasciare che il silenzio la spaventi. Un po’ per volta prendersi spazio nella sua vita e nella sua casa, tra i suoi amici, la forma del suo corpo sul divano, i peli sul tappeto, la ciotola in cucina.
Una parta di Stez per lei, pensa, chiudendo gli occhi e posando la testa sulla spalla di lui.
Che meno invadente di Neve si è guadagnato ogni cosa, anche il suo posto preferito sul suo divano e il diritto di scegliere il film il mercoledì sera e la musica anche a casa e non solo in radio. Di cucinare qualcosa ogni tanto, di portarle la colazione la domenica mattina, di entrare senza essere invitato e lasciare le scarpe all’ingresso accanto alle sue.
Si è guadagnato ogni cosa, anche la fortuna di essere lì. La possibilità di mandarle messaggi, di ventiquattro giugno, e aspettarsi una risposta, un saluto, un “vieni qui”  che non aggiunge altro, ma sottintende “ho bisogno di te”.
Sorridono entrambi, quando Milza abbaia.


Stefano entra per primo in casa e ha in braccio Neve. Cammina verso la credenza in soggiorno e accende la radio, mentre Martina prende degli asciugamani e si siede sul divano esausta, con Milza al suo fianco. Parte una canzone dei Nationals e lei sorride a occhi chiusi, mentre fuori la pioggia smette di incalzare sulle finestre chiuse.
Stefano va in cucina e mette a bollire l’acqua per il tè e si ferma a guardarla, sulla porta del salone, assorto. Gli sembra più bella, con i capelli bagnati e gli occhi chiusi e quella canzone che la culla in quel momento di pace. Non l’ha mai vista davvero tranquilla, si rende conto. Mai del tutto a difese abbassate, sempre schierata dietro il suo muro fatto di silenzio e nervi tesi e occhi sul punto di piangere che non piangono mai.
Ora forse potrebbe piangere, sembra che lo stia facendo dietro le palpebre chiuse. Non capisce se le ciglia siano bagnate di lacrime o pioggia e se stia tremando per il freddo o perché avrebbe voglia di lasciarlo avvicinare. Le si siede accanto e le porge una tazza; Martina neanche lo guarda, ma sorride un po’ e sorseggia il suo tè ai mirtilli con calma, senza dire niente, senza toccarlo o aprire gli occhi. Stefano vorrebbe scavare nella sua mente e chiederle ancora di Giorgia, dei pesci rossi, del perché di ogni suo tatuaggio e di ogni sua lacrima non versata. Però resta in silenzio anche lui, come sempre.
Appena conosciuta, pensava di non essere in grado di comunicare con lei ed entrare nel suo mondo e spezzare quella barriera silenziosa, come cristallo sottilissimo, che la separa dagli altri; ora lo sa, che è quello il loro modo. Che Martina dice tutto tra gli occhi serrati sotto le ciglia e le labbra socchiuse, tra le tazze di tè e i film a tarda notte e le carezze ai cani. Tra i ventiquattro giugno al mare sotto la pioggia e le mani che si sfiorano, proprio lì, sul pelo ancora umido di Milza. Ora Stefano sa che Martina in quel modo sta parlando con lui.
E lui ascolta.


Buongiorno da Radio Cacofonia, cari ascoltatori!
Sembra proprio che il cielo non voglia smettere di far piovere e lasciarci con uno spicchio di sole, ma noi  siamo comunque tornati qui a farvi compagnia nel traffico mattutino per andare a scuola o lavoro o mentre tornate a casa dopo una nottata a far baldoria.
Io l’ho passata in bianco per colpa del raffreddore. Non ho più il fisico per passare la giornata sotto la pioggia, ma ne è valsa la pena, tornare a casa, e non importa che sia la tua… tornare a casa e avere qualcuno che ti riscalda i piedi tra i suoi, sotto una coperta davanti a un film. Annegare ancora un po’, lo scalpitio dei cani sul pavimento, un respiro regolare, nessun’altra parola. Imparare ad ascoltarsi, con la pioggia che ancora si infrange sui vetri a intervalli irregolari e sembra quasi di essere a Londra e amarla, la pioggia.
Perciò godetevela, questa pioggia, e tenetevi caldo a vicenda, mentre io vi dedico questa.


England – The Nationals

 

Note:

Mi scuso infinitamente per questo periodo sconfinato che ho lasciato passare. Mi scuso davvero tantissimo, ma non mi metterò a giustificarmi, perché intanto penso che non sia rimasto nessuno della vecchia guardia a lggere, e poi perché giustamente non penso vi freghi nulla!
Ora come ora sono a Londra - beh, no, sono stata a Londra da Febbraio a Mercoledì scorso, ora sono in Berkshire, a un'oretta da Londra, in una casa da paura e due papà gay - e non so se e quando aggiornerò, ma confidate, forse entro il 2020!
Spero che sia rimasto ancora qualcuno interessato a questa storia e che vorrà lasciarmi due parole :)
Un bacione e spero a presto,
Elle
PS: Io e la mia ex coinquilina sistolina siamo sempre QUI

   
 
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