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Autore: B Rabbit    04/06/2014    1 recensioni
Il respiro appassì, il petto divenne sterile, il cuore sembrò pietrificarsi.
Clack

{Non-sense puro con qualche vaghissima briciola di fluff :D}
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Allen Walker, Rabi/Lavi | Coppie: Rabi/Allen
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Clack




Il buio sembrava essere calato prima del tempo a causa della scura e pesante cappa di nubi che nascondeva prepotentemente il cielo, ingentilita appena da rari batuffoli bianchicci.
Allen alzò il capo e scrutò quella spessa e torbida coltre che lo sovrastava; seguì le nubi con lo sguardo fino ad incontrare, alla fine improvvisa di quel grigiore verso l’orizzonte, una sottile striatura d’oro fuso.
Sorrise a quel vistoso mutamento di colori, luce, vaporosità e pesantezza.
Strinse la macchina fotografica, la portò al viso e stette immobile.
Il respiro appassì, il petto divenne sterile, il cuore sembrò pietrificarsi.
Clack
Sorrise nuovamente e, senza muoversi, fissò per altri secondi il panorama dal limpido mirino, rimanendo ammaliato da quel giallo intenso e magnetico che illuminava le case lontane.
Gli parve quasi magica, quella luce pura risaltata dalle nubi plumbee, e si domandò se tutto il cielo avesse quella colorazione, dietro quel drappo cinereo.
Allontanò piano la macchina dal viso e osservò il soggetto dell’ultima foto con i suoi veri occhi.
«E’ davvero bello, vero?» .
Allen annuì assorto con un debole cenno della testa, come se con le parole avrebbe potuto spezzare l’effetto suscitato da quella luminosità. Avvertì del calore, un peso gradevole sulle spalle e il fruscio di abiti dovuto al gesto; si girò e ricambiò il sorriso che Lavi gli stava donando.
«Sembra un peccato, con queste nuvole» riprese il rosso, e il più giovane riportò lo sguardo su quel nastro di bagliore pregiato. «Ma forse è grazie ad esse che la luce è così bella. La risaltano» .
Allen abbandonò il capo su quello del compagno e annuì una volta ancora, docile.



Le strade asfaltate, gli alberi robusti e i deboli fiori che spuntavano al loro fianco; tutto scorreva velocemente dinanzi e in lui, nei suoi occhioni color grigio perla limpidi di curiosità e innocenza.
Accoccolato sul sedile posteriore dell’auto, osservava il mondo correre e sparire dietro di lui, nitido o indistinto come pennellate di un quadro, frammentandosi poi come desideri stretti troppo forte in mani indelicate e cupide.
Dei luccichii prepotenti ferirono la sua attenzione ed il piccolo Allen, attratto da quei barlumi innaturali, posò gli occhi su quell’appezzamento di terra che piano si avvicinava, infilzato da file e file di paletti parallele fra loro.
Si domandò quale fosse la causa di quei bagliori che brillavano come diamanti inondati di luce, adornando ciascuno un picchetto diverso.
Allungò il più possibile il collo per scorgere meglio quello sfarfallio e attese immobile che l’auto avanzasse , che uccidesse la distanza sotto il proprio peso, sentendo la curiosità bruciare nel suo petto e muovere le fibre dei muscoli.
La vettura curvò e Allen avvertì la pressione della cintura di sicurezza attirarlo e incatenarlo al sedile.
Mugolò di disapprovazione. Guardò fuori dal finestrino, la voglia di capire che gridava disperata; alzò la testa quanto poté e, quando scoprì cosa fendeva l’aria con lampi di luce, un tenero ed estasiato sorriso arcuò le sue morbide labbra: fascette argentee o dorate erano strette intorno al paletto per sorreggere ed aiutare una debole pianta nella sua crescita.
Allen rimase in silenzio ad osservare quei nastri venir percossi dal vento, però appena la coltivazione cominciò ad essere divorata dalla velocità dell’auto, provò ad avvicinarsi di più verso il finestrino, avido di quella stranezza, ma giustamente la cintura lo bloccava, stringendogli il petto per tenerlo saldo e fermo contro il sedile.
Il bimbo fissò la cinta nera, poi suo padre per alcuni istanti: appuratosi che l’uomo non avrebbe spostato l’attenzione altrove – su di lui, magari – armeggiò velocemente con la fascia opprimente, volgendo lo sguardo a volte verso i campi, altre verso Mana.
«Ah - ah. Allen, non toglierti la cintura di sicurezza» .
Il bambino sollevò gli occhi; sbuffò e annuì in direzione dello specchietto retrovisore da cui il padre lo controllava.
«Volevo avvicinarmi al vetro…» spiegò con voce abbattuta, giocando con i fili che spuntavano dai bordi stracciati dei jeans.
Mana sorrise e tornò ad fissare la strada. «Pazienta. Siamo quasi arrivati» .
Il piccino annuì debolmente e continuò a tirare i fili bianchi e azzurrini.
Il padre lo guardò e accennò un sorriso. «Ehi, girati verso sinistra» .
Allen spostò l’attenzione dai jeans e fissò il riflesso degli occhi paterni sullo specchietto.
«Dai, su» lo incitò lui con voce delicata, gentile.
Il figlio ubbidì; volse lo sguardo alla sua sinistra e rimase stupefatto da quei fiori così simili alla lavanda che popolavano la terra al di là della strada, illuminando lo spazio con il loro color giallo.
Mana sorrise nel vedere la gioia modellare il visino di Allen.
«Dopo ci fermiamo lì?» domandò con voce argentina il bimbo, totalmente conquistato da quella distesa di fiori, che come le onde del mare si lasciava muovere dal vento.
«Non so se possiamo… vuoi fare delle foto?» .
Il bambino annuì. «Sì» aggiunse poi per non far voltare spesso il padre, e si sedette composto sul sedile. «Vorrei immergermi in quei fiori» .
«Qualche idea?» chiese curioso il papà.
«Dal basso verso l’alto. Anche davanti» .
«Sfocando un po’ il fondo?» .
Il decenne sembrò immaginare la foto terminata. «Sì… sì» e annuì con decisione.
Mana sorrise. «Va bene» .
«E dopo cogliamo dei fiori per la mamma?» domandò ancora il bambino con spensieratezza.
L’uomo girò lo sterzo e accelerò leggermente. «Si, è una bella idea» .

Vide un uccellino volare così rapidamente da non riuscire a cogliere il movimento delle sue fragili aluccie.
Allen lo inseguì, lo sguardo alto e la Canon stretta saldamente nelle manine paffute.
Corse nel prato, quasi saltellando, accennando risate e sorridendo all’agile animale, al sole che gli scaldava il viso e all’erba umida che gli solleticava i piedini nudi.
Si fermò immediatamente appena l’uccellino si posò su un sottile ramo orizzontale; avanzò piano, producendo un leggero fruscio d’erba, e rimase immobile quando si ritenne soddisfatto della distanza.
«Non volare via, non volare via» pregava con un sussurro il soggetto del suo vivido interesse mentre alzava la macchina fotografica al viso.
Mugolò contrariato quando constato che il ramo e così l’uccellino erano ancora troppo lontani.
«Vuoi che ti sistemi lo zoom?» chiese con dolcezza Mana.
«Sssh…» e puntò l’indice in alto, avendo timore che la bestiola fuggisse via; annuì poi, imbronciato per questo suo continuo bisogno d’aiuto.
Il padre sorrise ancora, intenerito dalla sua espressione e dal leggero rossore alle sue guance.
«Avvicinala al viso» gli disse ed Allen ubbidì, puntando la Canon in alto; si piegò alle sue spalle e, roteando piano piano l’obbiettivo, attese la risposta del figlio.
«Così!» esclamò lui e, dopo qualche breve attimo, pigiò il tastino nero, sorridendo al suono dello scatto.
«Fatto?» .
Il bambino annuì contento. «Sì!» .
Salutò allegramente l’uccellino, addolcendo ancor di più gli occhi scuri di suo padre.
«Vado lì!» disse poi, scoppiettante di energie, ma prima di poter iniziare a correre il genitore lo chiamò.
«Aspetta!» .
Mana si inginocchiò dinanzi a lui e gli sistemò la tracolla della macchina fotografica. «Nel caso in cui ti sfuggisse…» spiegò lui accennando dolce un sorriso.
Allen gonfiò appena le guance delicate. «Non succederà, uffa!» gli assicurò e, senza aspettare un’eventuale replica o raccomandazione, corse impacciato verso un albero, fendendo l’erba con i piedini.
L’uomo lo osservò avventurarsi in quella distesa dalle varie sfumature di verde, le braccia conserte e gli occhi liquidi di tenerezza. Poi sbatté le palpebre per lo stupore.
«Allen, rimettiti gli stivaletti!» .

Il piccolo si nascose dietro un albero, inspirò profondamente ed espirò.
Abbassò lo sguardo, arricciò le dita dei piedi e rise della carezza umida della cedevole terra.
Si rilassò contro la corteccia frastagliata del tronco e chiuse gli occhi, beandosi dell’aria pura e frizzante che gli pizzicava il petto quando respirava.
Rimase immobile ad ascoltare i fruscii della natura, ma appena sentì un rumore breve, uno scatto familiare, le ciglia vibrarono.
Aprì gli occhi e le palpebre gli svelarono un ragazzino più grande di lui dalla chioma vermiglia e il viso coperto da una macchina fotografica, simile alla sua.
Non lo aveva notato e udito, il vento aveva allontanato dispettosamente dalle sue orecchie i passi attenti di quel bambino.
Strinse di più la proprio Canon e fissò lo sconosciuto che, finalmente, separò lo strumento dai suoi occhi, svelando così due gocce di giada incastonate nel morbido viso.
«Ciao» lo salutò insieme ad un sorriso affabile.
«Buongiorno…» rispose Allen con educazione, un po’ guardingo nei confronti dell’arrivato. «Mi hai… fatto una foto?» .
L’altro bambino lo guardò per poi annuire con un cenno deciso della testa, facendo ondeggiare la chioma. «Sì, mi sembrava una bella scena… un bambino innocente che sorrideva con una Canon in mano, illuminato dalla poca luce che fendeva l’ombra dell’albero adiacente. Non credi?» .
Allen abbassò il capo, un po’ imbarazzato da quell’affermazione improvvisa.
«Beh, io mi chiamo Lavi, e se vuoi cancellerò la foto» disse lui con leggerezza, la voce spoglia di rammarico e un imperterrito sorriso a rallegrargli il viso.
Il piccolo ricambiò lo sguardo e scosse il capo. «No, puoi tenerla…» sussurrò e, ripresosi dal precedente disagio, sorrise anche lui. «Sono Allen. Piacere» .

«Hai fatto una nuova amicizia?» .
Il bimbo sollevò gli occhi verso il padre e osservò la sua espressione allegra. Annuì, tornando a guardare avanti, camminando insieme all’uomo con le mani stretta una all’altra. «Sì… si chiama Lavi ed è… chiacchierone» rispose; soppesò le parole appena dette e rimase in silenzio per qualche momento. «E’ una persona molto allegra e divertente… ispira maturità, stranamente» .
Mana trattenne in malo modo una tenue risata. «Mi sembra che gli piaccia la fotografia» .
Assentì rapito ma d’improvviso l’imbarazzo lo svegliò, scaldandogli le guance.
Il pensiero di quello scatto stranamente lo agitava nel profondo e tentò di nasconderlo al genitore.
«Mi sembra di conoscere suo nonno…» confessò Mana sovrappensiero.
Notata la vettura, Allen colse quel momento per sgusciare via dalla sua stretta e correre via.
«Forza, mamma ci aspetta!» incitò il piccolo tenendo il capo basso.



«Siamo tornati!» .
Allen si avvicinò sorridente e Lavi stette fermo dietro di lui, le mani in tasca e gli smeraldi legati alla figura del più giovane. Lo osservò mentre cercava con un’adorabile espressione corrucciata nella tracolla alla ricerca di qualcosa – e Lavi ormai sapeva cosa, troppe le volte in cui aveva assistito a quel rituale – e quando la trovò il sorriso parve acquistare una linea sicura; la estratte e, mai abbandonato dagli instancabili occhi del fulvo, si inginocchiò per posare le fotografie fatte due giorni addietro sul marmo gelido.
«Lavi mi ha portato su, in collina. Voleva che lasciassi i libri per qualche ora» .
«Studi anche la notte a causa dell’esame» .
Il ragazzo girò la testa nella sua direzione e lo guardò. Sorrise in un modo tremendamente dolce e un po’ colpevole, e il fulvo si accorse che anche la sua bocca era arcuata.
«Scemo» mormorò debolmente Lavi, scuotendo appena il capo.
Allen tornò a guardare la lastra ferita da certi caratteri neri, alcuni grandi e altri più piccini. «Visto come ci vogliamo bene, papà?» scherzò, portandosi la mano destra alle labbra per attutire la già fioca risata.

Il ventitreenne gli si affiancò e posò, inarcand0 la schiena, un mazzetto di candidi gigli sul sottile tappeto creato dalle foto – i frammenti della loro vita o i quadri che dipingevano in un secondo con la macchina fotografica – .
«Ci tengo a te» disse con morbidezza e Allen, cogliendo la sincerità in quelle parole, arrossì con innocenza. «Moron…» sussurrò nell’imbarazzo. Lavi rise.
«Non dovresti dire cose del genere davanti a tuo padre!» lo stuzzicò lui e l’altro gli rivolse un’occhiataccia come risposta.
«Va bene, va bene» si scusò allora, sollevando le mani.
Il ragazzo più giovane sospirò, borbottando qualcosa sulla presunta infantilità dello stupido coniglio, ma un delicato sorriso tradì l’apparente mestizia, spandendo così nell’animo del fulvo una confortevole sensazione.
Lavi si voltò e si allontanò un po’ per lasciare, ad ogni passo, più intimità al compagno.
Si girò nuovamente per non dare le spalle a lui e a Mana e alzò il capo – gli tornarono in mente i pomeriggi in cui quell’uomo così gentile e cordiale ed educato gli insegnava cose nuove dell’arte della fotografia – .
Sorrise al cielo ancora troppo opaco nonostante fosse marzo quando dalla sua memoria riemerse il ricordo di un impacciato e piccolo Allen, quando dalle grandi mani paterne prendeva la Canon nelle sue, ancora troppo piccine e maldestre per uno strumento di quella massa.
Espirò lentamente dalla bocca appena fiorita e abbassò la testa, annegando con occhi socchiusi nelle dense emozioni di quel tacito incontro.
Quando Allen era insieme a suo padre – quando era inginocchiato davanti alla sua lapide bianca, liscia e curata, silenziosa – l’aria greve sembrava tessere una ragnatela intorno a lui per estraniarlo dall’altro.
I suoni non gli giungevano, Lavi lo aveva capito fin dalle prime volte in cui lo accompagnava lì, in quel luogo, quando lo chiamava e la sua voce era l’unica che volteggiava nell’aria, sola e non corrisposta.
Osservò il suo profilo, la sua espressione assorta in totale silenzio; senza alcun rumore, senza alcun brusio si portò la macchina fotografica al viso – clack – e impresse nella memoria, in quella del congegno e nella sua, quel dolore muto che al giovane intristiva la voce, incrinava il sorriso e intorpidiva gli occhi. Che sfioriva la persona che Lavi aveva trovato sotto un albero, sorridente e spensierato sotto una gentile fronda rigogliosa.

«Cosa fai? » chiese Allen con una leggera nota divertente nel tono stanco, afflitto.
Il fulvo inarcò debolmente le labbra; comandò all’altro il silenzio con un fruscio suadente della voce e rimase fermo ad osservare quel fragile e delicato sorriso dietro il mirino.

Clack

















E’ magnifico il suono che produce la Canon quando scatti una foto. Lo adoro, niente da fare.

Buonqualcosa a voi e benvenuti in questo aggiornamento non bene identificato. Chiariamo le cose…
Non so cosa sia.
Chiarite le cose.
La storia… non ha molto senso, lo ammetto, la trama è inesistente, puro sclero della mia mente bakata e… sì, forse era meglio se avesse incontrato un altro tipo di luce e non quella di EFP.
Ma comunque! … Nulla.
xD
Beh… questa fic ha accumulato polvere da circa… due mesi, sì. E poteva farsene altri tipo l’eternità.
Spero che i minuti siano trascorsi decentemente e non prometto nulla circa il prossimo aggiornamento =3

Bye bye gente.

  
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