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Autore: Aries K    28/05/2014    4 recensioni
[Bellarke]
'Non avevo mai incontrato uno come lui, prima d’ora. Un individuo mite come una bestia in procinto di diventare pericolosa, ma che alla fine si scopre essere un cucciolo d’animale costretto dai suoi fantasmi ad attaccare per sopravvivere.'
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti! Prima di lasciarvi alla lettura volevo avvisarvi che, nel testo, troverete delle citazioni provenienti dalla intro della serie. Il perché lo comprenderete leggendo :P. Che altro dire? Questa è la mia primissima Bellarke, coppia che mi ha trasmesso un qualcosa fin dal pilot. Spero mi perdonerete per eventuali errori ma, avendola letta e riletta innumerevoli volte, temo che qualcuno mi si sfuggito c.c
Mi farebbe piacere conoscere un vostro parere, e buona lettura!
Ps: Questa FF nasce dopo l'episodio "Day Trip".







'Essi divenivano parte di quell'universo irreale, ma fervido e intenso, che è il mondo visto attraverso gli occhi d'amore.'

'Gita al faro', Virginia Woolf




Mi piace pensare che io sia sempre stata una persona piuttosto brava nel saper dominare le proprie emozioni. Persino la sofferenza e il dolore provati dopo il lancio di mio padre non erano riusciti a mettermi in ginocchio –non del tutto, almeno-, né l’inutile odio provato per Wells era riuscito a farmi miseramente strisciare. Forse avevo vacillato nello scoprire che quest’ultimo si era tanto impegnato nel farsi detestare da me, la sua unica e migliore amica, solo per non lasciarmi provare quel sentimento così brutale nei confronti della donna che mi aveva messo al mondo, e che in fin dei conti doveva essere geneticamente programmata per non mentirmi.
In quel caso, sì, avevo incespicato nel mio stesso autocontrollo.
Eppure, imparare a conoscere Bellamy Blake si era rivelato, per il mio temperamento, essere la sfida più grande. Convivere con i suoi continui affronti, arrestare le sue imprese pindariche e ignorare bellamente i suoi sorrisi sghembi era un’impresa che prosciugava tutto il mio essere, non meno che imparare ad intendere il Bellamy Blake vulnerabile, insicuro e con un bagaglio pieno zeppo di errori e sensi di colpa. Non avevo mai incontrato uno come lui, prima d’ora. Un individuo mite come una bestia in procinto di diventare pericolosa, ma che alla fine si scopre essere un cucciolo d’animale costretto dai suoi fantasmi ad attaccare per sopravvivere.


Quella mattina il campo era in fermento: grappoli di persone erano radunati in piccoli e compatti assembramenti per adempire ad un preciso incarico: c’era chi divideva il cibo come Monty e Jasper (quale tra queste risorse può resistere e quale è meglio sgraffignare prima? Ehy dai, passami una nocciolina!), o chi invece era chino di fronte ad un fuocherello a far rotolare la punta di una lancia di bambù sulla fiamma. Quella visione mi rese ancora più cosciente dell’inverno alle porte, e che dovevamo tutti collaborare al nostro meglio per batterlo sul tempo.
Rimasi ad osservare quel viavai frenetico beandomi del pacato senso di aspettativa che si respirava nell’aria –di una speranza per un procedere sempre meno utopico- quando una figura balenò dinanzi i miei occhi mettendomi in mano un’enorme borraccia. Era Raven.
-“Clarke, c’è bisogno di altra acqua.” Il tono con cui aveva pronunciato quelle parole lasciava intendere più che quello fosse un ordine anziché una velata richiesta. Sforzai un sorriso, come avveniva da un po’ di tempo con lei.
-“Va bene, andrò a prenderla.”
-“E’ pericoloso.” Una terza voce s’intromise alle mie spalle, come se fosse sempre stata lì in attesa di intervenire; non dovetti nemmeno voltarmi per capire che Finn stava per raggiungerci. Riconobbi il suo passo svelto intercedere, schiacciare foglie umide e sassolini.
-“Finn…”, iniziò Raven, e mi fu chiaro che dovette lottare contro se stessa per non rovesciare gli occhi al cielo.
-“Raven”, l’ammonì lui, ora comparendo al nostro fianco, pallido e con i capelli scompigliati,-“non possiamo mandare Clarke là fuori. Non con una possibile rappresaglia in corso.”
-“Non sono di certo una sprovveduta”, ribattei guardandolo dritto negli occhi, un’abitudine che avevo perso ma che non avevo nessuna voglia di rifare mia,-“dovresti saperlo.”
Contrasse la mascella, il ragazzo che aveva tanta voglia di proteggermi. Contrasse la mascella e cercò malamente di imitare il mio sguardo glaciale; gli mancava, però, l’intenzione e il freddo negli occhi.
-“Allora vengo con te”, si propose facendomi scoppiare a ridere. Una risata talmente ilare che, se non fosse stato per il sonoro sbuffo della sua fidanzata che l’aveva sopraffatta, forse Finn si sarebbe offeso nell’udirla, e, stizzito, mi avrebbe guardata come si guardano gli sconosciuti maleducati.
-“Dove pensi di andare nelle tue condizioni?”, sbottò l’altra, indicando il suo addome ancora fasciato.
-“Ha ragione lei. Sei convalescente, Finn. Rimani qui a riposare, non puoi permettere all’inverno di farti trovare impreparato. Sei in buone mani.”
A quel punto dovette riconoscere di essere con le spalle contro un muro perché Finn non si azzardò a controbattere, rimase impalato a fissarmi, probabilmente pretendendo che io riuscissi a captare la muta conversazione che sembrava stesse provando ad inviarmi con gli occhi. Ruppi il contatto visivo nello stesso momento in cui, davanti a me e a qualche testa di distanza, la tenda di Bellamy si aprì come lo squarcio di una ferita, da cui uscirono lui e una ragazzetta dagli arruffati capelli biondi.
Il solito idiota che non perde tempo. Un altro. Mi ritrovai a pensare, sorprendendomi a stringere con forza il collo della borraccia.
Bellamy si perse in un lunghissimo stiracchiamento, ancora a petto nudo e con i capelli neri sparati in tutte le direzione, i quali, anziché suggerire una notte all’insegna del piacere, davano più l’impressione che lui fosse reduce da un incontro di lotta con qualche Terrestre. Troppo impegnata a guardarlo con disapprovazione che non avevo nemmeno notato lo sguardo della ragazza bionda: era furente. Gli angoli della bocca all’ingiù e la fronte aggrottata non lasciavo dubbi, era davvero fuori di sé. Mi passò accanto ed ebbi l’impressione che i suoi piccoli occhi azzurri si fossero soffermati nei miei un po’ più del dovuto.
Ad ogni modo, senza nemmeno avere tempo di premeditarlo e avvertendo gli sguardi di Raven e Finn trapanarmi la schiena, mi ero già avvicinata a Bellamy.
-“Principessa”, disse a mo’ di saluto, sbattendo le palpebre per scacciar via gli ultimi residui di sonno.
-“Abbiamo da fare, Bellamy. Dobbiamo andare a prendere l’acqua, mi serve qualcuno che mi copra le spalle. E che non abbia esitazione ad usare un’arma.”
Bellamy si mise le mani sui fianchi e dondolò la testa, un sorriso compiaciuto a piegargli gli angoli delle labbra. Non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di sentire la sua risposta: era bastato pompare il suo ego per convincerlo. Tant’è che disse:
-“Quindi hai pensato subito a me.” Non era nemmeno una domanda, quella.
-“Allora, vieni o no?”
-“Dammi cinque minuti.”
Lanciò un’occhiata oltre mie spalle –la presenza gravosa delle mie due ombre era palpabile- e con una smorfia si andò a rintanare nella sua tenda.
Sospirai, e una volta giratami incontrai il disappunto dipinto nel volto di Finn.
Venne verso di me, lasciando solchi profondi sul terriccio grasso.
-“Perché proprio lui? Lo sai che io non mi fido di Blake”, ringhiò, non troppo forte per farsi sentire anche da Raven rimasta a braccia conserte ad una distanza di cortesia, nemmeno troppo piano per evitare a Bellamy di udire oltre la tela del suo accampamento.
-“Appunto: tu non ti fidi di lui, non io.”
Scosse freneticamente il capo, storcendo la bocca in cerca di parole che potessero convincermi del contrario.
-“Come vuoi, Clarke. Non sei fatta per essere domata, è vero, ma spero che non ti pentirai delle tue scelte.”
Poi Finn fece per oltrepassarmi, ma io lo afferrai per un braccio, trattenendolo.
-“Fiducia. Scelte. Stai parlando di cose che non conosci, Finn.”
E lo lasciai andare.

Bellamy fu pronto cinque minuti dopo, proprio come mi aveva promesso. Aveva deciso di indossare la sua solita tenuta: maglietta a mezze maniche blu notte, giubbino nero e pantaloni dello stesso colore che sparivano all’interno di stivali sporchi di fango e consunti dalle intemperie.
Lungo il cammino non avevamo parlato molto, entrambi eravamo impegnati a pensare ai nostri affari anche se, ad ogni suono sospetto, trasalivamo per poi accostarci spalla a spalla per controllare se intorno a noi ci fosse una reale minaccia. Era molto più spaventato di quanto sarebbe stato disposto ad ammettere ma, dal momento che nemmeno a me piaceva l’idea di essere nel mirino di una tribù terrestre senza scrupoli, convenni che non era il caso di farglielo notare.
La nostra gita fuori porta stava andando bene, dopotutto.
Uscimmo dalla fitta foresta e ad accoglierci, riflesso nel letto nell’alveo del fiume, vi era un sole alto e accecante. L’acqua scintillava come per porgerci un saluto, i raggi si riflettevano sulle pietruzze e sugli scogli donandogli un’aria di opaca evanescenza. Pensai che a quell’ora del giorno, quel piccolo spazio naturale, fosse il luogo ideale per rifugiarvi e disegnare, raccogliere quindi ogni sfumatura captata, ogni particolare e risaltarlo sulla carta. L’inclinatura degli alberi, la leggera brezza che ogni tanto increspava la superficie verdeazzurra, la cascata, le cime azzurrine delle montagne sullo sfondo, il terriccio intatto, i cespugli incolti e verdi che ancora accoglievano sulle foglie le ultime lacrime di rugiada e…Bellamy.
Bellamy piegato sulle ginocchia con le borracce tutt’attorno, impegnato a riempirle mentre i ciuffi ricci e ribelli della frangetta gli balzavano all’altezza delle palpebre. Tracciare con il carboncino il suo volto serioso, creare con un colpetto secco e leggero la linea del suo naso e costellarlo di tante piccole punteggiature per ricreare lo spruzzo delle sue lentiggini. Annerire le ombre del suo corpo, giocare con queste e dar rilievo alla sua muscolatura tesa, rigida… cercare di capirlo, comprenderlo, attraverso l’unico mezzo con il quale riuscivo a catturare il mondo e a farlo mio: il disegno.
-"Clarke?"
La sua voce mi strappò bruscamente dalle mie fantasticherie e solo dopo essermi riscossa mi resi conto di stare ancora impalata al limitare della foresta, con la mano che non reggeva le borracce all’altezza del petto muoversi con trasporto, disegnando su una tela invisibile.
-“S-sì, eccomi. Stavo solo pensando”, mi affrettai a giustificarmi, inginocchiandomi al suo fianco. Svitai un tappo ed iniziai ad imitarlo, concentrandomi sui rivoli d’acqua che venivano imprigionati.
-“Tutto okay? Non hai aperto bocca per tutto il tragitto, ed è strano per una principessa ribelle.”
-“La principessa è stanca, Bellamy. E’ a capo di un regno piuttosto impegnativo; sai, non è facile essere al comando.” Dopodiché gli lanciai un’occhiatina alzando un sopracciglio, giusto per verificare se avesse colto, nelle mie parole, la propria citazione. Dondolò il capo, annuendo e sorridendo.
-“Touché.
Passai alla seconda borraccia.
-“Sai cosa dovresti fare? Staccare la spina.”
-“Mi stai dando un consiglio? Non sei molto bravo a darne, o dovrei ricordarti di Charlotte?”
Non ricevendo risposta temetti di esser stata troppo irruente. Mi pentii un istante dopo di avergli ricordato quel piccolo, tragico incidente. Mi voltai verso di lui con la voglia di mozzicarmi la lingua:
-“Scusami, io non volevo dire davvero quello che…”
-“E’ tutto apposto”, m’interruppe lui, senza fretta né rabbia,-“non hai tutti i torti. Charlotte aveva dell’oscurità dentro di sé, avrebbe potuto travisare qualsiasi cosa io gli avessi detto. Non è stato facile capirlo –e forse non l’ho nemmeno del tutto fatto- però, quello che sto cercando di dirti, Clarke, è che devi staccare la spina, volgere i pensieri altrove per quanto sia difficile, altrimenti il tuo regno potrebbe ricevere consigli sbagliati, un giorno.”
Quella fu la -vera- prima volta che io provai l’impulso di baciare Bellamy Blake.
Il pensiero di poggiare le mie labbra sulle sue era sempre più molesto da quando la corazza che lo avvolgeva aveva iniziato a creparsi e dunque a liberare la luce contenuta; ma immaginare di baciarlo, di essere curiosi di come sarebbe, non era niente in confronto all’istinto primordiale che mi stava attanagliando la mente e il corpo. Eravamo occhi negli occhi, così vicini che sarebbe potuto accadere. Così vicini che mi sarebbe bastato lasciare la presa su quella dannatissima borraccia, prendergli il volto tra le mani e avvicinarlo a me. Eravamo così vicini che sarebbe stato facile, facile da far male.
Perché non lo feci. Mi rigirai per passare alla terza sacca.
-“Ci siamo invertiti i ruoli?” Fu tutto ciò che riuscii a dire. Anche se il mio tono era ben lontano da quello scherzoso che mi ero prefissata di far uscire, Bellamy non intuì il mio stato scombussolato.
-“Allora credo sia meglio rinfrescarci le idee.”
Scattò in piedi lasciando cadere a terra il giubbino, poi intrecciò le braccia e quindi si sfilò la maglietta che, nel cadere sopra al primo indumento, indirizzò nelle mie narici una folata d’aria pregna del suo odore selvatico.
Dovetti chiudere gli occhi e poggiare a terra un ginocchio per rimanere stabile e non cedere al bisogno fisico di toccarlo, sentire le sue mani sul mio corpo; sdraiarmi e poter assaporare il silenzio dei miei pensieri, avvertendo il punzecchiare della pietra sulla schiena mentre lui non mi concedeva possibilità di fuga, gravando sopra di me.
Forse è proprio di quello che avevo bisogno: il non avere scelta. Perché quelle che avevo fatto fin ora si erano rivelate clamorosamente sbagliate.
Non poteva più sbagliare la Leader, ma non poteva più sbagliare nemmeno Clarke.
Però, tutto quello che mi fu chiaro allora, era che entrambe avevano bisogno di quel ragazzo che adesso si ergeva in cima ad un innalzamento, poco distante dalla piccola cascata.
Mi issai in piedi riponendo le borracce una sull’altra e guardai Bellamy studiare la profondità di quell’acqua cristallina, mentre le mani armeggiavano distrattamente con la cintura dei pantaloni.
Dovette avvertire la prepotenza del mio sguardo carico di desideri e ritrosia, perché si voltò senza smettere di spogliarsi. Il buonsenso mi suggeriva di tornare al mio dovere –o perlomeno voltarmi, abbassare il capo, fare qualsiasi cosa- e invece rimasi a sostenere il suo sguardo. Uno sguardo che sembrava indecifrabile, ma che pian piano si sciolse in un sorriso micidiale. Mi sentii sorridere a mia volta, e fu in quel momento che Bellamy si calò giù i pantaloni, rimanendo in biancheria intima.
-“Stacca la spina, Clarke”, gridò da lassù, tornando a mirare in basso,-“goditi la Terra. Non sprecare questa possibilità.” E si tuffò.
L’acqua lo inghiottì nel suo ventre, sparendo dalla mia vista. Tuttavia, da dove mi trovavo potevo vedere la sua ombra guizzare veloce come un’anguilla. Approfittai della lucidità che la sua assenza mi aveva concesso per spogliarmi a mia volta, rimanendo in canottiera e mutandine. Con la punta del piede saggiai la temperatura dell’acqua e, pensai, nell’avvertirla tiepida, che non avevo nessuna scusa per non raggiungere Bellamy, ora tornato in superficie e intento a rinviarsi i capelli all’indietro.
-“Quale onore.” Abbozzò un sorriso ammiccando verso di me, per poi iniziare a nuotare nella mia direzione, fermandosi ad una esigua distanza. Se solo mi fossi mossi i nostri ginocchi si sarebbero quantomeno sfiorati. Ingoiai quel pensiero in cerca di saliva, sinceramente sconvolta delle sensazioni che il mio corpo provava al cospetto del ragazzo che un tempo credevo di detestare. Ma, credetemi, una volta raschiata la superficie delle cose, potreste indovinare un nuovo mondo capace di mettere in discussione il vostro…e come se ciò non bastasse, io credevo nelle seconde possibilità. Bellamy se ne era meritata più di una, anche se, ogni tanto, dovevo ancora redarguirlo come fosse un bambino eccessivamente impulsivo.
-“Clarke, prima di tornare al campo…”
Poi si zittì di colpo, facendo scattare il capo verso sinistra. Nello stesso istante facemmo pressione sul fondo e ci mettemmo in piedi, l’acqua che ci lambiva metà addome, ed io seguii il suo sguardo che andava a mirare lo scorrere della cascata senza però comprendere cosa lo avesse disturbato. -“Che c’è? Cosa hai visto?”, gli domandai, guardinga. Lui aggrottò la fronte e mi fece cenno di seguirlo. Se un attimo prima il suo viso era sereno, aperto come quella bella giornata, adesso era ombroso, all’erta. Ci muovemmo piano verso il getto della cascata. -“Bellamy, si può sapere cosa hai visto?”, continuai, gettando occhiate a destra e a manca.
-“Guarda. E dimmi quello che vedi.”
Nel pronunciare quell’ordine appena sussurrato, Bellamy si posizionò dietro di me, poggiando le sue mani sulle mie spalle. Aguzzai la vista fissando il punto che mi aveva indicato, mettendoci più del dovuto ad intravedere, tra l’acqua cascante e la sua schiuma, l’inconfondibile varco di una grotta.
Mi entusiasmai e guardai Bellamy.
Fece cenno di sì alla mia muta richiesta di entrarvi.
Quindi ci muovemmo in sincrono, tacitamente d’accordo, verso la nostra nuova scoperta. Trattenemmo il respiro e attraversammo quel furioso velo liquido, ritrovandoci, poi, nell’antro. Istantaneamente fu come approdare in un’altra dimensione, più silenziosa e fresca e oscura.
-“Wow”, esclamai, sollevando lo sguardo in alto, facendo arrampicare i miei occhi lungo le pareti rocciose e sporgenti. Davanti a noi il percorso spariva nel buio, quasi quel luogo ci stesse sfidando a violarlo: “volete scoprire cosa nascondo? Seguite il sentiero.”
Questa volta, quando guardai Bellamy, lui scosse il capo, fulminandomi con gli occhi: no, non avremmo scoperto quel giorno i segreti di quel rifugio.
-“Dovremmo tornare attrezzati: torce, funi, qualche arma e un paio di noi”, precisò.
-“Qualche arma? Chi pensi di poter trovarci?”, sollevai un sopracciglio, e lui fece lo stesso, rispondendomi:
-“Non ce ne sono mai a sufficienza, di armi, Clarke. E non possiamo sapere in che modo la Terra decide di metterci alla prova. Terrestri o no, lì in fondo, troveremo sicuramente qualcosa ad attenderci.”
-“E quel ‘qualcosa’ ci troverà pronti”, mormorai soprappensiero, poggiando una mano sulla parete rocciosa. Con il dito tracciai un breve tratto avanti e indietro, pensando a quanto quel posto –per quanto apparentemente ostile- esercitasse su di me un grande fascino. Non vedevo quelle sporgenze come un assembramento di rocce, ma come un immenso spazio su cui poter dipingere.
-“Sai che le grotte furono il primo rifugio dell’uomo? E che esse erano veri e propri centri di culti arcaici. Hai mai sentito parlare di pitture rupestri?”
Mi voltai verso di lui senza togliere la mano dalla cripta.
Colsi Bellamy sorridere nel guardarmi.
-“Sì”, fece avvicinandosi,-“certo che ne ho sentito parlare. Ho avuto la tua stessa educazione, mia principessa. Stiamo parlando della Preistoria.”
-“Esatto. L’uomo è riuscito a tornare indietro. Noi, siamo quelli che dovranno riscrivere la storia –certo, siamo più avvantaggiati rispetto agli uomini primitivi, le nostre conoscenze e il nostro linguaggio sono superiori, per non parlare dell’evoluzione in sé- ma tocca a noi riscrivere tutto.”
-“E’ una grande responsabilità, non trovi?”
Adesso potevo avvertire il suo fiato caldo solleticarmi la parte sinistra del volto e del collo. Mi si mozzò il fiato, il corpo percorso da tanti piccoli brividi.
-“Sì”, sibilai,-“lo è. Ma in questo momento tutto ciò che vorrei è iniziare a scrivere la storia di tutti noi.”
E te, Bellamy, ma questo non lo dissi.
-“Come volete, principessa.” Il tono della sua voce aveva spazzato via l’ironia di poco fa e, prima ancora che potessi verificare il suo sguardo, Bellamy aveva affondato il naso tra i miei capelli umidicci e poggiato la mano sulla mia.
Ero imprigionata tra la parete e il suo corpo grondante di acqua e sesso.
Non avevo scelta.
Proprio come desideravo.
-“Bellamy, ti prego…”
-“Sono io che prego te, Clarke…”
-“…ti prego non fermarti”, conclusi, reclinando il capo contro la sua spalla. Sentii il suo corpo irrigidirsi contro il mio, impreparato al suono della mia preghiera.
Ci guardammo fugacemente prima di far entrare in contatto le nostre labbra. Chiusi gli occhi abbandonandomi completamente a lui, sicura che, intorno a noi, fosse calato un sipario. D’altro canto, era esattamente quella la prima impressione che provai dopo aver attraversato il getto della cascata; quello di aver attraversato un telo che dopo essersi richiuso aveva confinato alle nostre spalle i suoni della natura, la vita stessa tranne noi.
Bellamy strinse la mia mano e mi fece girare e poi aderire contro la parete, adesso le nostre mani erano palmo contro palmo, strette come se non dovessero più dividersi, mentre i nostri corpi si scaldavano e le nostre bocche si cercavano fameliche.
Accolsi la sua lingua carnosa e con un mugolio mi aggrappai alla sua schiena, le ginocchia che cedevano sotto il peso di tutto quel desiderio. Un desiderio urgente ed imperioso che non avevo mai sperimentato in vita mia.
L’altra sua mano s’insinuò nella mia canottiera appiccicaticcia raggiungendo un seno, che strinse e massaggiò un istante dopo. In risposta cercai di privarlo del suo unico indumento ma l’impedimento di aver libera una sola mano mi costrinse in movimenti impacciati che mi fecero smaniare.
-“Faccio io”, sussurrò lui, ghignando sulle mie labbra ancora socchiuse. Mi chiedevo quando sarebbe tornato, quel suo ghigno strafottente.
Così gli li morsi il labbro inferiore, cancellandoglielo; tutto ciò che posso dirvi era che, un attimo dopo, ci eravamo ritrovati completamente nudi. Spogliati dei nostri miseri indumenti, e delle maschere che una volta finito l’amplesso avremmo dovuto, a forza di cose, recuperare per tornare in scena.
Le sue mani erano dappertutto. Stringevano, carezzavano, graffiavano e si aggrappavamo al mio corpo facendomi sentire preziosa, come se fossi il suo unico bisogno al mondo. Mi ritrovai sopra di lui, scivolando nella sua lunghezza, colma di lui in ogni poro.
Feci l’amore con Bellamy Blake, e fu tutto fuorché romantico o delicato: era stato come ritrovarsi coinvolti in una lotta per la sopravvivenza, una continua ricerca della supremazia e di far sottomettere l’altro in modo dolcissimi e selvaggi al tempo stesso.
Ero stremata, sfinita ed incredibilmente viva, proprio come Clarke Griffin desiderava sentirsi.
Non la Leader dei cento, non la figlia tradita, non la ragazza che aveva assistito alla brutture della vita, ma solo un essere umano che aveva bisogno di un altro essere umano.


Verso la strada per il ritorno non avevamo aperto bocca. Di nuovo. Non che mi aspettassi altro, anzi. Quel silenzio pregno di stupore e appagamento era tutto ciò di cui avevamo bisogno. Eravamo tanto uguali anche in questo, e lo apprezzai.
Quando la foresta si dissipò mostrandoci il cancello del campo il disappunto e la scontentezza di riunirci agli altri fu quasi palpabile.
Feci per aprire il cancello, quando Bellamy mi afferrò di colpo un braccio, facendomi sussultare.
Girai il capo verso di lui, guardandolo da sopra la spalla e nei suoi occhi vi lessi talmente tante emozioni che non ne colsi nemmeno una.
E’ stato incredibile.
Non posso credere che sia successo questo.
E’ durato troppo poco.
Adesso che facciamo?
Scappiamo.
Non potevo esserne certa, ma sono quasi sicura che erano quelle le parole che mi avrebbe confessato se non fosse che Finn spalancò il cancello, accogliendoci da brava sentinella.
-“Siete tornarti, finalmente. Iniziavamo a preoccuparci.”


La sera calò lentamente, stancamente, proprio come pian piano l’operatività dei miei compagni andava via via a scemare. Avevano lavorato tutto il giorno, senza interruzioni –se non quelle necessarie per soddisfare i bisogni primari e urgenti, ed ora la fiacca iniziava a chiedere il conto.
Io avevo appena terminato la mia razione di cibo, le spalle contro un tronco –un po’ in disparte rispetto gli altri-, con l’odore di Bellamy ancora sulla pelle, tanto da domandarmi oziosamente come fosse possibile che nessuno percepisse quella mia nuova fragranza.
Perché era come se Bellamy mi avesse contagiata, nemmeno fosse una malattia da cui stare alla larga, e dunque mi sembrava oltremodo impossibile che nessuno si fosse reso conto della mia affezione. Nemmeno Raven, che adesso si era seduta accanto a me. Era chiaro come il sole appena scomparso che mi aveva raggiunta per parlare. Eppure stette in silenzio, le ginocchia tirate al petto, la coda di cavallo un po’ scompigliata e lo sguardo distante, come se stesse tenendo una conversazione con sé stessa.
Da parte mia, nemmeno io le diedi spago, limitandomi ad osservare i miei compagni: Jasper e Monty si punzecchiavano con frasi del tipo “Se Rachel ti guarda, amico mio, è perché è ancora sotto effetto di quelle stra-maledette noccioline, cosa vai pensando?” e poi facevano finta di azzuffarsi ridendo, per poco non sbattendo contro un gruppetto che stava ritirando le ciotole della cena. Poco più in là Octavia sorrideva sorniona al fiore bianco che roteava distrattamente tra le mani, avvolta nella copertina blu che Bellamy le aveva offerto qualche giorno prima. Infine osservai Raven, e poi guardai la tenda in cui si scorgeva l’ombra di Finn. Con lui c’erano un ragazzo e una ragazza e, a quanto sembrava, lo stavano aiutando a cambiarsi la fasciatura. Sospirai.
-“Tu e Bellamy avete fatto un buon lavoro, oggi. Avete anche recuperato un po’ di legna e nuove canne per creare lance.” Se quello era un complimento, le venne piuttosto piatto. Ma Raven era così, sembrava sempre…scazzata. Eppure, nonostante tutto, eravamo una bella squadra. Che ciò fosse dipeso dalla strana alchimia che si andava a creare quando venivano in contatto l’una con l’altra, o che fosse perché lei provava stima nei confronti di mia madre, questo, beh, non potevo saperlo.
-“Sì, non è stato difficile recuperare anche quelle cose, dal momento che le abbiamo trovate sul nostro cammino”, dissi, per poi aggiungere,-“è di questo che volevi parlarmi?”
Esitò, portandosi la mano a toccare il ciondolo della collana. Feci finta di non essermi accorta di quel gesto, né di non aver compreso dove volesse andare a parare.
-“Julia, la ragazza che questa mattina hai visto uscire dalla tenda di Bellamy, mi ha confessato che lui ha pronunciato il tuo nome in quel momento.”
E come se non avesse già sufficientemente sottolineato le ultime tre parole, gli occhi di Raven mi perforarono, intensi e diretti. Per un attimo rimasi scombussolata, poi feci sfarfallare le palpebre, totalmente sgomenta. -“Sei una ragazza sveglia, Clarke, non posso credere che tu non abbia…”
-“Che io non abbia?”
-“Che tu non abbia capito che la regina ha bisogno di un re. Devo essere più diretta? Sai ultimamente con le metafore mi trovo meglio.”
Principessa, la corressi mentalmente – come se quello fosse il punto cruciale della conversazione-, lui mi chiama così.
E comunque no: prima dell’incontro nella caverna il pensiero che Bellamy provasse qualcosa per me non mi aveva mai sfiorata. Avevo notato che il nostro rapporto si stava evolvendo, notavo il modo in cui aveva imparato a difendere la mia autorità di fronte al resto del gruppo, e di come trovasse più facile accettare le mie proposte. Ma che lui covasse per me anche solo un briciolo di sentimento, non avrei mai potuto sospettarlo.
Ma sapevo che il punto era un altro.
Ed eccolo, lì, baluginare nel fondo delle sue iridi nocciola: cercava disperatamente di aggrapparsi a quel pettegolezzo per spingermi nelle braccia di qualcuno che non fosse Finn.
Quello che Raven non sapeva era che stava combattendo una guerra alla quale io avevo annunciato la mia ritirata.
-“Finn è stato un errore. Non sapevo nemmeno che tu esistessi. Non considerarmi come un problema, sono fuori.”
Raven sembrò essersi pentita di aver intavolato quella conversazione. Pentita e leggermente rincuorata dalle mie sincere parole, accompagnate da un tono di voce piuttosto esasperato.
-“Lui è tutto ciò che mi rimane. Non posso permettermi di perderlo.”
Le sorrisi dandole una piccola pacca sul ginocchio.
Io pensavo che Raven avesse perso Finn ancor prima di incontrare me; nonostante ciò stetti in silenzio perché quello era un fardello che non volevo e non potevo portarmi sulle spalle.
-“Adesso siamo tutti una famiglia, Raven. Non hai solo Finn.”
In quell’istante Bellamy passò davanti a noi, mi rivolse uno sguardo appassionato, intenso, e poi sparì in mezzo agli altri.
Bastò quello per avvertire una morsa proprio al centro dello stomaco, riaccendendo quel lieve stupore non ancora digerito per ciò che avevamo lasciato accadere.
Con la coda vidi il volto di Raven aprirsi in un sorriso, come se lo sguardo che Bellamy mi aveva indirizzato fosse una sua personale vittoria. Io feci lo stesso –non potevo fare a meno di sorridere- volgendo la testa al lato opposto al suo affinché ella non cogliesse quanto anche io, in fin dei conti, mi sentissi gloriosa.



Era stato facile, anche fin troppo oserei dire, sgattaiolare fuori dal campo con Bellamy, l’indomani mattina. Piccole e luminose stelle ci spiavano dagli spiragli di foglie, ancorate a rami che sembravano braccia scheletriche pronte ad agguantarci per le magliette.
Dapprincipio credevo che a disturbare il mio sonno fosse stato un animale, o il piede indesiderato di qualche mio compagno, sennonché, schiudendo quel tanto che bastava le palpebre vidi il volto di Bellamy Blake a tre centimetri dalla mia faccia. A giudicare dalle occhiaie che gli costellavano gli occhi un po’ appesantiti, dedussi che non aveva chiuso occhio.
Mi aveva detto di seguirlo, che doveva farmi vedere una cosa, ma che non dovevo in nessuna maniera preoccuparmi.
Ma come facevo a non preoccuparmi? Mi stupivo persino che lo stavo seguendo, con il cielo non ancora del tutto rischiarato, priva di armi e assonnata in quel percorso che stentavo a riconoscere. Questo fin quando non udii, a distanza, il tipico scrosciare della cascata.
-“Siamo di nuovo qui?”
-“Pazienta. Se ne sei capace.” Mi lanciò un’occhiatina divertita e poi tornò a farmi strada, io dietro di lui ad incespicare in radici che il giorno prima avevo saputo evitare.
Aggirammo il fiume e i suoi argini fino ad infilarci in un innalzamento di rocce e terriccio, il quale fummo costretti a percorrere con le spalle rasenti la rocce per evitare di gravare in acqua.
-“Hai parlato a qualcuno di questo posto?”, mi chiese lui, una volta dentro la spelonca.
Mi sfregai le mani sulle braccia tanto il freddo che c’era nell’aria.
-“No, a nessuno. In realtà non ne ho avuto modo.”
-“Bene”, sembrava sollevato,-“nemmeno io l’ho fatto. C’è una cosa che voglio mostrarti.”
Dopodiché frugò all’interno dello zainetto che si era portato dietro e accese una torcia, il cui cono di luce puntava ai miei piedi. Bellamy indugiò un po’, poi si decise a spostare il fascio sulla parete.
Ed io rimasi senza fiato, meravigliata e sinceramente commossa da ciò che vedevo.
-“Questa è la storia di una ragazza nata nello spazio, che non aveva mai sentito il sole sul viso né respirato aria vera, e non aveva nemmeno mai nuotato nell’acqua…”, iniziò a narrare Bellamy, leggendo le incisioni che vi erano state pitturate.
Che lui aveva inciso, per me.
Il bozzetto di una ragazza china a disegnare nella sua cella cedette il posto a novantanove piccoli omini, e la voce di Bellamy tornò a levarsi nel silenzio,-“nessuno di loro lo ha fatto”, l’illuminazione lasciò al buio le prime due raffigurazioni e ne illuminò una terza, un groviglio di pittura e linee che riconobbi subito: l’Arca.
-“Per tre generazioni, l’Arca ha mantenuto in vita ciò che resta della razza umana. Ma ora la nostra razza sta morendo e noi siamo l’ultima speranza per l’umanità”, Bellamy aveva in seguito disegnato un globo e una navicella che puntava ad esso,-“Centro prigionieri”, proseguì,-“sono stati mandati in una disperata missione sulla terraferma. Ognuno di loro è qui perché ha infranto al legge”, un omino scuro, che nel puntarlo Bellamy aveva avuto un fremito, doveva essere se stesso,-“ma sulla terraferma non ci sono leggi. Tutto ciò che dobbiamo fare è sopravvivere. Verremmo messi alla prova dalla Terra…”, un grande alone giallo occupava gran parte del muro roccioso e quando capii si trattasse della nebbia assassina, mi salì un groppo in gola,-“…dai segreti che nasconde”, un cervo a due teste era stilizzato e sembrava correre, come per sfuggire dalla minaccia della nube dietro di lui.
-“E, soprattutto, ci metteremo alla prova a vicenda.” Infine Bellamy aveva riprodotto un gruppetto di ragazzi intenti a legare un ragazzo. Quello doveva essere il momento in cui avevamo bandito Murphy.
Mi voltai verso di lui, non sapendo cosa dire di preciso.
-“Tu sei la persona più qualificata a riscrivere la storia di tutti noi. Sei la persona a cui dobbiamo dire grazie se siamo sopravvissuti fino ad oggi. Tu mi hai detto che hai bisogno di me…”, lasciò cadere la torcia che, nell’assestarsi in un angolino, gettò un fascio di luce sin al soffitto illuminando tutto lo spazio circostante,-“…ma la verità è che io ho bisogno di te.”
Le sue mani si sollevarono fino a prendermi il viso tra le mani, e mi condussero lentamente sulle sue labbra screpolate per il freddo ma incredibilmente morbide al tatto. Insinuai le mie, di mani, nei suoi capelli neri e lo spinsi ancora di più verso di me, quasi dovessimo fungersi in una sola persona.
-“Questo posto è solo nostro”, ansimò, dopo un paio di minuti,-“qui puoi disegnare come facevi sull’Arca. Un posto dove puoi staccare la spina, meditare, stare da sola. Però, ci sarò sempre io con te, il nostro destino non sarà una fardello solo tuo.”
Annuii, affondando il viso nella sua spalla.
-“Devi esserci, sì, perché senza di te potrei crollare. Non sono così forte come tutti pensano, anche io potrei cedere.”
-“E’ un peso troppo grande per le tue spalle, lo riconosco. Ed io non ti ho reso le cose facili”, ridacchiò stampandomi un fugace bacio tra i capelli.
-“No, infatti. Ma due spalle sono meglio di una. Non sarei qui, di nuovo tra le tue braccia, se non ti avessi considerato una persona degna di fiducia.”
Restammo in quella posizione per un tempo che mi parve infinito, al tempo stesso, mi sembrò che fosse troppo misero. Dovevamo tornare al campo, e in fretta, prima che qualcuno si accorgesse della nostra assenza, si allarmasse o, peggio, cominciasse a far circolare voci che avrebbero creato solo scompiglio e nient’altro.
Non sapevo dove mi avrebbe condotto quella strana e famelica “alleanza” ma una cosa era certa: adesso Bellamy faceva parte della storia di Clarke Griffin –la Leader e la ragazza- e questo mi fece comprendere che io avrei potuto essere entrambe, scrivendo insieme l’unica storia che valeva la pena tentare di vivere. Quella di una nuova era.
Insieme.

   
 
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