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Autore: _juliet    04/06/2014    7 recensioni
{Victorian Age}
Una tipica famiglia alto-borghese è stata colpita da una tragedia: la morte del capofamiglia e di sua moglie. I due gemelli Abigail e George Brownhill non riescono a sopportare il dolore della perdita e devono essere rinchiusi, lei in manicomio e lui nelle sue stanze; intanto il fratello maggiore, Francis, deve farsi carico di mandare avanti gli affari di famiglia, nascondendo al mondo e, al contempo, prendendosi cura dei suoi fratelli problematici, guidato dalle migliori intenzioni. O forse no?
Prima classificata e vincitrice del premio "alta tensione" al contest "Ci rivedremo a Filippi", indetto da Chloe R Pendragon sul forum di EFP
Prima classificata al contest "Fratelli, comunque sia" indetto da Dark_Wolf (e portato a termine da Roses98) sul forum di EFP

Terza classificata al "My favourite songs contest" indetto da Elisaherm sul forum di EFP.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta per il contest Ci rivedremo a Filippi indetto da Chloe R Pendragon sul forum di EFP. Il mio pacchetto era Veleno e conteneva la canzone "Passive" degli A Perfect Circle.
Buona lettura :)

 

A song of inevitability


You disappoint me -
Maybe you're better off this way.
A Perfect Circle

______________________________


Il giorno che sarebbe morto, Francis Brownhill si svegliò, come di consueto, in tempo per prendere parte alle preghiere del mattino. Finita la Messa, rientrò nei suoi appartamenti, dove fece colazione con salmone affogato con contorno d'insalata di menta, accompagnato da scones farciti. Mentre il suo valletto provvedeva a elencare gli impegni che lo attendevano, sorseggiò una tazza di thè indiano, osservando i giardinieri nel parco. Dopo essersi occupati di alberi e cespugli, stavano innaffiando le rose.
Era sempre stata lei a prendersi cura dei fiori, fin da quando era bambina. Era stata un'idea della madre, per preparare la piccola a quella che sarebbe stata la sua vita, per fare in modo che sviluppasse anche altri interessi, oltre a quelli che si confacevano a una signorina del suo rango. Certo, all'inizio per lei si era trattato semplicemente di un gioco ma, con il passare degli anni, il suo entusiasmo non era mai diminuito. Era stato così per tanto tempo, rifletté Francis, che era strano pensare che i fiori potessero sbocciare da soli, anche senza il suo intervento. Ironicamente, quella fioritura era una fra le più incantevoli che avessero mai avuto.
Anche se il ballo sarebbe iniziato in serata ed era sicuro di poter rientrare in tempo per cambiarsi, Francis scelse con cura gli abiti che avrebbe indossato: abbinò pantaloni color beige, molto aderenti, a una camicia leggera di lino e a un panciotto dello stesso tessuto. Il valletto lo aiutò a mettersi una marsina blu scuro, dal taglio semplice e rigoroso, e gli portò gli stivali di cuoio, puliti e lucidati perfettamente. Indeciso sugli accessori, Francis optò per una cravatta bianca di seta e la girò più volte intorno al collo, per poi annodarla in modo elaborato e fermarla con una spilla d'oro. Rivolse nuovamente lo sguardo al giardino e decise che, dato che la giornata era così soleggiata, avrebbe preferito il bastone da passeggio all'ombrello. Senza dimenticare di ringraziare il valletto per il suo aiuto, lasciò le sue stanze.
Il maggiordomo lo raggiunse nel suo studio, portandogli la posta e informazioni riguardo i preparativi per la festa. Nonostante il suo resoconto fosse impeccabile, Francis Brownhill notò che gli si rivolgeva non senza un certo imbarazzo. Lasciò che terminasse il suo rapporto e, con garbo e parole gentili, gli domandò quale fosse il problema. Dopo qualche attimo di esitazione, l'anziano servitore confessò: «Il signorino George, signore, lui... rifiuta la colazione e non vuole uscire dai suoi appartamenti. E quegli orientali, signore... è nuovamente in loro compagnia.»
Francis sospirò, sconsolato; avrebbe dovuto immaginare che si trattasse di suo fratello. Ultimamente, si trattava quasi sempre di lui. Sorrise al maggiordomo e gli chiese, per cortesia, di continuare a svolgere il suo lavoro: avrebbe pensato lui a George. In seguito sarebbe uscito, per rientrare nel tardo pomeriggio. Avrebbe letto la posta in carrozza.
Rimasto nuovamente solo, Francis si alzò e si avvicinò al caminetto. Attese per alcuni minuti, fissando senza particolare interesse un dipinto che ritraeva la famiglia al gran completo, solo pochi anni prima. Guardò i visi dei suoi genitori, tranquilli e sereni, sicuramente abbelliti dal talento del pittore. I suoi occhi si spostarono, indugiando a lungo su di lei, sui suoi capelli castani, sulle guance rosee. Infine, rivolse lo sguardo alla figura di George, così sorridente, così simile a lei. Si chiese come fosse possibile che, in un tempo così ridotto, le cose potessero cambiare in modo tanto viscerale. Forse, era il caso di far rimuovere quel quadro. Con un ultimo sospiro, tornò al piano superiore e si diresse nelle stanze di George.
L'odore nauseabondo e dolciastro dell'oppio era percepibile già nel corridoio. Francis storse il naso e bussò ma, anche se le voci all'interno erano chiaramente udibili, non ottenne alcuna risposta.
«George?» chiamò. «George, apri la porta.»
La voce impastata del fratello gli suggerì, in modo poco educato, di andarsene. Cercando di costringersi a non perdere la pazienza ancora prima di essere entrato, Francis decise di optare per un'azione di forza.
Quando spalancò la porta, fu travolto da una nube di fumo denso e acre, che penetrò nei suoi occhi e nei suoi polmoni, causandogli bruciore e un attacco di tosse. Oltre all'odore pungente dell'oppio, Francis riusciva a distinguerne altri: aroma di anice, finocchio, menta.
«George, come puoi bere assenzio a quest'ora?» esclamò, muovendo le mani davanti al viso, nella speranza di ricavarsi un po' d'aria pulita da respirare.
Dall'interno della camera, udì qualcuno ridere, ma suo fratello non rispose.
Dopo che i conati cessarono di scuotere il suo corpo, Francis si azzardò ad entrare nella stanza, facendosi strada a tentoni. Le pesanti tende di stoffa scura avvolgevano lo spazio in una cupa penombra; riusciva a discernere diverse figure, ma dovette attendere alcuni secondi affinché i suoi occhi si abituassero all'oscurità.
L'aspetto della camera era stato completamente stravolto; la mobilia era accatastata contro le pareti, fatta eccezione per dei pagliericci che, con tutta probabilità, non erano mai stati lavati e un tavolo sgangherato, con qualche sedia attorno. Gli orientali di cui il maggiordomo gli aveva parlato erano tre ed era impossibile dare loro un'età: avrebbero potuto avere l'età di George come quella del loro padre. Erano vestiti di colori sgargianti e lo osservavano pigramente; due fumavano quelle loro pipe, sdraiati mollemente sulle stuoie, mentre il terzo aveva tutta l'aria di stare preparando la sua.
«Hai trasformato i tuoi appartamenti in una fumeria?» domandò Francis, rivolto all'unica figura seduta al tavolo. Fece un passo avanti, ma inciampò in un oggetto di vetro, riverso sul pavimento. Con calma, raccolse la bottiglia di Pernod Fils¹, appiccicosa a causa del liquido che ne era fuoriuscito, e la posò accanto alle altre che ingombravano la tavola. «Non ti bastava coprirti di ridicolo in città? Vuoi ridicolizzare anche questa casa?»
George non rispose. Strafatto com'era, probabilmente non era in grado di prestare la dovuta attenzione a più di un'azione alla volta e, in quel momento, si stava preparando un calice di assenzio. L'ennesimo, a giudicare dal puzzo acre che emanava, anche da una certa distanza.
Francis attese. Osservò suo fratello versare, con mani esperte, la giusta quantità di liquore nella base ad ampolla del bicchiere; in seguito, agguantò il cucchiaio forato e vi appoggiò una zolletta di zucchero, per poi versare acqua gelata fino a quando l'assenzio fu sufficientemente diluito; anche nella penombra, Francis riuscì a vedere il liquido opacizzarsi. George gettò la testa all'indietro, trangugiando in un solo sorso il contenuto del bicchiere, e, solo in quel momento, concesse la sua attenzione al fratello.
I suoi occhi blu erano assenti e velati, profondamente infossati in un viso che non aveva più quasi niente di quello ritratto nel quadro dello studio; i tratti si erano fatti spigolosi, il fisico risentiva dell'abuso di oppio e di assenzio. George aveva tre anni meno di lui ma, in quel momento, sembrava più vecchio di trenta.
«Sono i miei amici» biascicò, muovendo vagamente una mano nella direzione degli orientali. Tentò persino di presentarli, ma i loro nomi sembravano essere troppo difficili da pronunciare, e il tentativo ebbe il solo risultato di provocare risolini sguaiati in tutti gli occupanti della camera.
In tutti, tranne che in Francis. «Perché ti fai questo?» chiese.
La risata di George fu troncata da un suono profondo, simile a un singhiozzo. Si alzò in piedi e indietreggiò, barcollando e biascicando parole incoerenti, ma inciampò in una pila di libri abbandonata sul pavimento; in qualche modo, riuscì ad aggrapparsi al tavolo e non cadde, ma il calice Pontarlier² gli sfuggì di mano e andò in pezzi. Il giovane lo fissò per qualche attimo, prima di caracollare a terra, cercando di raccogliere i cocci.
Francis sospirò e chiuse gli occhi, domandandosi perché mai stava continuando a guardare quello spettacolo pietoso. George era sempre stato considerato particolare; la solitudine gli era sempre stata congeniale, come anche una certa inclinazione alla malinconia e all'autodistruzione... ma, dopo le tragedie improvvise che avevano colpito la loro famiglia, queste sue tendenze erano notevolmente peggiorate.
Non erano pochi gli amici nel settore medico che gli avevano consigliato di far trascorrere al fratello un periodo in una delle loro strutture di ultima generazione, per aiutarlo a guarire. Ma Francis Brownhill sapeva cosa accadeva in quei luoghi; sapeva come venivano "aiutati" gli esseri umani segregati in quelle prigioni.
Quando si era trattato di lei, quella scelta era stata obbligata, necessaria; ma George non era pazzo, poteva ancora essere salvato. Non importava quanto la loro ipocrita società trovasse riprovevole il suo comportamento, non l'avrebbe mai fatto rinchiudere. D'altra parte, molti uomini distinti e illustri condividevano i suoi stessi vizi; possedevano soltanto una bravura superiore nel nasconderli.
Un gemito attirò la sua attenzione: George si era tagliato e osservava con interesse il sangue che sgorgava dal suo palmo destro. In un secondo Francis fu al suo fianco; si inginocchiò con attenzione e cercò di tamponare la ferita, ma il fratello lo allontanò con uno spintone.
«George-» iniziò Francis, ma il fratello urlò, piegandosi in avanti. Aveva una mano affondata nella gola, l'altra, quella ferita, stringeva convulsamente il tessuto della camicia, all'altezza dello stomaco.
«George, perché?» sbraitò il maggiore. Lo afferrò per le spalle, sbattendolo violentemente contro il muro. «Perché ti sei ridotto così? Siamo rimasti tu ed io nella nostra famiglia! Avremmo dovuto restare uniti, non allontanarci in questo modo!»
Improvvisamente, gli occhi di George si accesero di un bagliore quasi violaceo. Emise un altro urlo, ma questa volta si trattava di una parola di senso compiuto: «Vattene
Senza prestare attenzione alla reazione del fratello maggiore, lo scansò e si trascinò sul pavimento, fino ad arrivare accanto ai suoi "amici", che avevano osservato la scena senza particolare interesse. A quel punto, aprì un baule sottile e ne estrasse una tipica pipa da oppio, lunga e dotata di un fornello di terracotta a forma di mezza sfera.
Francis osservò la preparazione ancora per qualche istante. Quando il fratello iniziò a fumare con rapide, piccole boccate, si alzò da terra e si diresse verso la porta, ripiegando con cura il fazzoletto sporco di sangue che aveva usato per tamponare la ferita.
«Ti ricordo che questa sera avremo degli ospiti. Al momento, le nostre finanze sono in pessime condizioni e abbiamo bisogno dei loro investimenti» disse, adottando il tono professionale che usava con i suoi collaboratori. «Vorrei che ti dessi una ripulita e partecipassi, se ti è possibile. In caso contrario, ti prego di non farti vedere.»
L'unica risposta del fratello fu un sospiro deliziato, mentre la droga cominciava ad avere effetto.
«Mi deludi, fratello» commentò Francis Brownhill, avviandosi verso la porta. «Ma forse è giusto così.»

 

***


«Come sta?» chiese, mentre camminavano nel corridoio buio, i loro passi che rimbombavano sul marmo.
L'infermiera scosse la testa, con aria sconsolata. «Non migliora, signor Brownhill. Alterna stati di apatia e di euforia quasi violenta. Lei capisce, signore, dobbiamo sedarla. Persino legarla-»
«Comprendo perfettamente» disse Francis, più freddamente di quanto avrebbe desiderato. La discussione di quella mattina e la stanchezza cominciavano a farsi sentire; doveva riprendere il controllo di se stesso, e in fretta: quella sera avrebbe avuto degli ospiti.
Dopo qualche istante di silenzio glaciale, l'infermiera si sentì in dovere di continuare. «A proposito di questo, signore, le sue attuali condizioni non sono ottime» disse, fermandosi di fronte a una porta di legno, dipinta di bianco. «Forse il signor Brownhill preferirebbe tornare domani?»
Francis le rivolse un sorriso, facendo appello a tutta la calma di cui disponeva.  «Ho mai mancato di fare visita a mia sorella?» domandò, lanciando alla sua interlocutrice uno sguardo affilato.
«No, signore!» si affrettò ad esclamare la donna. «La signorina Abigail è molto fortunata ad avere un fratello così devoto» con mani tremanti, armeggiò fino a quando riuscì a far scattare la serratura. «La signorina è fortunata» ripeté, mentre la porta si apriva con uno stridio metallico.
Ringraziandola per averlo accompagnato, Francis la congedò e si concesse un sospiro e uno sguardo all'ambiente che lo circondava.
La stanza era quadrata e piccola, con un'unica, grande finestra dotata di tende chiare che a stento mascheravano le sbarre; i muri, come nel resto della struttura, erano di colore bianco e verde pallido, l'intonaco leggermente scrostato dove l'umidità era filtrata. Non senza una certa sorpresa, Francis notò che era comparsa una nuova scritta; avvicinandosi, scoprì che le parole erano state tracciate con le dita ed erano di un color rosso scuro, quasi marrone.
«Se c'è un Dio, dovrà implorare il mio perdono» lesse ad alta voce, avvicinando il viso al muro. Inalò con piacere l'odore di stantio, di polvere e sangue. Il suo sguardo corse alle altre scritte – solitudine, aiutatemi, non ho fatto niente, versi di becere poesie d'amore, George, George, George – prima di posarsi sulla figura che occupava il letto sgangherato. «È così, Abigail?» chiese.
La sorella non rispose. Sedeva fra le coperte, appoggiando la schiena ai cuscini; teneva le mani in grembo, sui polsi le escoriazioni profonde lasciate dalle manette erano ancora fresche, le dita erano rosse di sangue. Le caviglie erano strettamente legate, ma solo con un pezzo di stoffa; probabilmente, quando era sedata le catene non erano necessarie o, forse, sapendo che lui sarebbe andato a trovarla, i medici avevano optato per un'alternativa meno cruenta. Avvicinandosi al letto, Francis poté chiaramente percepire l'odore acre dell'urina e del corpo umano.
«Abigail?» chiamò. «Abby?»
Fra i suoi capelli si intravedevano numerosi fili d'argento e la chioma le ricadeva sulle spalle in ciocche sfibrate, sporche. La pelle del viso pareva essersi assottigliata, rendendo le ossa più pronunciate. I suoi occhi blu, identici a quelli di George, erano spenti, inariditi; guardavano e guardavano, tutti i giorni, senza vedere nulla.
Dopo qualche minuto speso nella contemplazione dello spettacolo, Francis Brownhill si avviò verso la porta. «Tornerò domani» assicurò, richiudendola alle sue spalle.
Si diresse verso l'uscita dell'istituto, passando velocemente di fronte al bancone all'ingresso. All'ultimo minuto cambiò idea e tornò indietro, per porre la consueta domanda.
«Ha ricevuto visite?» chiese, anche se conosceva già la risposta.
«No, signore» mormorò l'infermiera, con aria addolorata. «Nessun visitatore. A parte lei, naturalmente.»
Non appena lo sportello della carrozza si chiuse dietro di lui, Francis affondò la schiena nel sedile, coprendosi la bocca con la mano guantata, nel tentativo di soffocare la risata. Era naturale che non vi fossero visitatori: se ne era assicurato personalmente.

 

***


Quando Francis Brownhill rientrò, in ritardo, scoprì che non solo George si era dato una ripulita e aveva deciso di partecipare alla festa, ma si era addirittura accollato il compito di intrattenere gli ospiti in sua assenza, servendo vino e stuzzicherie. Lo accolse con un sorriso e un calice di rosso, presentandolo a gran voce alla sala gremita.
Su invito di un socio, accettò di suonare il pianoforte, dando un'ottima prova di sé e delle sue capacità.
Francis lo osservò attentamente, approvando gli abiti che indossava e la scelta interessante – anche se fuori moda – di portare all'occhiello un piccolo mazzo di fiori scuri; la loro sfumatura violacea si intonava al colore dei suoi occhi.
Il maggiore comprese di potersi rilassare e cercò sempre di stare seduto in disparte, per permettere alla stella del fratello di brillare, fintanto che era in condizioni accettabili. Che tutti quegli ipocriti borghesi vedessero che entrambi i fratelli Brownhill erano in grado di portare avanti gli affari del defunto padre, nonostante tutto.
«Non ti starai ubriacando?» la voce di George lo distolse dai suoi pensieri.
Osservando la grande quantità di calici vuoti di fronte a lui, Francis dovette convenire e si rese conto che, nonostante non avesse fatto altro che bere vino per tutta la sera, aveva ancora una gran sete e la sua bocca era secca. Tentò di alzarsi in piedi e ondeggiò pericolosamente, tanto che dovette cercare sostegno nelle braccia del fratello.
«Sembra che tu abbia proprio esagerato» mormorò il minore, divertito. «So che è tardi, ma perché non prendiamo qualche bottiglia dalla riserva, per festeggiare?»
Francis avvertiva una leggera acidità e sapeva di aver bevuto troppo; avrebbe preferito congedarsi e andare a dormire, ma l'insistenza del fratello e di alcuni ospiti che avevano ascoltato la conversazione lo convinse ad accompagnare George nelle polverose cantine della villa.
Con una lanterna ad olio in mano, il minore lo precedeva scendendo la scala lunga e tortuosa, voltandosi di tanto in tanto, per raccomandargli di stare attento.
Gli occhi di Francis lacrimavano nello sforzo di focalizzarsi sui gradini e sapeva di barcollare vistosamente, ma non era disposto a rinunciare al suo ruolo di fratello maggiore. «Ti sei comportato molto bene, questa sera» esordì, cercando di adottare un tono solenne. «I nostri genitori sarebbero fieri di te.»
«Spero che lo saranno» commentò George, l'ombra di un sorriso sul volto fiocamente illuminato. In seguito, tacque a lungo, mentre scendevano lentamente fino a raggiungere l'antro in cui erano posizionate le grandi botti di rovere.
Francis si chiuse maldestramente la porta alle spalle e si appoggiò al muro, esausto. Doveva davvero essere ubriaco fradicio, per disperdere le sue forze solo scendendo una scala. Aveva il fiato corto e la vista annebbiata, e l'acidità di stomaco non faceva altro che intensificarsi.
«Quest'anno, la Belladonna ci ha regalato una splendida fioritura, non trovi?» chiese George.
Francis si costrinse ad alzare lo sguardo e vide che il fratello si stava rigirando fra le dita gli strani fiori violacei che, prima, portava all'occhiello. Fece per replicare, ma si rese conto di avere la bocca secca. Deglutì sonoramente, cercando di sciogliere il groppo che gli bloccava la gola, rimpiangendo il bicchiere di vino che aveva lasciato nel salone.
George lo osservò per qualche minuto, per dargli il tempo di rispondere, poi continuò, avvicinando la lanterna al suo viso. «Sai qual è il suo nome scientifico, fratello?»
La luminosità fioca della fiamma ferì la retina di Francis come se si trovasse di fronte a un incendio; sentì gli occhi pizzicare e si passò una mano sul volto, scoprendo che la sua pelle era imperlata di sudore e scottava. «George» riuscì ad articolare, ignorando il bruciore alla gola. «Non mi sento ben-»
«Si chiama Atropa Belladonna» lo interruppe il fratello, allontanando il lume. «È quello che si potrebbe definire un nome parlante.»
«Ho bisogno di bere» Francis barcollò fino alla botte più vicina, si accasciò sul pavimento e provò ad aprire il rubinetto, ma le sue mani erano sudate e scivolavano sul metallo freddo. Dopo qualche istante di tentativi, la gola pulsò e Francis emise un ringhio disperato.
George si avvicinò, tenendo il lume ben alto. Si posizionò di fianco al fratello, con la schiena appoggiata contro il legno di rovere. «Deriva dal greco: a-tropos, cioè l'inevitabile. Non a caso, Atropo era il nome di una delle tre Moire» spiegò, mentre con un unico gesto girava il rubinetto.
Il vino uscì in un getto purpureo; inondava il pavimento, infradiciava i suoi vestiti, ma a Francis non importava: poteva berlo e quello, al momento, era il suo unico interesse.
George lasciò che si dissetasse, ascoltandolo deglutire.
Dopo qualche istante, Francis richiuse il rubinetto ed emise un sospiro soddisfatto; appoggiandosi alla grande botte, si rialzò in piedi. Sentiva di essere instabile ed era consapevole che il suo corpo era scosso da tremiti; dopo aver trovato il vino che stavano cercando, si sarebbe scusato con gli ospiti e sarebbe andato a dormire. D'altra parte, George aveva dimostrato di essere in grado di occuparsi della festa da solo. In quel momento, si ricordò della presenza del fratello; lo cercò con lo sguardo e vide che stava camminando a passi lenti, poco lontano.
«Il nome-» biascicò, mentre la gola ricominciava a pulsare. Si portò una mano al collo, schiarendosi la voce. «Il nome di una Moira, sì.»
Tentò di fare qualche passo verso il fratello minore, ma le sue gambe non risposero ai comandi e si sbilanciò in avanti. In qualche modo, riuscì a indirizzare la caduta verso la botte e vi si accasciò contro, privo di forze. Provando a fare forza sulle mani, scoprì di essere crollato nel mezzo della pozza di vino e si lasciò sfuggire un gemito. «George, sono ubriaco. Portami nelle mie stanze» farfugliò.
Il fratello annuì, ma non si mosse. «Il nome di una Moira» ripeté. «Per la precisione, di quella che, nella mitologia greca, taglia il filo della vita.»
Francis mugolò, mentre un capogiro gli faceva girare la testa. La nausea lo attanagliava, e avvertiva la pelle d'oca sulle braccia. «George, ti prego. Finirai dopo questa-» in quel momento, un conato lo assalì; lo percepì chiaramente risalire la sua gola e vomitò sul pavimento.
Stava ancora tossendo, quando George rispose, la sua voce incredibilmente vicina. Si era spostato ancora, ed era in ginocchio di fronte a lui. «Invece credo proprio che dovresti ascoltare fino alla fine» sussurrò. «Sai perché all'Atropa Belladonna è stato dato questo nome?»
Francis aprì gli occhi e incrociò quelli del fratello, tuffandosi in due pozzi incredibilmente scuri, tanto bui da sembrare neri, magnetici. Senza riuscire a distogliere lo sguardo, scosse lievemente la testa, sperando che quella farsa terminasse in fretta.
«Per ricordare a tutti che l'ingestione delle sue bacche causa la morte.»
E fu in quel momento, mentre gli occhi di George si accendevano di un lampo violaceo, che Francis capì.
«Che cos'hai fatto?» balbettò, portandosi una mano alla gola. «Per l'amor di Dio-»
«Dio?» George gettò la testa all'indietro e scoppiò in una risata sguaiata, che echeggiò nelle cantine. «Dio sa cos'hai fatto, fratello. E lo so anch'io.»
Nel silenzio che seguì quelle parole, Francis riuscì a udire il battito del suo cuore rimbombargli nel cervello. Si rese conto che stava annaspando e che faticava a respirare; tentò di raccogliere aria, ma la sua cassa toracica sembrava stretta in una morsa letale e la sua gola era gonfia.
«Che ne sai tu di Dio?» sibilò, senza fiato. «Niente
Gli occhi di George erano piombo liquido che rifletteva sinistramente la luce del lume. «Io lo prego ogni giorno, fratello mio, proprio come fai tu» le sue labbra si schiusero in un ghigno, scoprendo i denti candidi. «Ma colui che prego è il Dio dell'assassinio. Il Dio della vendetta
Francis aprì la bocca per replicare ma, improvvisamente, il pugno di George lo colpì tanto forte da permettergli di udire distintamente lo scricchiolio del naso che si rompeva. Il dolore esplose, bruciante, insopportabile e Francis non riuscì a non urlare; si toccò freneticamente il viso con le mani, cercando di tamponare il sangue che pulsava.
George attese che i lamenti si riducessero a gemiti soffocati, poi si ripulì la mano sui vestiti e prese nuovamente i fiori viola, sventolandoli di fronte al viso del fratello. «È questa la pianta che ti sta uccidendo. Era una fra le sue preferite» disse e l'emozione che accendeva il suo sguardo cambiò, addolcendo i suoi tratti; per un breve istante, somigliò al ragazzo che era stato prima che tutto accadesse.
«Lei mentiva!» sputò Francis. «Mentiva, per metterci uno contro l'altro. Ha sempre mentito. È pazza. È impazzita quando i nostri genitori sono morti! Io ho dovuto rinchiuderla! Non c'era altro che potessi fare-»
George ascoltò la sua filippica e attese che le sue parole si tramutassero in gorgoglii strozzati. Lo guardò negli occhi, mentre annaspava nel tentativo di respirare.
«Io so che hai pagato degli assassini per ucciderli» sussurrò, morbidamente. «Mi ci sono voluti mesi per rintracciarli nelle fumerie, ma alla fine ci sono riuscito. Gli orientali con cui mi intrattenevo questa mattina erano Wen Zhuge, Yan-Tao Liu e Quon Wu. Eri troppo preso da te stesso per riconoscerli, ma non preoccuparti: li rivedrai all'Inferno.»
Il corpo scosso da colpi di tosse e spasmi violenti, Francis tentò invano di replicare, sputando saliva e grumi di vomito.
«So anche che Abby ti ha scoperto e ti ha affrontato» la voce di George era delicata, quasi dolce. «È stata proprio lei a raccontarmelo, quando l'ho ritrovata, dopo mesi di ricerche inutili. Ho dovuto sborsare duemila sterline, per convincere gli infermieri a farmela vedere.»
Francis cercò di ritrarsi, ma era schiacciato fra il pericolo e il legno massiccio della botte. George lo fissò per qualche istante, mentre il suo volto si apriva in un sorriso quasi divertito. «È la mia gemella, ma ho faticato a riconoscerla, tanto quei presunti medici l'hanno massacrata» sussurrò. «E mi ha detto anche cosa le hai fatto prima di rinchiuderla in quel mattatoio» ripulì il sangue dalla guancia del fratello, prima di colpirla violentemente con il dorso della mano.
Francis fu sbilanciato e cadde nella pozza di vino e vomito. Sopraffatto, si trascinò sul pavimento, cercando di allontanarsi da George, mentre il fetore dello svuotarsi delle sue viscere dilagava nell'aria.
«Mi hai avvelenato!» soffiò, la sua voce resa grottesca dalla frattura nasale e da qualche dente mancante. «Perché devi anche picchiarmi? Sono tuo frate-» un bagliore attirò la sua attenzione e le parole furono interrotte da un urlo spezzato, quando il viso di George prese fuoco.
Calde fiamme danzavano sui suoi tratti, illuminando la cantina e accentuando le ombre. Francis si rese conto che aveva smesso di respirare solo quando i suoi polmoni iniziarono a bruciare, reclamando aria.
«Sì, devo ammettere di essermi trovato in difficoltà, quando i cari assassini orientali ti hanno identificato» esordì George, le labbra di fuoco che sillabavano le parole. «Quando ho scoperto che la persona che ho odiato per mesi era il mio stesso fratello» la bocca fiammeggiante sorrise amaramente. «Ma mio fratello si è forse fatto degli scrupoli, quando ha assassinato e deflorato il suo stesso sangue?»
«Pietà!» boccheggiò Francis, tentando disperatamente di mettere quanta più distanza possibile fra se stesso e quella visione terrificante.
«No, fratello. L'unico verdetto è vendicarsi» disse George. «E diventa un voto non mai vano poiché il suo valore e la sua veridicità vendicheranno, un giorno, coloro che sono vigili e virtuosi» concluse³.
«Misericor-» implorò Francis, ma il calcio di George lo colpì alle costole, svuotando i suoi polmoni di tutta l'aria che vi era rimasta.
Il maggiore si accasciò sul pavimento, gemendo e lamentandosi. Quando i conati e gli attacchi di tosse smisero di scuotere il suo corpo, si portò una mano alla gola, sputando sangue viscido e pus. I suoi occhi erano accecati dal fuoco che avvolgeva il viso di George, la luce penetrava con violenza oltre le palpebre, bruciando la sua retina. «Perché non mi uccidi subito?» chiese.
George sorrise, i denti bianchi che brillavano nella penombra. «Credi davvero che tutto questo possa concludersi in poco tempo?»
L'unica risposta del fratello fu un rantolo spezzato, mentre il veleno continuava ad avere effetto.
«Mi deludi, fratello» commentò George Brownhill, chiudendo a chiave la porta della cantina. «Ma forse è giusto così.»


______________________

NdA:
¹ marca di assenzio molto in voga nell'Ottocento;
² marca di calici da assenzio che prende il nome dall'omonimo paesino francese;
³ ovviamente, si tratta di una citazione da "V for Vendetta", in particolare dalla versione cinematografica, con sceneggiatura dei fratelli Wachowski e ispirata alla graphic novel di Alan Moore e David Lloyd. Il fatto che George la conosca è un anacronismo, ma mi sembrava che si adattasse bene alla situazione, per cui ho deciso di inserirla.
Per quanto riguarda i sintomi dell'avvelenamento da Belladonna, mi sono basata su informazioni reperite da internet.

  
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